memorie del presente

Prendevo l’autostradale fino a piazza Castello, e da lì un tram sferragliante verso san Siro. Case popolari di via Novara 90, dove abitava lo zio, impiegato all’hotel Commercio 5 di piazza Fontana. Ci andavo nelle vacanze di Natale: e tra quell’odore di ghisa e di nebbia diffuso, e la neve che non mancava mai, e la compostezza di quel quartiere appartato stava il fascino della grande città che non mi avrebbe più lasciato. Appartamenti decorosi, su due piani, con un porticato ampio a far d’ingresso: essere a Milano con un soggiorno, un salotto e tre camere da letto per famiglia era una ricchezza per gente non ricca di quegli anni sessanta. È lì che un mattino, nel letto preparatomi sul divano, ho letto sul Corriere quell’elzeviro di Buzzati sul treno che va e va senza fermarsi mai, senza lasciare a nessuno di poter scendere: una metafora della vita che mi avrebbe scortato per sempre, da quel ragazzotto che ero. Ed è lì che ho imparato il bene del piccolo accanto al grande, del centro che non vive senza periferia: che diventa poi il succo di una esistenza che prende sul serio qualsiasi luogo e tempo i giorni gli mettano davanti. Ogni tanto ci sono tornato, sempre più raramente, fino alla morte degli zii; ma senza la bella stagione d’adolescenza  non ero più lo stesso, non c’era più l’atmosfera che compone quei desideri giovani che nutrono i sentimenti giovani. Un pomeriggio di qualche tempo fa, un pomeriggio d’autunno, un appuntamento mancato e la voglia improvvisa di rivedere san Siro. Ci arrivo e mi trovo in un altro mondo: cancelli di sicurezza su quegli ampi porticati studiati per accomunare gli inquilini in festa, sbarre di tipo carcerario ai balconi, graffiti luridi su muri del tutto scrostati: un villaggio quieto e sorridente diventato una banlieue angosciante. Fino a quel pomeriggio in cui vagavo per cercare almeno un pezzetto di memoria di quel che era stato quel luogo, quel piccolo paradiso di benestanti non ricchi, non avevo capito perché Gabriella ed Elena, le due cugine più giovani, da anni si fossero trasferite altrove: avessi lavorato a Milano (!) quello avrei scelto io per abitarci. Ma a poco a poco i residenti di quegli anni del boom economico, avevano abbandonato ad altri, svendendole, le loro case. Che era successo? Quello che sta succedendo: con una classe di poveri che tendono alla miseria e non a una vita dignitosa. E con una classe di arricchiti, anche se non riocchi, che preferiscono adottare i cani invece che far figli. Ci stanno dicendo che siamo a livelli di procreazione dei tempi della peste: ma i figli non si fanno quando si sta bene, ma quando si spera di poter stare meglio. Ed è questa speranza, oggi, a mancare. Ed è questa la disperazione, forse, che rende prolifici i miseri: al prezzo di ridurre case dignitose a impossibili nuove caverne. Stiamo vivendo in una società che distrugge le relazioni. Per non lasciarci impicciare dagli altri sacrifichiamo il senso di comunità. E sbarriamo la vita a noi mentre costringiamo altri a vivere dentro sbarre. Nella solidarietà che viene dal comandamento evangelico – il tuo vicino nudo affamato perseguitato – non dovremmo permettere che le città siano distrutte, che la bruttezza abiti la terra delle nostre memorie migliori.


di martedì

Se uno deve addormentarsi – l’ora è scoccata e la giornata è ormai finita – e un ultimo suo metodo è quello di farsi aiutare dalla tv, può succedere che una trasmissione invece ti tenga sveglio. E non per un grande interesse. Anche, qua e là. Ma per la rabbia che impedisce a Morfeo di trascinarti nella dolcezza di un sonno, quand’anche immeritato (immeritato, perché? ogni vita merita un riposo!). Potresti anche cambiar canale, suggerirebbe chiunque: ma tra morti sparati e lugubri viaggi in città perdute, l’unica è affidarsi alla noia di chi ripete da mesi le stesse cose. Dunque dove la rabbia? Lo avrete notato anche voi: gli applausi, che scattano ogni minuto e mezzo al massimo (e dunque quanti saranno in quasi tre ore di trasmissione?), gli applausi per l’uno e il contrario dell’uno: a susseguirsi. Senza vergogna. Dite che hanno radunato due claques contrapposte? L’intensità farebbe pensare che sono gli stessi che applaudono l’uno e l’altro. Ma quand’anche ci si programmi per contrapposti, si potrà pur accettare che una piccola parte di ragione, in tutta la serata, possa avvenire per la parte opposta. Inaccettabile, per qualsiasi ragionevolezza. E ti monta dentro quella ribellione che diventa adrenalina, la nemica del sonno pacificatore. Ma tant’è: non si vive più di ragionevolezza – ammettiamolo finalmente! – ma di pure emozioni: che trovano uno sfogo per quanto illusorio nel produrre fracasso. I monasteri conservano intatta la regola del silenzio: perché lì l’intelligenza dispiega le sue ragioni sulla vita. Quanto si è avvertito che applaudire nei funerali è qualcosa, almeno, di sconveniente? Come si può avviare all’aldilà, qualunque esso sia pensato da chi è a un funerale, immergendo nel fracasso di mani quando non di voci il caro estinto? Che, il caro estinto, a volte può essere anche poco caro. Ma tant’è, poverino, è vero: un po’ drogato, un po’ infedele, un po’ meschino, ma insomma perché non compatirlo? Solo che solo il silenzio, nel caso, potrebbe essere compassionevole. E così l’applauso ha la stessa ipocrisia di quello in uno studio televisivo; d’altra parte ormai la vita sembra allestita per un set: casalingo, o di sagrato, per non dire di quelle piazze dove si crede di inscenare la democrazia. È uno sfuggire a sé: è così difficile da capire e da far capire? È difficile. E se ne vedono i frutti. Tutti in selfie dietro il pifferaio di turno. Dimentichi di parole pesanti come il piombo ma leggere per l’anima, che solo nel silenzio di mura antiche risuonano dentro sé; o nel composto viaggio di chi coglie il sussurro di foglie e di insetti, nei boschi di silenzio che la vita offre. quello che non è stato per Noa, l’olandesina cui è stato permesso di togliersi “legalmente” la vita. E che sia silenzio profondo per lei. Almeno per lei. (Di quel martedì, ieri, la conclusione è stata spegnimento del televisore e il libro da comodino: che però intriga, e dunque rimanda il sonno. Ma almeno c’è pace).


Le piazze al voto

Lo spettacolo di Milano, per chi l’ha visto, non è stato bello. Anche offensivo quello sventolare un rosario, dopo qualche mese dalla chiamata a un giuramento sul vangelo: che oltre tutto, in quelle mani, sembrava intonso!. Certamente intonso era nella testa, per lasciar perdere il cuore, di chi li ha sventolati. Perché se c’è qualcosa che non appartiene a quelle piazze è proprio il vangelo: dice di stare attenti a non ricevere i forestieri, che è il termine più comprensibile che si possa applicare ai migranti, questo cavallo di battaglia che, si dice, procurerà una valanga di voti allo sventolatore. Forestiero: comprensibile ché racconta di chi viene da fuori, appunto. Ed è evangelico non tenerlo fuori. Di una chiarezza inattaccabile; anche se troverete tra i frequentatori dei templi cattolici tutti i distinguo che di fatto lasciano fuori: sì però, chi, perché viene, non è molestato da guerre, e insomma la fame l’hanno fatta anche i nostri antenati. Antenati – per la verità storica del tutto dimenticata, o forse mai tramandata – che si sono stipati su navi per raggiungere le americhe, o hanno chiesto asilo alle nazioni vicine, oltralpe. Ma tant’è: è sempre vangelo che non c’è peggior sordo di chi non vuol ascoltare, di chi non presta orecchio per intendere il grido di chi fugge, di chi bussa. Ma quanti di quelli che pure sono battezzati, si sono offesi? E come possono frequentare le eucarestie, quanti negano il pane della propria abbondanza a chi è nel bisogno? e come possono accettare di predicare sul sesso degli angeli tanti omileti domenicali, non facendo scendere le loro chiese dalla regione dei principi alla realtà di una Parola che chiede di essere spezzata, anche sulle reni della nostra incomprensione? La piazza di Milano viene da lontano: viene dalla contestazione di cristiani perfettini (a proprio dire) che hanno scelto di stare a destra contestando il cardinal Martini; viene dai frequentatori del dio Po, e da “quelle camicie verdi che  affogheranno il Vaticano nel water della storia”; viene da chi arrivò a urlare, applauditissimo, che «come già accade nel bergamasco, i fedeli andranno in parrocchia con il fazzoletto verde e si alzeranno se solo sentiranno pronunciare certi sermoni”. Appunto: non si sono alzati, perché non hanno sentito certi sermoni. È tempo di prenderci le nostre responsabilità – e lo dico innanzi tutto per noi preti – di sentirci complici di chi ha fischiato, nella piazza di Milano, Francesco e il suo vangelo sine glossa. Non abbiamo detto sui tetti quanto ci è stato consegnato. Così come i laici cristiani non hanno saputo opporsi, sempre educatamente ma fortemente, ai discorsi da bar e da officina, alle bestemmie di chi si dice cristiano per devozioni, e non per l’obbedienza della fede. Per non dire della ignoranza che contrappone questo papa ai suoi predecessori: come se non avessero detto sia Giovanni Polo sia Benedetto, le stesse cose di Francesco, sia sul diritto dei popoli di cercarsi una patria possibile sia riguardo agli zingari: ”I Nomadi sono poveri di sicurezze umane, costretti ogni giorno a fare i conti con la precarietà e l’incertezza del futuro”. Ma è un’altra predicazione, di cui ci si dovrebbe nutrire. O non è che i preti, e i cristiani, si sono accomodati in una religione che non è più evangelica? Che rinnega la creazione di Dio, di cui tutti siamo figli, allo stesso modo, e semmai con una preferenza per chi è più fragile? Ecclesia sempre reformanda: e se non si riformano i cuori, le nazioni saranno sempre più xenofobe. Non sarà che la chiesa oggi non sa dire al mondo perché coloro che la abitano non sanno più vivere di vangelo?


Siri

vescovo a Genova a trentott’anni, e cardinale a 47: e in un tempo di gerontocrazia ecclesiastica piuttosto pronunciata (e che sembra durare tuttora: ma è prudenza, secondo una scuola di pensiero, che vuole uno stagionato rispetto a chi potrebbe ancora risentire delle tempeste, più o meno ormonali della crescita, che non si ferma alla gioventù). Tuttavia da sempre il nostro professore di storia ci avvertiva con forza: strage della Chiesa il nepotismo. Che non è, manco a dirlo, solo quello familistico: ma che compare in quelle preferenze dell’uno rispetto ad un altro, al di là dei meriti. Non che Giuseppe Siri non fosse uomo intelligente e virtuoso al punto giusto. Ma certo si ingessò in un paludamento che non gli fece sentire l’ebbrezza di un’aria nuova: sarebbe stato fedele al Concilio, avrebbe detto lui di se stesso; ma con tutte le riserve di una obbedienza che nasce dal sentire del dover restituire una fiducia. Intelligenza inevitabilmente compassata, e di senso unico. Imitato recentemente da un altro porporato, già segretario della congregazione vaticana della liturgia – quello che attribuisce lo spopolamento dei fedeli all’aver tolto le balaustre nelle chiese! Dunque il cardinale genovese (genovese di etnia e di episcopato) nella sua conclamata fedeltà al Concilio, certo non ha mostrato d’averne colto lo spirito: imporrà per la durata di tutto il suo episcopato, e saranno ben quarantanni, che sugli altari rivolti al popolo ci fossero sempre almeno due, se non quattro candelieri, e la croce in mezzo (già Francesco Giuseppe, anche lui dal regno ‘secolare’ si occupò di candele, ricordate?): “perché i candelieri distinguono l’altare cattolico da quello acattolico, e ciò è della massima importanza”. Alla barba dell’ecumenismo. Preti, quelli di Genova che si distinsero per decenni dagli altri italiani, perché tenuti da disposizione arcivescovile a indossare la tonaca, in tempi di transizione al clergyman. Insomma uno tosto, il nostro cardinale. E tuttavia, o per questo, indicato come papabile in ben quattro conclavi: al suo biografo R. Lai racconta che le prime due volte ha declinato l’invito dei conclavisti, le ultime due no, volendo, diventando papa, correggere i disastri usciti dal Concilio (certo, precisa, non quello vero, ma quello corrotto dei progressisti). Ma non è stato eletto: e chi avesse ancora dei dubbi sullo Spirito santo che aleggia in Conclave, si ricreda! Perché oltretutto quel sentirsi bravo per la nomina a nemmeno quarantanni, qualche problema psicologico glielo può aver creato: del teologo Ratzinger ha detto senza paura di passare per vanitoso: “quel che apprezzo di lui è che diciamo le stesse cose, ma io le ho dette prima di lui”. Che può essere vero, aldilà della cifra teologica diversa dei due (anche se, confesso, potrebbe essere successo anche a me di dire cose, a me come a tanti altri, prima di un papa o di un vescovo). Insomma un bel tipo. E a questo punto mi rimbombano nelle orecchie le domande ovvie: ma perché ne scrivi? Semplice: per assonanza con l’altro Siri, il contemporaneo, pure lui genovese. Se le Iene, e gli svariati elefanti in cristalleria dei media, non hanno ancora trovato collusioni (nepotistiche) tra un sottosegretario e il cardinale d’allora, vuol dire che non ce n’è. Ho dunque messo le mani avanti. La Chiesa ha già tante grane da risolvere nell’oggi, non creiamole pasticci posticci. Magari inventando parentele che giustifichino. No: eventualmente, le colpe dei cardinali non facciamole ricadere sui nipoti.


rettitudine

Ricordo, tanti anni fa ormai, di non essermi fermato più di tanto davanti alla Gioconda. E non solo per quell’ammasso di persone che “si devono” fermare – e ancora non c’erano i selfie, mi immagino adesso! (A parte che alla Gioconda preferisco di molto i ritratti del bergamasco Moroni, di una intensità esistenziale imparagonabile: ma non è voce di critico autorevole la mia. È per l’istinto che mi conduce a scegliere e non ad essere scelto da mode. E non per snobismo da intellettuali: semplicemente – per grazia? per fortuna? – in tempo di influencer sta a dire che non tutti e non da ora debbono essere afflitti dal fare e/o pensare come ti vorrebbero altri). Naturalmente potrei scandalizzare i fans che riducono, loro, il grande Leonardo a quel ritratto e non all’opera complessiva che lo ha canonizzato come il genio che è stato. Alessandro D’Avenia cita oggi sul Corriere un racconto che avevo già conosciuto. Narra di un pellegrino, uno dei tanti nel Medioevo in cammino verso un santuario, che si trova su una strada tra grandi cave di pietra, in una giornata di sole cocente. Vede uomini impegnati a sgrossare le pietre con i loro scalpelli e si ferma a osservarne uno, coperto di sudore e polvere, le braccia ferite dalle schegge. “Che cosa fai?” gli chiede. “Non lo vedi?” risponde l’uomo infastidito, senza alzare il capo: “Mi ammazzo di fatica”. Il pellegrino riprende il cammino e incontra un altro spaccapietre, altrettanto stanco, sporco e stizzito. “Che cosa fai?”. “Non lo vedi? Lavoro tutto il giorno per far mangiare i miei figli”. Il pellegrino continua il viaggio e incontra un terzo scalpellino, malconcio come gli altri, ma sereno. “Che cosa fai?”. “Non lo vedi? — risponde l’uomo sorridendo — sto costruendo una cattedrale” e gli indica l’edificio che sta sorgendo in cima alla collina. Il racconto dice dell’essenziale invisibile agli occhi: invisibile per il primo, visibile solo parzialmente agli occhi del secondo, diventa chiaro al cuore intelligente del terzo “non come illusione o emozione ma come orizzonte di senso che trasforma la mera fatica del lavoro in vita”. E dunque in rettitudine. La stessa che mi ha colpito nell’allenatore inglese di calcio, che obbliga la sua squadra a lasciar segnare gli avversari, dopo che i suoi erano passati in vantaggio approfittando di un giocatore avversario a terra infortunato. E così perdendo la possibilità di una promozione. Ma non la faccia, che in un gioco competitivo come il calcio sembra invece essere l’ultima cosa da perdere, almeno qui da noi. Non so se ne vedete subito il nesso; ma mi ha colpito in una intervista quel che dice il regista di quell’inguardabile film (a tratti inguardabile, se solo t’immedesimi nella sofferenza di quella creatura dodicenne!) che è L’esorcista. Dice – lui un ebreo convertito alla fede cattolica: “Ho voluto che il prete celebrasse messa come se credesse a ogni parola pronunciata, non come spesso si vede in chiesa, con la messa celebrata molto velocemente, tirata via; invece ho fatto sì che il prete nel film celebrasse la messa molto lentamente, con fede grande e profonda nelle parole”. Il nesso? Il nesso è la rettitudine. Qualità che non sempre è presente anche nelle migliori opere, nelle migliori mani. La rettitudine che è molto più della morale: ma è il sentire secondo coscienza. Siamo in un tempo che davvero aspetta di stravolgere tanti modi di guardare alla vita; e ci è chiesto di riguardare a tante maniere clericali di affossare il bene degli individui. Un tempo in cui le chiese dovrebbero interrogarsi se certi movimenti di cambiamento non abbaino il tarlo del gattopardismo: tutto cambiare perché non cambi nulla. La rettitudine chiede di vedere l’invisibile e di tenerselo ben stretto, per non negare al mondo l’ampiezza degli orizzonti, il tutto del Nazzareno che venne predicando la terra e il cielo. E non il cielo senza la terra.


vigilia

È bastato che un testo di Benedetto, già papa, rinfocolasse in una parte del popolo cattolico le divergenze sotterranee tra l’uomo Ratzinger e l’uomo Bergoglio: divergenze che datano dalle gloriose dimissioni di quel papa tedesco. Come se la Chiesa fosse un campo calcistico, dove due squadre si affrontano non tanto per vincere, ma per umiliare l’altro. Per grazia di Dio, nella Chiesa è come nel calcio: non tutti vivono della acrimonia più o meno banditesca dei tifosi. Non tutti si schierano sulle qualità diverse che pure fanno dell’umanità dei due – e quindi del pensiero, e quindi della sensibilità – una ricchezza  per questi anni per altro un poco foschi. Foschi anche per l’argomento che ha fatto venire a galla i due opposti estremismi: dopo una convocazione di tutti i capi-vescovi del mondo sul come affrontare il tema della pedofilia, questo testo di Benedetto: che facendo risalire l’obbrobrio agli anni sessanta, sembra dare la colpa del fenomeno al movimento del ‘68.  Che quell’anno – quell’epoca – sia stato un momento in cui il mondo ha particolarmente dimenticato Dio, sì, ma lo si può discutere; che “la morte di Dio in una società significa anche la fine della sua libertà, perché muore il senso che offre orientamento” è condivisibile con alcuni segni di interpunzione; e che “i criteri validi sino a quel momento in tema di sessualità siano venuti meno completamente” lo si può dire, purché si accetti che ciò che emerge è ciò che già c’è: latente, fino a quel momento, mal ruminato, ma c’è. Il Dio dimenticato viene da lontano: da un mondo che lo cerca solo quando si trova male, e da una predicazione cattolica che non sa guardare al cambiamento. Papa Giovanni ci aveva avvisato, seppure con un bel po’ di ottimismo – e si era negli anni sessanta: guardate i segni dei tempi. Illusi che quella primavera della Chiesa nel Concilio fruttasse in una estate rigogliosa; ma pare proprio che tutte le primavere contemporanee risultino sterili a non lungo andare: sia quelle politiche, sia quelle ecclesiali. Perché è l’uomo che da sempre si cerca; e cercandosi facilmente sbaglia. Perché il male c’è anche nel migliore degli uomini. Ed è solo facendo i conti con l’io malato che ciascuno riceve alla nascita, che si può sperare contro ogni evidenza sulla propria buona (=bella) risultante: accettando i limiti, lavorandoci su come si dovrebbe, perché ogni primavera si evolva nella stagione successiva che la giustifica per il suo essere. Ma soprattutto chiamando il Signore davanti alla propria vita: Lui, il Salvatore che rinnova nella memoria la sua Pasqua nei giorni che si aprono. In vigilia, pronti ad andare incontro a Lui che sta venendoci incontro. Fin dalla nascita.   >>>  ( Note a seguire_ Non è che il pur vasto fenomeno della pedofilia nella Chiesa sia sottovalutabile, ci mancherebbe!: tuttavia una enfasi eccessiva – che rasenta la grancassa – ha non solo arricchito avvocati di qua e soprattutto di là dall’Oceano, ma è stato foriero di una mancanza di pudore, facendolo quasi diventare l’unico argomento cattolico di questo decennio. E poi: se Benedetto avesse continuato il suo magnifico isolamento per altri sei anni, non avrebbe offerto il fianco ai suoi spasimanti contro quel legittimo successore di Pietro cui lui ha dato e sta dando totale adesione. E poi ancora: se finalmente qualcuno nella Chiesa si dicesse: questa non è la mia Chiesa, e se ne andasse, farebbe un gran favore al popolo santo di Dio; perché la Chiesa possa continuare ad essere l’unica santa cattolica ed apostolica che è in quanto è ecumenica, potendo dire sui tetti che Cristo non è solo per i cristiani di battesimo, ma salvatore di tutti, ma tutti, gli uomini – e loro, si sa, potrebbero salvarsi pur forse in un girone diverso del paradiso. Ecc ecc. ).


la stupidità

È un proverbio arabo: “Tacere quando uno stupido ci rivolge la parola è rispondergli con il più eloquente dei discorsi”. Che apparentemente può sembrare poco caritatevole. Ma apparentemente. È che a chi non vuol sentire, perché si ama troppo per ascoltare, può capitare di sentire l’eco del proprio vuoto nel silenzio altrui. Non sempre, ma tentare questa strada certamente non nuoce. Così, alla valanga di notizie che ci arrivano addosso da giornali e tg da quella zona non tanto franca che è in questi giorni Verona, il rimedio può essere il silenzio? Le stupidità di là vogliono cucire addosso alla chiesa un vestito che non è il suo. E dunque è sufficiente il silenzio? Essere diversamente cattolici lo si può giocare su sponde diverse: di chi si vive oggi come una minoranza attraccata al Vangelo, e chi s’attacca alla tradizione come fosse un totem intoccabile. Lo Spirito Santo per costoro non veleggia più come vuole quando vuole nel mare del tempo: è, ingrigito, imbalsamato in una morte sacrilega. Per davvero, così, Dio è morto. Per raccontarla a questo modo, occorre che la minoranza cristiana parli con parole non anaffettive ma passionali, perché il giudizio va compiuto: pena una ipocrisia che sembra annidata in silenzi questi sì complici di tanti preti e vescovi e battezzati. Dunque tacere e parlare, a tempo opportuno e importuno, sono le due azioni da contrapporre alla stupidità dei tanti pur battezzati che sta danneggiando la Chiesa. Certo, nel parlare spesso si equivoca: e in questi giorni si equivoca molto sul Medioevo: l’età dell’oscurantismo, è nei pensieri un luogo comune. Che come tutti i luoghi comuni pecca di parzialità. Nessun tempo infatti sfugge alla fragilità; ma nessun tempo può rinnegare le proprie ricchezze. C’è anche chi le sta mettendo in fila, le luci medievali, e per finalmente far uscire dall’idea di una età maledetta. E l’elenco è ricco di nomi: Benedetto da Norcia – e ricorda i monasteri che han fatto l’Europa – e il sommo Dante, e il magnifico Giotto, e Francesco d’Assisi; e ricco di creazioni: nascono le università, la stampa, il commercio. Insomma nasce là il meglio dell’oggi che conosciamo. Non è quello il tempo oscuro, ma questo: di chi si inarida su greti che non generano l’uomo nuovo, quell’uomo evangelico che rinasce sempre più accostandosi alla novità del Risorto. Per dirla in termini di fede. Vedete: qui sta esplodendo la primavera: nuvole di fiori bianchi sugli alberi che costeggiano la collina. Ma è primavera senza un vero inverno a precederla. Sta finendo un marzo pazzerello, come poetavano gli abbecedari della mia infanzia, che pazzerello non è stato: neppure una secchiata d’acqua a ritmare giornate di sole. Così è quest’epoca: senza ritmi di stagioni o di giorni che inducano a vivere l’esistenza vedendosi nello specchio della propria creaturalità. Narciso può evitare di annegare nel tentativo di raggiungere la sua immagine riflessa se un altro sguardo lo (chi)ama. O non ci si apre allo sguardo che ama davvero, o ci si consegna allo sguardo di chi non ama davvero. Questo mi pare oggi molto diffuso: dentro e fuori i recinti della Chiesa. Perciò l’età oscura può diventare questa, altro che Medioevo. Il tronco nell’occhio di molti, a Verona e non, sta infliggendo al mondo uno spettacolo terribile: quello dell’ipocrisia nascosta da rosari. Parce Domine.


misericordia

Si racconta che Mussolini avesse posto l’alternativa: burro o cannoni? E gli italiani gridarono cannoni. E così fu. E così fu la guerra. A qualche decennio di distanza, sembra che si sia ancora lì: cambia il tipo di armi, ed è cambiato il campo di battaglia, ma … siamo diventati un Paese incattivito, scorretto e violento come mai prima, secondo le parole di chi studia usi e costumi della nazione. E non consolano le parole di Umberto Eco: i social hanno dato diritto di parola a legioni di imbecilli. Perché i social sono oggi il gran campo di guerra di questa generazione: possono essere una fogna di cattiveria e bassezza. E nulla cambierà fino a quando chi insulta, diffama e chi minaccia potrà farlo impunemente. Alla faccia di chi si scandalizza quando si dice: il popolo è bue. Non è aristocrazia da intellettuali, ma puro riscontro di quanto sta avvenendo: che debba il Presidente della Repubblica ricordare che la legge Merlin – quella che chiuse le case chiuse – sia stato un buon primo esito per la dignità femminile; e che questo monito sia stata una risposta indiretta a un ministro – quel ministro che sta facendo carte false per diventare primo ministro! – che aveva appena ventilato la possibilità di riaprirle, le case chiuse, dice tutto: di quali argini occorra alzare per la smemoratezza che dilaga più che il Po quand’è in piena. Altro che smilitarizzare i cuori, come chiede Francesco papa; occorre innanzi tutto smilitarizzare i pollici: sennò, il che male c’è sarà inevitabilmente il ritornello di chi non si lascia toccare da alcun avvertimento. Atteggiamento proprio di chi deve assolutamente  crearsi il mondo nel quale vuole vivere, anche a prezzo di disprezzare o distruggere il mondo reale. Un appoggiarsi sul nulla, perché nulla è all’infuori di lui, come scrive Ortega Y Gasset: tra le favolose imprese del barone di Münchhausen, si racconta che si sia salvato dalle sabbie mobili tirandosi fuori per i capelli insieme al proprio cavallo. Appunto, è il diritto alla bugia: alle bugie che inventano delitti o li nascondono. Solo da ora? no, ma sicuramente più di ieri per la possibilità che ciascuno oggi ha di raggiungere il mondo: purché sia dotato di pollici semoventi, indipendentemente dalla testa. Anche se a volte ci si accorge che occorre molta testa per inventare la realtà che non è, per dunque innescare processi di annientamento: che è poi l’argomento principe che stabilisce l’esistenza del diavolo, l’intelligente senz’anima, il geloso del divino all’ennesima potenza. È difficile per chiunque pensare che la misericordia nell’aldilà tocchi a quanti hanno fatto dell’ipocrisia il loro sistema di vita. Difficile credere che la misericordia tocchi anche chi, come Hitler, ha posto all’inizio dello sterminio di ebrei delittuose menzogne. E difficile credere che si salvino dall’inferno quanti vorrebbero, oggi, mandare nell’esclusione chi è diverso da sé, dal proprio credo religioso o politico. Ma si sa: Dio è diverso da noi. Dio è difficile.


oggi

Abbaglio e illusione è sognare. E non dico dei sogni notturni, che finalmente sono riapparsi da alcuni anni nella mia soglia notturna: e lontani dagli incubi dell’adolescenza e della prima maturità, semplicemente imbastiscono desideri diurni inconsci che rasserenano per la sveglia che mi attende. Pacificanti, loro. Parlo naturalmente dei sogni ad occhi aperti, questi “sogni” che contaminano ormai tanti discorsi, in tante rive diverse. Perché non mi è mai piaciuto inseguire i sogni, sognare? Perché sono diversivi e devianti. Perché poi ci si sveglia, per trovarsi nei giorni che sono fatti di realtà. Per stare a noi: sognare una chiesa diversa dal Concilio in poi? E poi, invece, ci ritroviamo in una Chiesa che costruisce una assemblea piegata sulla pedofilia di alcuni suoi membri. Non che non sia un atto terribile, non che si possa sminuirne la sofferenza in chi è vittima. Ma questo bersaglio mondiale sulla Chiesa, e che questa assemblea di fatto amplifica, diventa, che piaccia o no, un’arma di distrazione di massa. Ben altre le radici su cui comporre l’attenzione: limitarsi a staccare le foglie secche, e non sprofondare nel terreno che le produce, è senz’altro ripiegare sulla inutilità. Quello su cui la Chiesa deve piegarsi è il vuoto della fede: perché questo vangelo massacrato nelle sue grida sopra i tetti? perché dunque i seminari deserti? perché chiese ormai avviate a chiusura per mancanza di eucarestie celebrate in nome del Signore? perché parole senza eco nell’anima dei contemporanei? perché il silenzio che emana dai pulpiti sulle ingiustizie del mondo? perché questa fuga dal conflitto che pronuncia verità nella babele dei linguaggi odierni? Insomma: perché nessuno sferza chi vuole una fede accomodata su di sé, rincorrendo nuovi moralismi o rigidità antievangeliche? Queste alcune domande che un gruppo di preti si sono rimandati, in una di quelle mattinate in cui si porta la propria stanchezza, ma insieme la propria irriducibilità all’andazzo corrente. E non sono preti né papisti né antipapisti, questi ultimi che stanno invischiando la Chiesa in una spirale di decomposizione (ricordano i miei ventiquattro lettori dell’inevitabilità di uno scisma purificatore: purezza di testa e di cuori, non di corpi, questi destinati all’impurità come connotazione di incarnazione?). Sognare quel che non si può – l’estirpazione del male – o semplicemente comporre i desideri di quello che è possibile ottenere? Da una montagna, come dice Matteo, o da una pianura come scrive Luca, si stende la lingua delle beatitudini: che non sono sogni ma promesse, per chi chi desidera mettersi in gioco, e non attendersi facimenti magici. Di questo tempo elettrico, un assolato che non dà scampo al secco del terreno, oh come desidero il maestrale della Camargue, impetuoso e fragrante di mare! Un desiderio possibile, reale: basta che mi metta in viaggio verso quella pianura fra il mar Mediterraneo e i due bracci del delta del Rodano, una terra abitata da fenicotteri rosa e cavalli selvaggi.


il tempo

Oggi la neve si sta sciogliendo. Ed è sgradevole da sempre per me: quello sgocciolio dai tetti dice una fine, la fine di una bellezza, la fine del tempo bello. Tenendo separati sostantivo e aggettivo – tempo e bello – per dare segno ai tempi, per finalmente sapere di che condizione si vive, e in verità. Checché ne pensano quanti ormai usano beltempo e maltempo come fossero interscambiabili. E infatti, per i quanti, è beltempo se c’è sempre cielo azzurro – o anche cinereo, come succede con l’inquinamento che inevitabilmente si fa con il cosiddetto beltempo: quel che conta è non piova e/o non nevichi. Perché, appunto, è maltempo se piove. Non fa nulla che si soffra per due mesi di siccità: sconfiggete la siccità, ma non toglieteci il beltempo. Di contraddizioni è piena la terra, dice la Bibbia: e non ci si può fare nulla quando la natura si svolge secondo calamità. Ma delle contraddizioni dell’uomo è bene avvertirsi: spiacevoli? è il meno che si possa dire. Pericolose invece. Perché toccano il cuore dell’esperienza conoscitiva della bellezza: certo il cielo di Lombardia così bello quando è bello, e chi lo nega? un cielo azzurro solcato da setose nubi bianche, chi non lo gode? Ma pure un’acquata improvvisa, a catinelle, d’acquerugiola o d’acquazzone, a irrorare la terra, a liberare uomini e donne da quell’elettricità corporea che tocca pure, talvolta e nocivamente lo spirito – chi non ne gioisce? Solo i quanti che non sanno – e non vogliono sapere – il bene dell’alternanza: oltretutto un dono gratuito riservato a questa regione climatica in cui ci è capitato di vivere, rispetto ad altre zone meno favorite dalla sorte. Appunto, è la bellezza di cui non si ha più dimestichezza: racchiusi nel presente, incapaci dell’intelligenza che si ciba della diversità. Ditelo a quanti si beano di trasmissioni televisive dove la dignità non è di casa, e la volgarità nutre ore di dimenticanza di sé; o a quanti intendono la propria identità come oppositiva e negatrice dell’altrui: quel che avviene contro i migranti è quanto avviene già nelle famiglie. L’altro non è; o è da poco, così da poco da non farmelo considerare. Forse perché nero non è luce? o disabile, più o meno conclamato, non conta? E se la bellezza fosse nell’eclisse di luna, che si veste di nero, che toglie luce, ma così prende consistenza la sua presenza, a falce o tondeggiante in un cielo scuro? Sto chiedendomi dove sta la bellezza di questa stagione della Chiesa, con poca luce, in una atmosfera di piovaschi uggiosi. E mi dico che c’è, baluginando qua e là in piccole luci di grandi uomini, di donne splendide. Non fanno orchestra, ma preparano il concerto: di chi vive sperando e affidandosi. Di chi sa ringraziare per il bello e il brutto tempo; insomma, per le stagioni della vita. Perché la vita è comunque bellezza