chi c’è dietro l’attacco al Papa

Mi si chiede di dire sul caso Viganò e sulle sue accuse al Papa e non solo, che i media hanno ampiamente sottolineato. Siamo allo zero-punto-due della Chiesa? forse a un’altra purificazione radicale dopo i cinquecento anni da Lutero? Intanto, faccio mio l’articolo di Alberto Melloni, che rappresenta appieno quanto penso.

chi c’è dietro l’attacco al Papa – Che un vecchio prelato, furibondo per non avere fatto carriera, covi risentimento verso il Papa è l’abc del cattolicesimo romano. Che usi i giornali per vendicarsi è un déjà vu, dai tempi in cui il cardinale Ottaviani affidò a Indro Montanelli carte per denigrare papa Giovanni. Che dunque un nunzio – monsignor Carlo Maria Viganò – decida di far sapere poco diplomaticamente che papa Francesco avrebbe ignorato le sue denunce, e gli chieda di dimettersi, non dovrebbe stupire. È infatti la conferma di un dato preoccupante. Nella selezione dei candidati all’episcopato sono stati scelti uomini privi delle doti spirituali e della stabilità psicologica richieste. Così fra quelli che hanno governato le diocesi coi preti pedofili, troppi si sono resi complici in guanti bianchi dei delitti. Fra quelli che hanno servito la Santa Sede alcuni si sono rivelati omuncoli disponibili a giochetti come questo di Viganò, che per la sua puntualità sordida e mafiosa è impossibile credere non sia stato pianificato, orchestrato e temporizzato. Non da lui, ma da qualcuno che ha scelto di fare di lui un Corvo in talare. Scelta non casuale. Quando il 1° ottobre 2011 Benedetto XVI nominò il cardinale Giuseppe Bertello Governatore della città del Vaticano non gli fece un favore: diplomatico di immensa esperienza, dotato di un tatto politico unico nella infinita crisi italiana, Bertello aveva la statura per fare ben altro. Ma il Papa – che preferiva a un segretario di Stato “un confidente” amico – si tenne la lealtà del cardinale Bertone e “usò” Bertello per risanare quell’ultimo e chiacchierato residuo di potere temporale. Scelta intelligente: che però tagliava la strada a Viganò che, dopo un periodo in Nigeria e dieci anni in Segreteria di Stato a Roma, era passato proprio alla segreteria generale del Governatorato, convinto di poterne scalare il vertice e diventare cardinale. Già a primavera 2011 Viganò aveva fiutato aria di fronda attorno a sé e aveva scritto ai superiori spiegando che erano i colpevoli di una mala gestio che volevano bloccare la carriera a cui si sentiva vocato e rimandarlo a fare il nunzio, in una sede prestigiosa ma lontana dal suo attico. E in effetti il 19 ottobre 2011 Benedetto XVI nominò Viganò nunzio negli Usa. Cento giorni dopo, con la pubblicazione di quelle sue lettere di accuse, iniziava la compravendita di carte dell’appartamento papale che va sotto il nome di Vatileaks. A Washington Viganò doveva però essersi consolato pensando che Francesco lo avrebbe premiato per quei suoi passi. E rincarò portando nuove denunce. Invece niente: Francesco ha atteso che avesse l’età per la pensione, lo ha congedato dal servizio e anziché lasciargli l’appartamento che il monsignore s’era tenuto in Vaticano, gli ha fatto dire che poteva tornare in diocesi. Ce ne sarebbe abbastanza per spiegare un gesto vendicativo, ma autolesionista (se Viganò sapeva più di tutti, più di tutti ha taciuto). Ma quel che è chiaro è che qualcuno ha fatto di un pollo il Corvo. Attaccare papa Francesco alla fine del suo viaggio irlandese, a sei giorni dalla lettera al popolo di Dio, a un mese dal ritiro della berretta cardinalizia a McCarrick, prima dell’arrivo del nuovo Sostituto e del rientro del Segretario di Stato, nasconde un disegno: che non ha nulla a che fare con la pedofilia, ma col tentativo di saldare l’integrismo anti-bergogliano con il fondamentalismo politico cattolico. Cioè il mondo dei tradizionalisti legati al cardinale Burke, che ha deciso di passare dai dubia alle calumniae scommettendo sulla possibilità di agire come blocco in un futuro conclave. E il mondo della “destra religiosa” americana ed europea che da quella grande chiazza nera stesa fra Monaco e Budapest, fra Danzica e Roma, sogna di smantellare l’Europa della pace per farla ritornare la terra degli Dei della Guerra. Chi ha insignito il pollo del ruolo di Corvo voleva misurare l’effetto di una bufera mediatica non su Francesco, ma sul collegio cardinalizio, sull’episcopato, sui teologi; poi si vedrà.


compagno/a

Una volta era l’orgoglioso modo di sentirsi appartenente alla schiera di chi il mondo lo leggeva con occhi di giustizia; o come appartenenza sociale: compagno di scuola, del servizio militare, di squadra sportiva, e che si prolungava ben oltre gli anni. Ora è cambiato l’uso. Adesso ha preso il posto di quelle definizioni che stavano a segnare un cammino d’amore: fidanzato/a, sposo/a. A sentir dire, oggi non ci sono più mogli e mariti. Ci sono compagni. Però a me sembra che manchi l’orgoglio nella pronuncia, quell’orgoglio che era frutto di una scelta condivisa, di un offrirsi al mondo insieme. Certo, un tempo non c’erano i divorzi: e dai molti lo si racconta come fosse una disgrazia. Mentre disgrazia è questo condursi di fiore in fiore, neppure si fosse dei calabroni. So che è un parlare nel deserto, al deserto. E mi rintronano le orecchie di accuse di passatista, eppure so di non essere per genetica un conservatore. Non mi intristisco per l’accusa. Mi intristisco per la sordità del tempo arrivato a un punto zero della storia. Ben inteso, uno dei tanti punti zero che la storia ha registrato: ma gli altri non li ho vissuti, e questo non avrei voluto viverlo. Passato attraverso le speranze del Concilio; e poi in quel sessantotto così vituperato dagli inetti, e che tuttavia penetrò persino tra le mura del Seminario a chiamarci a una vocazione rinnovata; passato attraverso l’euforia della pace che fu la caduta del muro di Berlino; e attraversato da quell’epoca tragica che trovò le parole migliori sul terrorismo in Paolo VI, il papa che osò rimproverare Dio: Tu non hai esaudito la preghiera per il nostro amico. È questione di fede? È questione di fede. Le nostre preghiere inascoltate, sulla vita nostra e di quanti ci stanno a cuore: che sono molti di più della tribù biologica cui apparteniamo. Sono gli uomini e le donne che stanno condividendo questi anni: vicino a noi o lontani da noi. È questione di fede sapere – ed è il sapere della grazia non prodotto umano – che finché non si accettano le sconfitte per ripartire da esse, resisteranno compagni e compagne mai trasformati in una scelta. Non esemplificando più alle giovani generazioni la possibilità della resistenza dentro le cadute. Anche della caduta di un ponte: la rassegnazione, la fatalità di chi vive l’emozione di un momento e poi la scavalca, neppure fosse un qualsiasi sasso sull’asfalto: questo il punto zero che stiamo tramandando a chi avrebbe diritto ad essere forgiato in ben altro modo. Il punto zero delle emozioni senza ragione: implica la fede, la ragionevolezza di chi sa la scienza non più superba detentrice del sapere: ma attenta a indicare i propri confini. Ogni spazio ha le sue frontiere. Consegnare un oggi senza proiezione sul futuro, è questo che fa il vissuto di emozioni senza il vaglio della ragione. Ho bisogno, dunque prendo. Naturalmente scrivo partendo dai miei sbagli: persino Abramo non fu una persona perfetta, immagina me! Ma scrivo come chi non vi si rassegna a veder ripetere gli stessi errori: perché i tempi del punto zero non hanno barriere. La fedeltà è un dono che si può ricomporre anche dopo un fallimento: ma la si deve chiamare con il nome giusto, per non stare in quel limbo dove si tengono aperte tutte le porte, all’insegna del Non-si-sa-mai. Come calabroni, appunto.


l'eterna giovinezza

Si racconta che il no alle Olimpiadi a Roma è stato deciso da un ristretto gruppo di opinionisti, radunati nell’officina del meccanico che cura la moto di quel expolitico non ancora del tutto ex che va sotto il nome di “dibba”. Dunque le cose stanno così, e non è una leggenda romana: è nero su bianco in un libro scritto dallo stesso ex non ancora del tutto ex. Si racconta dunque che il suo meccanico abbia convocato un po’ di vicinato, tra pezzi di ricambio su pavimento oleoso, per un sondaggio, preliminare di quella votazione in rete di cui i suddetti sarebbero stati le cavie. Una decina di persone, ma rappresentative: un fruttivendolo, un edicolante, un pensionato, e un paio di familiari, il “dibba” stesso in veste di elicitatore. Non è detta l’età dei partecipanti, ma forse non conta ai fini del risultato. Che sentenzia: linea dura, le Olimpiadi non si facciano, la stragrande maggioranza dei romani è contraria. Sulla teoria della relatività dei numeri non si arricci il naso, e sui concetti di maggioranze e minoranze neppure: quel soviet romano, come quello russo prima della scorporazione, ha ragioni che il popolo deve far proprie. Pena, le buche nelle strade, o l’irrisione degli avversari: volete mettere la saggezza che da un bar sport qualsiasi della periferia si sposta in una officina meccanica? D’altronde, qualche mese dopo – adesso – non si è proclamato che i deputati del popolo si arriverà a sceglierli per sorteggio? I social sono lì – qui – a costruire un mondo di opinioni, dove non le certezze religiose, ma neppure quelle scientifiche si salvano sotto l’ “io la penso così”. La chiamano democrazia diretta. Diretta da chi, è il problema. Un grosso problema. Forse conoscete la storia di Titone. Ma la scrivo per quei due o tre che han fatto l’Iti, e dunque non sono tenuti a conoscere la mitologia greca. Dunque Titone era un uomo normale, come me e come te. Normale fino a quando Eos, che era la dea dell’aurora, si innamorò di lui. Lei una dea, lui un uomo, lei immortale, lui mortale? Come può continuare l’amore? Zeus era il capo, il padre di tutti, pronto ad esaudire ogni capriccio dei figli. E su richiesta di quella figlia innamorata, concede l’immortalità a Titone. Festa grande? Macché. Si dice che l’amore è cieco; e qualche volta stupido. Ci si dimentica di chiedere qualcos’altro accanto alla immortalità per quel giovane uomo: l’eterna giovinezza. E infatti Titone resta prigioniero di quel privilegio: non morirà più, ma si corromperà in una vecchiaia senza più bellezza. Cosa avrebbero deciso l’edicolante, il fruttivendolo, il pensionato, il meccanico – insomma tutto il bar sport, tutte le claques organizzate dei commenti on line – così ripiegati nel presente di una presunta eterna giovinezza delle proprie idee? Se falla lo sguardo lungo, se non si esce dal recinto di una officina di un’edicola di una botteguccia, che futuro? Cittadini di una nazione, responsabili. Ma cittadini della diversità cristiana. Negli ultimi giorni, seppure in modo ancora indiretto, sembra che i Vescovi stiano uscendo da quel dire prelatizio e diplomatico sull’emergenza emigrazione. Troppo silenzio, rinchiusi dentro recinti che loro chiamano di rispetto per le istituzioni civili. Ma sono pavidità che non hanno la forza del Vangelo. Beati se sarete perseguitati, perché non avrete taciuto. Beati se rigetterete l’accusa di essere “buonisti” chiamando finalmente gli altri, per quel che sono, “cattivisti”. Beati se difenderete l’orfano e la vedova, quelli che oggi sono di pelle diversa e di etnia diversa, perché vostro sarà il regno dei cieli. Beati se lascerete gli ovili dentro cui prosperate tra certezze datate, e segni datati, e vesti datate: e un linguaggio datato. Beati voi: vi sarà data resurrezione, immortalità non disgiunta da bellezza, l’eterna giovinezza.


esercizi

Quando si ha un po’ più di tempo a disposizione – e l’estate è questo tempo, quando si rallentano gli impegni dell’anno – ci si può dare a riprendere i libri del liceo. E uno in particolare che mi aveva allietato, sottobanco, durante lezioni noiose, era sull’etimologia delle parole italiane derivate dal latino. Quelle che hanno la stessa radice ma significati diversi: ad esempio, le due parole tradizione e tradimento. Due parole che non potrebbero essere così distanti. All’apparenza. Perché derivano entrambi dal consegnare: nel primo caso la consegna riguarda tutto ciò che viene passato dalle mani di una generazione a quelle di un’altra, per salvaguardarlo dallo scorrere nel tempo; nel secondo caso, invece, la consegna riguarda qualcosa che dovrebbe essere protetto, e invece viene svenduto. Ed è il tradimento, che si conosce nelle sue svariate sfumature, a principi cui pure ci si è votati: l’infedeltà coniugale, che si esprime in una doppia vita, senza più remore, all’insegna dell’autorealizzazione che giustifica ormai ogni comportamento; e c’è il fenomeno dei voltagabbana, di chi si consegna superficialmente a una ideologia contraria, e lo si è sperimentato massicciamente nelle ultime scelte elettorali; ma si tradisce con l’apostasia: e pare che tradire la propria fede a favore di soluzioni più immediatamente appaganti stia dilagando molto tra il popolo cristiano. Più semplicemente, ma non meno pericolosamente, è un tradimento il falsare le cose, il travisare con menzogne, di cui si è ben consci, i fatti della vita: e sempre a proprio vantaggio, personale o politico. Ma c’è un tradimento che tocca la Chiesa, e proprio nella sua Tradizione: lungo i secoli, per alleggerire il giogo che il Vangelo comporta – è un giogo leggero, ma lo si vuole più leggero – ci si è piegati alle tradizioni, che hanno impelagato fino ai nostri giorni l’essere discepoli evangelici. Da lì l’incapacità che si sperimenta nell’accettare il vento nuovo dello Spirito. Si giunge a sospettare della novità che appartiene al Vento che spira in tempi diversi in modi diversi, per non lasciarsi sgusciare da ingessature che sono lontane da quanto il Nazzareno è venuto a dare. Si è detto che Gesù non è venuto a fondare una religione, ma a chiamare a una fede. In sede di dibattiti lo si accetta, così come si accetta che un modo religioso è indispensabile alla fragilità dei discepoli. Ma quando il modo religioso si sovrappone alla fede, tanto da renderla insignificante? Allora non conta più essere beati perché si accoglie lo straniero, invece che lasciarlo alle porte della città. E non conta quanto ci è stato detto, e sarà tema di giudizio: forse Matteo 25 dovrebbe essere predicato più incisivamente e opportune et importune, come ha detto san Paolo. E così, non per condannare, ma si darebbe la possibilità di vedersi in anticipo schierati se da una parte o dall’altra del Figlio dell’uomo quando tornerà nella sua gloria. Fin da qui; per scegliere di spostarsi finalmente dalla parte giusta. Per liberarsi dagli orpelli che impediranno di entrare dalla porta stretta. Per riconsegnare la Chiesa alla sua verità, che non è quella di una perfetta organizzazione mondana, ma di una trasparenza che conduce al Salvatore. Forse gli scismi che sono avvenuti lungo i secoli, meriterebbero miglior pregio, se sono serviti a una purificazione. Non per condannare a una marginalità, lo ripeto, ma per avvertire di una pienezza che è ben lontana dagli apparati che soffocano, che rimandano, che attardano. Una Chiesa comunità di fratelli che condividono il bene tra loro e con chi bussa alle porte delle loro chiese. Occorre esercitarsi al saper consegnare, senza consegnarsi al Maligno. È così che le nuove generazioni non resteranno tradite. Altra via non c’è: solo nella spogliazione si renderà evidente la brillantezza del Vangelo.


ragnatele

Impatto di un insetto, e carico del vento: sottile e resistente, la tela di un ragno è studiata dagli scienziati; e ci dicono che l’ancoraggio è il suo segreto e l’elasticità la sua forza.La natura è straordinaria e ogni piccola cosa ce lo ricorda. Quanto tempo per guardare un ragno domestico mentre costruisce e fa prendere forma a una ragnatela perfetta? È tempo perso? O il tempo utile ad accorgersi d’essere circondati da meraviglie e misteri, che possono sfuggire per tutta una vita? e dunque lasciarci poveri di sguardo sul creato che ci è donato? Ma non è di ragni che si tratta qui, anche perché di aracnofobia potrebbe essere affetto un qualche frequentatore del sito (e di fatto alcuni ragni sono proprio repellenti: e aprono il dibattito su perché la creazione abbia anche forme mostruose – ma potrebbe essere discorso anche teologico, e dunque a un’altra volta). Eh sì, perché le ragnatele di cui vorrei parlare non sono di seta, ma di catrame. Mai stati in Svizzera? Mai colpiti da quelle strade che sono percorse da ragnatele in continuo? Per un bel po’ (perché per un bel po’ ho frequentato quella nazione, su su fino al lago di Costanza, tra emigranti di antica generazione, ospite del loro cappellano) – per un bel po’ mi sono meravigliato che non stendessero un manto d’asfalto omogeneo, come usa da noi: prima fessure e buche, lasciate lì per decenni, e poi, improvvisamente, soprattutto alla vigilia di elezioni amministrative, uno scialo di catrame anche su strati non richiesti. Poi però, anche a me succede l’illuminazione. E finalmente realizzo che è una questione di manutenzione: preoccuparsi da subito di riparare alle crepe che si fanno, per il gelo o per l’usura, è risparmiare, è non sprecare. Mantenendo comunque una buona viabilità. Ed è a proposito di manutenzioni che abbisognerebbe oggi il nostro paese: non di colate rivoluzionarie, ma di interventi su fessurazioni che compaiono improvvisamente. Per usura della democrazia, e per il gelo di persone incompetenti. Screpolature fiacche o gravi fessurazioni quelle che vediamo emergere giorno dopo giorno? Il sentire anti immigratorio, o la pistola in casa voluta da sessanta persone su cento? Lì si annida la voglia di un capo, e dunque un desiderio di schiavitù che tocca ormai in gran parte le masse. Voglia di capo che è nutrita dalla paura di libertà. Che è poi paura di futuro. Alimentata, cibata e sfamata dal furbo del momento. È sentimento che ha dato luogo al fascismo cento anni fa. Alla voglia di un duce, che fa a braccio di ferro con gli amici di ieri e banchetta con i nemici di oggi? (E qui non si è nella lingua del vangelo, che vuole l’amore dei nemici: qui amici e nemici sono i cattivi e i buoni, i prepotenti e i misericordiosi, quelli che arraffano e quelli che spartiscono). Il sovranismo, piaccia o no ai cultori del quattro percento – ma che mangiamo al centopercento – è ritenere lo stato come un idolo sociale (e qui tutta la letteratura biblica ha a che dire sulla estirpazione degli idoli). Fessurazioni o solo screpolature accettabili di un sistema in cambiamento? Noi siamo un popolo battezzato al novanta per cento: che al settanta per cento – non sapendo più nulla di Vangelo – non sa più che cosa vuol dire per la propria vita. E dunque sceglie da apostata, per usare un termine che forse non dovrebbe più essere considerato obsoleto. Sceglie contro una professione della fede che gli ricorda, di Pasqua in Pasqua, il mistero fraterno che discende dall’avere un Dio d’amore, un Dio non solitario. Fraternità è la parola cristiana desueta nel politichese che sovrasta. Parola in disuso ideologico tra i cristiani. Occorrono manutenzioni ordinarie, e non straordinarie colate di organigrammi e di raduni di massa, da cui oggi sono tentate le chiese. Invece il vigile dire di ogni giorno, l’inquietudine che vede l’ assillo della Parola non affogata nel silenzio delle curie. Opportune et importune, senza compromessi, o benedizioni dei nuovi labari. Si vive di catacombe, dell’assemblea che celebra e ascolta, dell’assemblea che si separa ma per ritornare: testimoni nel mondo, a dare sale e a far da lievito. Minuti ma saldi. Attenti a tutti ma convinti di Vangelo.


Vanità

Vanità delle vanità è la vita. Non l’ho mai così ben capito come dopo questa notte: in sogno, la signora Bona mi ha rimproverato perché da tempo non scrivo sul sito. Dovete sapere che la signora Bona è morta qualche mese fa, a novantadue anni. Una di quelle donne fino all’ultimo sveglie e battagliere. Una che seguiva questa rubrica, per voler sapere come da qui viveva il suo emerito parroco. Una che circa due anni fa, per una sosta scritturale di cui oggi non ricordo il motivo, pure mi aveva sollecitato a riprendere, e l’aveva fatto con il tono di chi non vuole che accampi scuse. Aveva diritto di non lasciarmi solo, diceva: e ha detto con le stesse parole stanotte (sapete, i sogni sono ricordi che si slacciano dall’impiantito della memoria). E così ho dovuto spiegarle, in sogno, il perché di questo lungo silenzio. Le ho detto di un’evenienza capitata agli occhi, e degli imprevisti piuttosto seri che ne sono seguiti; e dell’ordinanza medica di un periodo di riposo. Riposo che, tra l’altro, costringeva a non leggere, e dunque anche a non scrivere. Però, permesso di vedere la tv. Mi sono così trovato a guardare in orari che solitamente mi vedono in ben altre faccende. A guardare a maratone e tagadà, a quelle giostre di informazioni (?) politiche che si succedono durante tutto un giorno, e tutti i giorni di quest’ultimo mese. E poiché il periodo appena trascorso si prestava al meglio, con i nuovi colori gialloverdi che si sono insediati alla guida del paese, credo che il riposo impostomi non sia stato al massimo delle aspettative delle ordinanze ricevute dalla pietà medica: perché il riposo del corpo era annullato dalla fatica di ingoiare le indigeribili stupidità. Ma tant’è: mi hanno tenuto vivo, tra pensieri sarcastici, mai tuttavia tradotti in parolacce che non si addicono a un prete. Perché? li avete visti? li avete sentiti? Una passerella di nulla che pure si è nutrita di colpi di scena, in mancanza di sostanza. La vanità al potere credo sia la cosa peggiore che possa capitare a un popolo. Ha scritto Victor Hugo: chi non vuole andar nudo, si veste di vanità. Miglior definizione di politici attuali, e di commentatori cavati dal regno dei professionisti del nulla, non poteva calzare meglio sui giorni che abbiamo vissuto. E oltretutto la vanità fa dei brutti scherzi alla memoria. Esponendo al ridicolo, se non alla compassione: il negare quanto si è professato fino al giorno prima, o attaccandosi ai luoghi comuni nella speranza delle dimenticanze altrui; che invece noi non ci permettiamo, perché non possiamo. Noi: cioè quelli che cercano la verità nelle cose; e che si aspettano un servizio di verità da quelli che sono chiamati a gestire il bene comune. Pur nel compromesso che, si dice, la politica è. Ma non nel compromesso che il Vangelo mai permette, se non chiamandolo con il suo nome: peccato. Sì, perché, nel frattempo, c’è stato quell’evento meraviglioso della salma del santo papa Giovanni che è in terra bergamasca, anzi qui. Migliaia di persone a sperimentare una devozione, che certamente va oltre il vedere-toccare. Almeno così spero io, che sono lontano da quel tipo di espressione religiosa (ricevendo l’accusa di una fede intellettualistica: come se la fede non fosse il prodotto di dubbi, di fronte all’invisibile che ci chiama). Ma anche lì. Vanità delle vanità, tutto è vanità. E lei, signora Bona, dall’alto o dal profondo dei cieli, in compagnia del vero papa Giovanni, sta sicuramente dandomi ragione; e sorridendo compassionevolmente vedendo qui in terra lo svolazzare di preti che si stanno prendendo consistenza dall’evento. Anch’essi nudi vestiti di vanità? con le loro cotte plissettate e con le loro apparizioni mielose? Diceva non so chi che “la vanità è il mio peccato preferito”. Non son meglio altri peccati, che non stridano così fortemente con il Vangelo dei beati i puri di cuore? Certo, a ognuno il suo peccato preferito. E mettersi a fare le pulci sui peccati altrui, capisco che possa non essere il meglio della santità. Ma la correzione fraterna è un imperativo del cristiano. Dopo averla applicata a sé, ovvio. Ma la costrizione al riposo, se mi ha impedito di scrivere anche per lei, signora Bona, mi ha affastellato dentro questi pensieri che mi hanno convinto che la vanità è stupidità, quando non è pericolosa. E ho pensato bene di buttar fuori. Per stare in pace.


cerchio magico

Una espressione usata (per la prima volta?) qualche anno fa riguardo al capo di una parte politica ben precisa, che si sarebbe poi estenuato, quel capo, in un condottiero molto muscolare, e più evidentemente destrorso. Ma da allora molti altri sono stati accusati di lasciarsi irretire da un cerchio magico: che sarebbero poi degli incensatori del capo, per impedirgli di andare oltre loro (ricavandone così benefici per le proprie azioni e le proprie idee). Insomma, loro imprigionano il capo, dentro una rete che fa credere al malcapitato – che tuttavia si rassicurerebbe in tale nube di incenso o di nebbia – facendogli credere il loro dire e il loro pensare come il dire e il pensare di tutti. Qualcosa che viene ora imputato anche al papa, e non da fonti giornaliste interessate da accanimenti pregiudiziali verso Francesco, ma anche da un cardinale già prefetto della congregazione per la dottrina della fede: che è tutto dire rispetto alle gerarchie. L’esistenza di un cerchio magico, dunque, che sarebbe responsabile di un clima curiale decisamente poco incline al dialogo: “Credo che i cardinali che hanno espresso dei dubbi sull’Amoris laetitia, o i 62 firmatari di una lettera di critiche anche eccessive al Papa vadano ascoltati, non liquidati come farisei o persone brontolone”. Uno schierarsi, di fatto, dalla parte di siti insostenibili per il buon gusto ecclesiale, da far tremare i polsi: rispetto al cardinalato, che dovrebbe essere il cerchio evangelico attorno al papa. (A proposito, per i naviganti del Web: i siti inguardabili, se volete non procurarvi reflussi gastro esofagei, vanno dai sedevacantisti del più volte qui citato soccipensiero, agli ultra conservatori della fondazione Lepanto, a quel ex vaticanista dell’Espresso – già ex di altro! – che quasi quotidianamente rimprovera Bergoglio su tutto; ai toni apocalittici e irridenti usati da una certa “teologa” sul blog di cui pontifica sul Concilio; per non dire di quel vaticanista Rai che sta dando in pasto ad oves et boves et universa pecora, le sue ubbie, oltre che mangiarci a piene mani lui stesso in introiti editoriali). Tutti a rimproverargli la mondanizzazione della Chiesa: che sarebbe poi, per noi, l’incarnazione della Chiesa, cosa molto difficile da digerire per chi vuole comunque essere altro, e naturalmente migliore degli altri. (Il che sta a significare l’esatto contrario: la superbia, se non si rimane vigili, si annida ovunque, anche in chi si ritiene cattolico tutto d’un pezzo, o forse proprio per questo). Un miscuglio di motivazioni che ha avuto il culmine in quell’Amoris laetitia, e solo per una nota in calce che avvertiva di avvicinare con sentimenti evangelici, e non rigidamente ecclesiastici, chi vive la passione di un fallimento dell’amore. Si rimprovera a Francesco uno svilimento della fede, come non si sarebbe mai visto (a me fa pena il cardinale che attribuisce le chiese svuotate alla rimozione delle balaustre!, o quell’altro, che fa tutto derivare dall’ostia data in mano!): proprio nel momento in cui la Chiesa è chiamata a rendere testimonianza vera della presenza del Signore nel mondo, attraverso “le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi”. Una testimonianza di amore, che è poi il grande comandamento e l’unico dei discepoli di Gesù. Il papa che abbiamo è un gesuita; e tutto il male che si è detto nei secoli contro i gesuiti, è proprio il bene loro: di essere radicati nella fedeltà alla Chiesa. Si può essere certi che abbia attorno persone che lo accompagnano: ma non lo fu di Giovanni Paolo? o dell’emerito Benedetto? È pur vero che, tra i prelati che visitano Fontanella, due che vivono in posti di molta responsabilità a Roma, abbiano confidato “che sì, forse non tutto viene messo a conoscenza del papa” e “c’è tra i vicini chi lo gratifica di lodi senza verità”. Se è, li ho invitati a non tacerlo a Francesco, visto che gli sono vicini, seppure non tra i vicini contubernali. Ma, nel caso, quando Lui leggerà questa nota (!) è avvertito, e di cuore: affidarsi senza fidarsi del tutto. Sei tu il papa: togli la magia di essere papisti più di te a chi ti potrebbe ingannare. Per il bene del mondo, che si evangelizza nella verità della fede: quella sostanziale, a cui ci richiami nella semplicità del linguaggio e dei gesti. E curati pure di loro, di quanti hanno avversione per te. Insegnando anche a noi a non sentirli nemici, ma solo bisognosi di cure e di preghiera.


25 aprile

Quel giorno là, io c’ero. L’avrebbero chiamata giornata della liberazione: dai fascismi. Avevo un anno e due mesi. Dunque non potrei averne memoria. Se non per i libri, o per i racconti di famiglia. Mio padre ancora in prigionia, cosa che si sarebbe protratta fino all’inizio del ’46. E le donne rasate, nel mio piccolo paese, in segno di disprezzo: non uccise, ma con quella violenza sulla fronte che le avrebbe segnate a vita. E ancora oggi la si celebra così, festa della liberazione, chiamando a raccolta contro i nuovi fascismi, più occulti, ma non meno pericolosi. Dunque quei corsi e ricorsi della storia, che non si vorrebbero su queste tragedie? Fu appunto Giambattista Vico a dire che “per i Latini il ‘vero’ e il ‘fatto’ sono reciproci, ossia, come afferma il volgo delle scuole, si scambiano di posto”. Siamo ancora, e per sempre, latini pure noi, che viviamo in questa stagione della storia. E per questo forse, e anche, si è entrati in un’era di revisionismi. Dove i cattivi e i buoni si scambiano i ruoli. Buoni i partigiani e cattivi quegli squadroni della morte che marciavano sotto un teschio? O cattivi i partigiani che ammazzarono preti e non, nella rossa Emilia, per molti mesi dopo quel venticinque di aprile? E buoni quelli che, nei vari cimiteri della penisola, vengono ancora oggi salutati, braccio teso, come patrioti difensori di una patria che sarebbe potuta essere invasa dalle orde comuniste dell’est? La verità e i fatti: una disputa che ci sarà sempre, finché gli uomini ragioneranno sull’onda dei borborigmi addominali. E anche oggi: i fatti di una convivenza civile e politica che non si generano da una verità delle cose, ma da illusioni di una potenza che può rendere vero il falso. Liberazione è un termine preciso: liberati da. Liberati da un avversario riconosciuto come tale. Non da un avversario inventato. Stupirebbe chiunque una alleanza con chi fino al giorno prima si è descritto come un demonio. Ma non è quello che avviene. Per il potere, per il gusto del potere, si rinnega quanto si è predicato fino a un momento prima. Basta qualche illusoria promessa, qualche divinazione di un proprio futuro. La pagina evangelica delle tentazioni di Gesù potrebbe essere – ma non è – il manifesto di coloro che sanno prendere le distanze giuste, continuando a chiamare per nome chi ci è nemico. Non che non sia accettabile un compromesso: la politica, si è detto, è l’arte del compromesso. Purché sia nella verità, e nella trasparenza: purché riveli con chiarezza i limiti che hanno condotto a quel compromesso. Dire che si è esagerato nell’inventare un avversario malefico; ammettere che i fatti sono stati negati, negando la verità buona dei fatti; e dire che sì, insomma, siamo uomini, e tutto è lecito , ma fino a un certo punto nel demonizzare gli altri. Raccontarsi insomma, perché fatti e verità finalmente coincidano. (Dovevano avere, nelle intenzioni, un andante diverso queste righe. Volevo arrivare a parlare della ‘liberazione’ che sembra assumere la celebrazione della cresima per una quantità di ragazzi. Finalmente basta: liberi da… E dire che la Chiesa dovrebbe porsi finalmente il problema: il fatto del sacramento non è più la sua verità? perché dunque insistere in una prassi che non educa al fatto cristiano? perché ripetersi in tradizioni che rinnegano la Tradizione, quanto ci è stato consegnato dagli Apostoli? perché questa Chiesa incapace di sane potature in abitudini obsolete, che raccolgono ormai solo canuti e non parlano alle generazioni giovani – fatta ovviamente eccezione per quelli che scambiano per devozioni i santi segni? Riportare verità dentro questa Chiesa: dovremo aspettare ancora molto? I revisionismi sono già avviati anche per lei, questa nostra santa chiesa cattolica, ancora apostolica?, ma tanto invecchiata: non fosse per lo Spirito che la abita, ma non fosse per lo Spirito dietro cui ci si nasconde!).


Il post

Il post- come caratteristica dell’ultimo secolo. E così si è raccontato di aver attraversato, in successione, una società post-illuminista, post-fascista, post-comunista. Dando la tara: perché di illuminismo e fascismo e comunismo restano intrisi molti animi, seppur in quantità e qualità diverse, ma non tanto da incidere sulla figura della società in cui viviamo. (Senza naturalmente disconoscere i ritorni: quelli che avvengono all’est dell’Europa, o in confini tra loro estremi della geografia politica). Ora, se non ci siamo ancora, poco ci manca a definirci una società post-cristiana: qui da noi, in cui Roma è caput mundi per la sua storia millenaria e per la sede cattolica che ne ha preso il peso, e anche la zavorra. Naturalmente, i post- nella misurazione ideologica: un pensiero che non si fonderebbe più su … san Paolo, tanto quanto si era fondato su Voltaire, Evola o Marx. (Dico su san Paolo, e non su Gesù; per raccogliere il pensiero di chi, appunto ideologicamente, indica nel cittadino di Tarso il vero fondatore del cristianesimo: in quanto sistema dottrinale e morale, se non anche organizzativo.). Ma pensare una società post- cristiana è pensare alle catacombe dei cristiani? Di primo impulso direi: perché no? Se non è un ritiro nelle sacrestie, ma uno stare in disparte rispetto alle logiche di potere del mondo; e poi uscire a mostrare la faccia di chi crede nel Risorto, fino a sfidare i colossei del nostro tempo – i colossei dell’indifferenza, dove si può essere sbranati più di tanti leoni affamati – non ve la sentireste, miei venticinque lettori, di unirvi a me in quel perché no? Messi di fronte a una radicalità evangelica di un Francesco che vive oggi in Roma come fosse nelle piane di Assisi, a ricostruire pietra su pietra una chiesuola diroccata; frustati da quella incomprensibile opposizione dal di dentro di questa Chiesa cui apparteniamo, chiamata a convertire oggi la mente prima ancora che le azioni (frustati ma non frustrati): più che mai oggi a ridire che il cristianesimo non si limita al culto ma al coinvolgimento di tutta la vita nella sua totalità. Un post- dunque che può rigenerare. Che è, alla fin fine, poter gridare il Risorto come l’uscita da una irresponsabilità per la felicità di ogni uomo. Un cristianesimo finalmente potato da rivincite di forza, e ridefinito in quella purezza dei cuori che è Vangelo. Vescovi e preti (e diaconi) finalmente ricollocati dentro il popolo di Dio, e non sopra, in quell’accezione del servizio che non può sfuggire all’esempio del Signore che si china – il suo ultimo testamento – perché si impari a chinarsi: alle sporcizie che ci accompagnano nei giorni, alle fragilità che non devono intristire ma solo immetterci ancor più nella misericordia che salva. È tempo della Pasqua che continua: qui, in Fontanella, il mattino è abitato dal canto degli uccelli. Quelli che se ne intendono, mi dicono che il primo mattino corrisponde al momento in cui sono più deboli, dopo il digiuno della notte; e gli uccelli maschi, cantando all’alba, vorrebbero dimostrare di essere pieni di energia; e di chiamare a quella compagnia che aiuta a difendere il nido per chi si è generato; e, in genere – sempre al dire di chi se ne intende – i migliori cantori sarebbero scarsamente colorati: non potendo attirare con i colori del piumaggio, utilizzano la voce. Debolezza e energia. E compagnia. E ciascuno secondo le proprie possibilità, nelle proprie diversità. Il canto degli uccelli, qui, stamane, pur in questo cielo plumbeo, foriero di tempesta, intona la promessa tramandataci dall’evangelista Matteo: Ecco io sono con voi tutti giorni, fino alla fine del mondo. È la Sua compagnia, la compagnia del Risorto. Che si nutre della compagnia di quanti sono resurrecturi: già da questa vita risorgono, si rigenerano e così rigenerano quel corpo testimoniale che è la Chiesa di Cristo. Lo crediate o no, qui sulla finestra del mio studio che dà sui tetti si è ora posato un minuscolo uccello, e dà qualche piccolo trillo. Mi conforta allietandomi.


fake

Scrivo mentre si stanno completando le chiamate per l’elezione dei due presidenti del Parlamento. Che sembra ormai realizzare quanto hanno già detto i muri di Roma, con quella moderna pasquinata del murale che profetizza un abbraccio tra due forze che in campagna elettorale si sono dette opposte l’una all’altra. Ma noi dovremmo gioire purché si realizzi il salmo 85, là dove si auspica che il futuro veda abbracci, sempre. Per la verità, il salmo dice dell’incontro di amore e fedeltà, di giustizia e pace. Ma sono parole che chiunque vorrebbe realizzate, da qualunque abbraccio provengano. O no? Ma sarà così? In un suo studio, l’amico Nando Pagnoncelli dell’Ipsos racconta che quel che è avvenuto all’inizio di marzo è frutto di una campagna elettorale “fake”. Una competizione elettorale basata su falsità, perché improntata su percezioni e non sulla realtà, su un mentire di chi sa di mentire, e non sulla verità delle cose. E ne fa un elenco: realtà – per pigrizia, per ignoranza, o semplicemente perché guidati alcuni da paure e altri da odio? – di cui non ha tenuto conto l’ottanta per cento dei settantacinque italiani che si sono recati al seggio. Quale elenco? Voi che mi leggete, senz’altro lo conoscete: ma è bene stamparselo per poterne dare notizia a quell’ottanta di settantacinque che ci circonda: di qui a quando non si sa, ma occorre cominciare, gentilmente ma fermamente, a raccontare, perché i condòmini di quest’Italia arrivino un po’ più equipaggiati mentalmente. Dunque: gli immigrati sono il 30% o il 7%? i disoccupati sono il 48% o l’11%? i musulmani tra noi sono il 20% o il 3%? I numeri sono numeri: eppure su queste tre voci hanno giocato quelli che si sono presi più voti. Il popolo deve essere informato, prima di scostare quella tendina che lo fa padrone del destino di tutti? O deve fidarsi del guru del giorno, che gli spiattella false notizie? Ma allora, in quest’ultimo caso, dire che il popolo è bue è proprio così politicamente scorretto? O non invece una doverosa correzione fraterna? Tutti ricordiamo i vaticinatori della liberazione che l’uso di Internet avrebbe dato a chiunque. Ma Internet è una macchina che informa (e non sempre informa secondo verità) ma lascia ciascuno a dover discernere secondo se stesso. Che è un po’ quel che è successo alla Bibbia data ai singoli – perché ciascuno ne ha diritto, ed è vero; ma, senza criteri di lettura condivisi, ciascuno si è preso le sue pagine, ne ha caracollate altre, e altre le ha strappate: sono così nate le mille confessioni protestanti (povero Lutero!). Così nascono le milioni di opinioni: poiché ognuno è padrone della verità, della sua verità, e in forza di quella diventa giudice. Che qualche traguardo lo si sia tagliato negli anni scorsi, non è servito a chi non è attento al bene comune, ma solo allo spuntare dell’insalata nel proprio orto. Così gli immigrati diventano comunque troppi, e troppi i musulmani e i disoccupati. Su “la verità vi farà liberi”, dove siamo? La verità che si nutre certo della bellezza degli abbracci, ma purché siano di amore e fedeltà, di giustizia e di pace. Ce la faranno i nostri eroi? O si scontreranno con le menzogne su cui si sono seduti? Da una raccolta di iscrizioni funerarie mi sono segnato qualche anno fa questa (e ve la do in latino non certo per spocchia, ma per una verità del testo): Quaeritur a cunctis, iam respondere fatigor, dant lachrimas, animi signa benigna sui – È la domanda di tutti, a cui già sono stanco di rispondere; e versano lacrime, segno del loro animo gentile. Succede spesso che si rimpianga il malfatto: poiché ci sono quelli che si sono accomodati, e quelli che li hanno fatti sedere. Ma c’è un ravvedimento, una gentilezza in tutti: occorre farla sgorgare, perché le lacrime non siano vane, e non si nutrano di rimpianti a lungo. Ma irrorino il presente di speranza.