nebbia e natale, e divagazioni
A natale si racconta. La propria vita, i propri rimpianti e le gioie, accanto ad un camino. Il mio racconto è questo. Voi trovate il vostro, per chi vi starà accanto al fuoco di Natale: quello con la maiuscola. Dal mio paese passava il tram di Monza. Lo chiamavano il Gambadilegno: avanzava zoppicante, e molto pigramente. Poteva fermarsi senza tremori sindacali, se un tranviere incrociava sui binari una bella contadina carica di gerle:
la nostra vita è largamente intrecciata a quella degli altri
Quando il foglio che hai davanti resta più bianco del solito, occorre rassegnarsi ai momenti in cui articolare un pensiero è difficile. O perché impediti da uno stato d’animo che galleggia tra vuoti e pieni; o perché ne sei emotivamente troppo avvolto: e scivola via, come un’anguilla tra le mani, il filo conduttore. Per non lasciare vuota questa pagina, trascrivo le note che ho preso negli ultimi mesi: foglietti sparsi, compilati su un bus, o sopra un libro, o tra le colline di St. Paul nel Nizzardo, ultima tappa estera di un ministero di consolazione.
gli occhi di Dio e i nostri
Non è che lo stare a letto sia sinonimo assoluto di riposo. Ci sono giornate in cui ti puoi permettere di restare fuori dal mondo, se il cielo è grigio di pioggia e gli impegni possono essere sospesi. Sono giornate che rendono molto a uno svago libresco, soprattutto se hai un ottimo e corposo giallo da scalare. Ma se a letto ci devi stare per un malanno, il dono della lettura, anche al più appassionato, si sottrae quasi del tutto. Sbocconcelli i libri che ti portano
la meraviglia delle sorgenti
Non la prima e unica volta, ma per ben sei volte gli uomini hanno messo piede sulla luna. Nel ricordare, sull’ultima lettera, quando è incominciato il mio essere prete, è avvenuto quel che succede quando quarant’anni di vita si assommano ai primi venticinque: si ricorda tagliando alcuni contorni; e il mettere a fuoco un avvenimento quasi costringe ad assolutizzarlo facendolo essere un evento, l’evento della propria vita. In cose così, non è che si bari:
l’impronta che non si cancella mai
Ero stato ordinato da poco meno di un mese, quando l’uomo raggiunse la luna. Per la prima e unica volta. Ma allora eravamo – quelli di noi che c’erano – sospesi nello stesso vuoto dei tre che stavano per realizzare“il gigantesco balzo dell’umanità”. Perché il bello e l’incantevole era che ci si stava davvero buttando sull’inconoscibile: un conto sono gli studi a tavolino, e un conto è toccare il suolo con i propri piedi. Un conto è fotografare a distanza – come
vergin di servo encomio e di codardo oltraggio
Naturalmente non c’entra Napoleone, tanto meno la correttezza del Manzoni che lo canta in morte. Semplicemente un contributo all’autoritratto che ciascuno ha diritto di lasciare di sé, magari esagerando le proprie qualità e attenuando i difetti. Ma da dove viene ‘sto bisogno di attestazione? Da nulla in particolare. Solo che piace opporre - alle parzialità di giudizio di alcuni frequentatori delle nostre congregazioni, parrocchiali e diocesane - una cornice che
di che colore è la pelle di Dio?
A metà degli anni sessanta spirava il vento kennediano delle nuove frontiere: e una folata incantevole di quel vento arrivò pure nella nostra città. Aveva la faccia pulita (così ci sembrò) di aitanti giovani americani, europeidi e afro, ipernutriti e palestrati al punto giusto, dotati di un dentrificio - per noi ristretti tra i Binaca e i Chlorodont - dall’insolito sapore. Americano, appunto: e cioè il meglio, il massimo dell’aspirazione per gente di provincia come
tre Vescovi nella nostra storia
Non si potrà dire, quest’anno, che le stagioni non ci sono più: a farci minacciare, a giorni alterni, o dalla desertificazione o da imminenti glaciazioni, a seconda delle scuole di pensiero, grette come la durata su cui misurano i loro dati: e a richiamare finalmente che le ere di mutazione sono ben più ampie delle ipotesi calcolate su brevi decenni. L’inverno ha avuto il suo corso, freddo e neve nella giusta misura, a riscaldare la terra di sotto;
non proprio triste, ma difficile sì
“Noi dobbiamo accettare il peso di questo tempo triste. Dire ciò che sentiamo e non ciò che conviene dire”. Devo averli citati già da qualche parte questi ultimi versi, del Re Lear di Shakespeare. Ma servono qui per dare un filo a questi pensieri sparsi su giorni che non aiutano lo splendore di cui la Chiesa è mandata in ogni tempo a dare testimonianza. Non le è stato forse confidato il gran spettacolo del Tabor, speranza deposta nel cuore, prima del
soprassedere a un’esagerazione
Mi è stato suggerito di soprassedere, di non elaborare un pamphlet a sostegno e a delucidazione di un gesto che o parla da sé o non raggiungerebbe comunque i destinatari, dicono; e perché il silenzio è la migliore risposta a chi guardando non vede, a chi udendo non ascolta.