Prendevo l’autostradale fino a piazza Castello, e da lì un tram sferragliante verso san Siro. Case popolari di via Novara 90, dove abitava lo zio, impiegato all’hotel Commercio 5 di piazza Fontana. Ci andavo nelle vacanze di Natale: e tra quell’odore di ghisa e di nebbia diffuso, e la neve che non mancava mai, e la compostezza di quel quartiere appartato stava il fascino della grande città che non mi avrebbe più lasciato. Appartamenti decorosi, su due piani, con un porticato ampio a far d’ingresso: essere a Milano con un soggiorno, un salotto e tre camere da letto per famiglia era una ricchezza per gente non ricca di quegli anni sessanta. È lì che un mattino, nel letto preparatomi sul divano, ho letto sul Corriere quell’elzeviro di Buzzati sul treno che va e va senza fermarsi mai, senza lasciare a nessuno di poter scendere: una metafora della vita che mi avrebbe scortato per sempre, da quel ragazzotto che ero. Ed è lì che ho imparato il bene del piccolo accanto al grande, del centro che non vive senza periferia: che diventa poi il succo di una esistenza che prende sul serio qualsiasi luogo e tempo i giorni gli mettano davanti. Ogni tanto ci sono tornato, sempre più raramente, fino alla morte degli zii; ma senza la bella stagione d’adolescenza  non ero più lo stesso, non c’era più l’atmosfera che compone quei desideri giovani che nutrono i sentimenti giovani. Un pomeriggio di qualche tempo fa, un pomeriggio d’autunno, un appuntamento mancato e la voglia improvvisa di rivedere san Siro. Ci arrivo e mi trovo in un altro mondo: cancelli di sicurezza su quegli ampi porticati studiati per accomunare gli inquilini in festa, sbarre di tipo carcerario ai balconi, graffiti luridi su muri del tutto scrostati: un villaggio quieto e sorridente diventato una banlieue angosciante. Fino a quel pomeriggio in cui vagavo per cercare almeno un pezzetto di memoria di quel che era stato quel luogo, quel piccolo paradiso di benestanti non ricchi, non avevo capito perché Gabriella ed Elena, le due cugine più giovani, da anni si fossero trasferite altrove: avessi lavorato a Milano (!) quello avrei scelto io per abitarci. Ma a poco a poco i residenti di quegli anni del boom economico, avevano abbandonato ad altri, svendendole, le loro case. Che era successo? Quello che sta succedendo: con una classe di poveri che tendono alla miseria e non a una vita dignitosa. E con una classe di arricchiti, anche se non riocchi, che preferiscono adottare i cani invece che far figli. Ci stanno dicendo che siamo a livelli di procreazione dei tempi della peste: ma i figli non si fanno quando si sta bene, ma quando si spera di poter stare meglio. Ed è questa speranza, oggi, a mancare. Ed è questa la disperazione, forse, che rende prolifici i miseri: al prezzo di ridurre case dignitose a impossibili nuove caverne. Stiamo vivendo in una società che distrugge le relazioni. Per non lasciarci impicciare dagli altri sacrifichiamo il senso di comunità. E sbarriamo la vita a noi mentre costringiamo altri a vivere dentro sbarre. Nella solidarietà che viene dal comandamento evangelico – il tuo vicino nudo affamato perseguitato – non dovremmo permettere che le città siano distrutte, che la bruttezza abiti la terra delle nostre memorie migliori.