Cari monaci di Bose

Cari monaci di Bose, di incidenti è piena la terra e la vita degli uomini. Più o meno gravi, qualche volta solo bizzarri, se non banali. Della banalità di intoppi tecnologici, forse dovuti a torbidi interessi nemici (ma perché?), o forse solo causati da dilettantismi dell’operatore. Da catalogare così, dopo la lettera scritta per Enzo, l’impedimento a proseguire prontamente con uno scritto rivolto a voi, su quanto successo lì. Nel frattempo molti altri, e per l’affetto a Bose, hanno scritto più o meno schierandosi: che è l’ultima cosa che meritate. E se nessuno avesse ragione, perché tutti hanno torto? Una domanda che merita un tentativo di risposta. Detto del priore che non ha saputo davvero ritirarsi, senza tuttavia sparire (e lo si fa se si continua a vivere  insieme, ma finalmente staccando da sé quanti più da vicino hanno diviso l’anticamera della tua cella); detto di lui, e voi? Monaci e monache insieme pregano, lavorano e praticano l’ospitalità, facendo rivivere modi del primo monachesimo. Restando vigilanti e grati per il dono di Dio dato alla Chiesa in questi ultimi decenni. Lo si dice di altro, ma può benissimo essere riflessione anche per voi, ora: la vita può sbocciare solo quando viene rispettata la consapevolezza della sua fragilità. E quanto è successo, dice che la fragilità sottesa ad ogni pur buona cosa umana, si è resa visibile, seppure in maniera scomoda. In sé non è male, ma… Qualcuno vi rimprovera di aver portato le vostre carte a Roma, mentre per statuto poteva bastare il vescovo di lì, ampliando così l’eco di dissapori che – e io condivido – sarebbe stato  bene candeggiare nella lavanderia di casa. E non per ipocrisia: quelli di fuori o si confondono o festeggiano. O il vescovo si è detto impotente di fronte a qualcosa di più grande di lui? anche i vescovi sanno riconoscere il più delle volte i loro limiti. O voi volevate innescare un nuovo inizio, inginocchiati come Francesco d’Assisi a chiedere grazia al nuovo Onorio? O vi hanno strappato al silenzio del monastero quei cattivoni del Vaticano, come insinua qualcuno, perché vi vogliono riportare all’ordine, impacchettandovi dentro uno dei canoni previsti, ai quali fino’ora vi siete sottratti? Uomini e donne insieme? ma quando mai! Lo vedete: la stura alle malignità, accanto alle perplessità, s’è data. E la bellezza di tentare di vivere l’alterità – che non è solo di maschi e femmine sotto lo stesso tetto, occupati negli stessi laboratori, e innanzitutto nel laboratorio della preghiera – viene così relegata sotto un “vedi che neppure i monaci sanno vivere di obbedienza nella correzione fraterna”. Lo sapete: potreste essere imputati di voler far finire nel cimitero degli elefanti il vostro vecchio priore. Qualcuno ha scritto che i vecchi sono un mistero irrisolto. I miei nonni sono rimasti in casa, accuditi fino alla fine; brontolando sulle scelte dei figli, spesso non condividendole: per un nuovo attrezzo di lavoro contro l’olio di gomito. Ma a nessuno è stata data quella ciotola di metallo dell’apologo: il nipote che dice al papà anch’io quando sarò vecchio ti darò la ciotola di metallo, come fai tu col nonno. Per la risoluzione del mistero dei vecchi “adesso nei paesi ricchi ci siamo inventati i cimiteri degli elefanti: luoghi, anche belli, dove i vecchi vengono concentrati, e rimangono tra loro. I familiari hanno sopperito in questa maniera alla mancanza di tempo. Ogni tanto vanno a trovarli e per qualche istante i vecchi rivivono il calore familiare. Ma entrare in un luogo dove si convive con altre persone che hanno con noi l’età come unico punto di vicinanza è veramente terribile. Pensare di morire vicino ai figli, ai nipoti è un pensiero che in qualche modo consola”. Sullo straniamento nella morte abbiamo vissuto la stagione più orribile. E non può essere quello che capiti a un vostro padre: un fondatore non è sostituibile? Un padre non è sostituibile. Chiedendogli, per quanto ancora lucido, che avverta quando fa ombra. Ma non permettendo che finisca altrove. Come per Enzo, anche per voi recedere è la miglior virtù del vostro oggi. Se poi gli indirizzi di comunità si debbono rivedere, per confermarli o per correggerli, non diventino una scusa di quell’allontanamento: non permettete a nessun canonista di ingerirsi in cose che non capisce. Perché, se non capisce l’alterità che prende le diverse forme delle convivenze, non capisce l’umano per cui il Cristo vi chiede di essere testimoni.


caro Enzo

caro Enzo, non ti ricorderai di me, con tutti quelli con cui ti sei incontrato nel tuo magnifico mestiere di evangelizzatore. E non ricordi certamente una mia piccola osservazione, in privato, che tu hai smosso con insofferenza, in uno dei tuoi passaggi a Santa Lucia (Mi è successo altre volte, e con altri,  di essere un rompi-cabasisi, per dirla come quel mio amico siciliano: non lo faccio perché ne godo, ma perché lo sento come bene, magari sbagliando, perché no?). Ma fammi dire: quel che succede lì a Bose sta intristendo molti, e sta facendo festeggiare alcuni avvoltoi. E’ mai possibile che non si potesse trovare nel silenzio monastico una soluzione, che è poi, nel caso, l’insediarsi nell’umiltà? Far scomodare Francesco, quanto lacera la tua fedeltà più vera, e tanto lodevolmente espressa, al suo servizio autenticamente evangelico? (pensa che io mi aspettavo, e nel riconoscimento della tua opera, che ti facesse cardinale, avverando un ritorno ai cardinali-diaconi). Leggo il tuo comunicato: già il fatto che con te siano invitati una sorella (già responsabile del settore femminile) e due frati a questo distacco, dice qualcosa, non ti pare? Sai, i cerchi magici… Ed è il qualcosa che dovrebbe darti risposta: sei intelligente a misura spirituale per capire che qualcosa non deve aver funzionato. Dalle tue dimissioni in poi. Immagino la difficoltà di staccarti da un ruolo elogiabile – il fondatore – per metterti nell’obbedienza al nuovo priore. È difficile. Lo è stato per Benedetto, e forse tu hai usato le stesse espressioni nel lasciare l’incarico: “tra di voi c’è anche il futuro Papa al quale oggi prometto la mia incondizionata riverenza e obbedienza”. Certo, ancora una volta tra il dire e l’agire, scorre il fiume dei nostri sentimenti. Sai, è lo stesso dei parroci che lasciano l‘incarico, e continuano a vivere nella stessa parrocchia. Non tutti, ma alcuni si risentono per un suono delle campane diverso, per delle candele che scompaiono, per chiamate pastorali che sembrano mettere in discussione quanto lavorato da loro. Non è così, ma sentono così. Eppure te lo sarai detto, oltre che dirlo ai tuoi lettori, che “lasciare la presa è un’arte non facile”. Ti dilunghi nel capitolo sesto del volume Sulla vecchiaia. Dieci paginette per raccomandare di lasciare ad altri di subentrare “per portare avanti ciò che per noi umani resta sempre incompiuto”. Certo, senti l’esigenza che ci siano cuori pronti ad ascoltare: forse è questo che hai sofferto in questi due anni? Non ti sei più sentito ascoltato? ma su che cosa? e per che cosa? Non per nostalgie del come eravamo belli quando eravamo giovani “e andavamo dove volevamo” (Giovanni, 21), spero. Ma forse questa è l’ombra che sperimentavano proiettata su di sé fratelli e sorelle del monastero; e forse da più anni, ancor prima delle tue dimissioni. Posso dirti che c’era un’aria di guru (presenze- assenze che incombevano) pure sui vostri ospiti? A parte gli acritici passivi che sempre stanno tra i seguaci, e che adesso mi sputeranno sul testo. Ecco perché mi spiace che tu voglia prove per l’accorgimento (sentilo come un accorgimento, e non come una punizione quanto ti è chiesto; e mi ripeto: non avessi costretto ad arrivarci sarebbe stato meglio per la Chiesa tutta, e per chi si arrabatta lontano dai riflettori per indicare le luci che richiamano, e Bose tra quelle!). Ma quali prove? Non si tratta di atti (e mi vergogno un po’ a dire io queste cose a te, di cui sono stato interessato apprendista) ma di quell’esserci che non sa ritrarsi. Non ti sei lasciato custodire a sufficienza dalla tua cella? “L’opera che un vecchio vorrebbe veder finita” non sta consistendo per te in una eredità che sai inviolata, e inviolata proprio da te, nelle mani di un fratello? Una eredità preziosa per la nostra Chiesa e per l’oikumene cristiano, non può aver la sorte dei cedri del Libano: quando cadono, risuona a sgomento e molto lontano il loro lamento. E le pigne si spandono. Recedere è non far succedere. Per favore, fallo.


Finalmente!

Il grido strozzato nella gola di quasi tutti, per il 4 di maggio (che è il giorno prima del 5 di manzoniana memoria. a chiederci comunque attenzione su quell’ ei fu di uomini e di cose della vita). Finalmente! Almeno liberati verso i congiunti! Ma un poco strozzato rimane ancora, sulla elaborazione di congiunto: perché no gli amici. E dunque un prete da un altro prete per confortarsi nella solitudine celibataria, no? Credo che nel bailamme, per altro comprensibile nella pandemia che ha viruslizzato le menti di chi non ne è stato preso fisicamente, sia mancato da parte degli uni e degli altri quella parola tanto ascoltata: responsabilità. Tanto ripetuta quanto non rispettata: non dico nei comportamenti, davvero encomiabili nell’osservare le “distanze”, ma nelle teste. Così nel gran cortile degli italiani ciascuno è entrato in zuffa per le galline che pure sono di tutti: vescovi contro governo, preti contro vescovi.  Una serie di interventi a raccontare ciascuno la sua parte. E finalmente!, dicono gli uni, ché i vescovi oggi hanno detto di non aver nulla contro le disposizioni di difesa del governo, anzi. E finalmente!, anche se un po’ più strozzato, mormorano quelli che han visto fissare una data, ma non è un po’ troppo lontana?, per la riapertura al culto eucaristico. Perché di questo si tratta, e attorno a questo c’è la gran disputa che non si può sorpassare con disinvoltura. Il dominicun, appunto. Desiderarlo è il minimo; e non ridurlo a uno spettacolo televisivo: meglio il nulla, meglio persino che anche i preti non celebrino, e in mancanza di quel popolo celebrante per cui la memoria di Cristo si fa, rispettino anch’essi il digiuno dei loro popoli. Buone ragioni degli uni e degli altri. Ma mi pare che denominatore comune sia la sfiducia nella responsabilità. La dimensione etica della responsabilità è il fine dell’obbedienza: le regole possono orientare la condotta, ma la condotta può orientare le regole; è la risposta sulla intelligenza dell’obbedienza che si deve avvalere della disobbedienza: il mio mantra che molti miei pazienti interlocutori non riescono a digerire. È lo stile con cui nella Chiesa intera ci si deve porre, con cui ci si pone nell’annuncio del Vangelo. Se abbiamo bisogno di templi per la nostra terrestrità religiosa, tuttavia dobbiamo ricordare a noi stessi e al mondo che l’unico tempio è Cristo stesso. E dunque questa è l’occasione data per riflettere sulla “ritualità”: talvolta, si può vivere senza di essa? senza la precettistica che l’accompagna? senza domeniche prive di dominicum? Una risposta la si deve ora per uscire dalla battaglia fuorviante che molti hanno ingaggiato in difesa di qualcosa che forse non è evangelico: né nei modi né nello stile. C’è una impressionante quantità di livore da questa pandemia, e di arroganze: dei nostri politici – e c’era da aspettarselo che non avrebbero imparato niente; ma nella Chiesa? Ci è stato dato un cervello per pensare, un cervello spirituale: per assumerci le responsabilità senza sentirsi costretti da strettoie necessarie, ma anche prendendoci la libertà dovuta a chi ne chiede il servizio. Se è vero che in chiesa si va e non ci si resta, perché fuori è la missione del cristiano; e sempre che la missione della Chiesa è di ribadire al mondo, in un linea chiara, che non è qui per un potere ma per un servizio all’umanità (La Chiesa è Chiesa soltanto se è per gli altri, Dietrich Bonhoeffer). E se entra in conflitto, non è per sé ma perché annuncia qualcos’altro rispetto a logiche terrene. E allora finalmente sgorgherà un finalmente! vero, della verità di un inizio buono per tutti, per chi accelera e per chi decelera. Sull’isola tra Nizza e Cannes c’è l’abbazia di Lerins (ad abati che incontro, racconto di come celiando dicessi all’abate d’essere anch’io un priore ma senza monaci – e la risposta sua, pronta e intrigante: non sa quanto è fortunato!). Ebbene, a Lerins c’è un Crocefisso che sorride. Un sorriso enigmatico per un confitto alla croce. Un sorriso che interroga. Un Crocefisso che chiede di ricordare sempre perché è lì: non finito lì, perché nessuno di noi si senta finito nella vita che muore, e muore ogni giorno nella incomprensione di attese che vanificano, e di intese che si estinguono. E’ un segno di grande speranza quel sorriso sulle labbra di Cristo: invita a sorridere, a non inginocchiarsi davanti a lui avendolo ingessato a una croce, a delle ritualità bloccate che offendono il soffio libero dello Spirito. Invita finalmente a capire le differenze, a sapersi dire che se manca a noi l’Eucarestia, quanto più manca a popoli dell’Amazzonia. E dunque quanto sia lontano dal sorriso di Dio impedire che ne abbiano possibilità, e solo per leggi umane che impongono un certo status di vita per il ministro celebrante, pena il nulla. L’eucarestia varrà pur bene un prete non celibe! Tanto per allargare il sorriso di nostro Signore, e non rinserrarci solo dentro il cortile di casa nostra, dove il razzolare da galline a volte genera ottusità.     


epidemia

Quattro settimane e più da che siamo entrati in un pianeta diverso. E noi preti a celebrare in solitudine: sì davanti alla chiesa  e per la chiesa, ma senza la comunione dei corpi non è lo stesso celebrare. E dunque ci si snoda in modo diverso tra altare e navate, dandosi camminate che sigillano le parole della Scrittura in meditazioni di profondità più accentuata. E così t’accorgi che la profondità si dissimila dalla seriosità con cui imbastisci talvolta il tuo servizio di Parola. Ed emergono pezzi che trasportano ben oltre i muri, e oltre la collina. E dunque immergono nella universalità di quella liturgia che stai celebrando sine populo, ma con tutta l’umanità. Ti fanno sentire più vera la salita al Calvario che ogni messa dovrebbe ricordare, il sacrificio di chi si è dato per noi, per tutti. Ma insieme, in un connubio difficilmente districabile, la memoria di gesti, di incontri, di abbracci. Ed è lì la chiarezza il più delle volte nebulosa: non si celebra la lode di Dio se non passando attraverso la fragilità umana, la stessa che fu del Figlio di Nazareth. E dunque non ci son più quelle “distrazioni nella preghiera” che tu prete hai raccolto tante volte nei confessionali feriali: tutto concorre, tutto è bene che ci sia perché la preghiera sia vera. E se dunque si insinua quel mattino assolato di Nizza, a sgranocchiare per strada la baguette ancora calda, mentre ti si arricchiscono gli occhi delle bancarelle di frutta e verdura stese per kilometri sulla traiettoria del tram … se questo succede, la preghiera prende essa stessa la fragranza del pane sfornato e la benedizione per quel pane che diventerà la presenza del Cristo! Certo, occorre immergersi nel silenzio per afferrare i rumori nuovi: presenti da sempre, coperti, sembrava, per sempre. E invece eccoli lì. Risentire non solo il mattino il pigolio degli uccelli, e il lieve stormire del vento sull’edera rampicante del chiostro, e soprattutto il suono stesso del silenzio. Che, è vero, può inquietare, può tradursi in una pena, in una apnea di affetti, di desideri: eppure è la stessa sospensione del respiro tra una strofa e l’altra di un canto per immergere in verità. Nel canto della vita, che è anche per le pause che chiede, è quel  che sta succedendo? O si vive un silenzio forzato, nel sentore della segregazione, e dunque di una punizione immeritata? I soliti figli maggiori della parabola si son fatti sentire anche dentro questa pestilenza: è un castigo di Dio. Detto così equivale alle Madonne che piangono. E cioè un Paradiso che non è gloria, pienezza massima di vita e dunque gioia incontaminata, e incorruttibilità; ma cielo di vendicatori e di piagnucolanti: c’è qualcosa di più blasfemo di questo? Purtroppo, un certo modo di supplicare Dio in pretesa di miracoli, produrrà credenti entrati nella pestilenza che se ne usciranno non credendo più: Dio non ha fatto, i Santi non hanno ascoltato, ho pregato tanto… Un Dio che non è il Signore, Santi che non sono intercessori, ma dèi dalla bacchetta magica: ci si dovrà interrogare su quale spessore di fede si vive nelle nostre comunità. A suo tempo. Adesso pieghiamoci a questo tempo di silenzio: benedicendolo. O almeno chiedendo ai Santi e al Signore di farci capaci di benedirlo. Così si ottengono i miracoli che non si chiedono: perché così si rende presente la bene-volenza del Signore nella cagionevolezza che sperimentiamo.  


dominicum

È avvenuto quello che non mi era mai successo: le partite di pallone? a spezzoni, per curiosità condivisa con i milioni altri,  in tempo di mondiali, niente più. Non sono tifoso. Mai entrato in uno stadio, neppure per manifestazioni religiose (questo però dovrei spiegarlo a parte…). Ma ieri sera mi sono digerito tutta la partita. Ammaliato dallo stadio vuoto. Dall’assenza del fracasso di cosiddetti tifosi che son lì non per contemplare, ma per esibirsi in cori da stadio, appunto: insulsi, quando non sono offensivi, certamente lontani da un rito che chiede pause di silenzio. Silenzio appunto: e il suono del calcio che finalmente ti arriva. Quelle voci, quel pallone che tocca suolo o la traversa. Il silenzio che ti fa partecipe finalmente del gioco, dei suoi protagonisti, e fa anche te protagonista. Perché sì, i calciatori hanno necessità di chi li circondi e li ammiri. Ma nello spettacolo di ieri sera (quattro gol più quattro non son mica paglia, cantavano i telecronisti), avranno sentito su di sé lo sguardo diverso, la diversa partecipazione di uno, o forse di tanti che come me sono stati coinvolti totalmente una prima volta?  Non tifoso, ma frequente lettore di cronache sportive – si impara sempre, si impara da tutti – leggevo di una partita a stadio vuoto da tutti considerata più che una bestemmia, qualcosa da campetti d’oratorio: detto con quel tono sarcastico di chi non sa che il meglio dei giocatori è partito da quei campetti.  La solitudine di sgambettanti rincorse non per spettatori ma per se stessi: una bestemmia, o invece una liturgia? (Profanata oggi da quei genitori che dagli spalti ridotti dei campi di paese traducono in piccolo, ma non in modo meno truce, l’aggressività delle curve.).  Non potrebbe essere stata una rivelazione, una epifania, anche per chi è uso guardare dalla conca domenicale infuocata? Il suono del calcio è il silenzio di uno stadio. Perché le sfide più ardue possano essere vinte senza necessariamente perdere se stessi: soprattutto in un gioco, perché tale è e dovrebbe tornare ad essere. Ma soprattutto in quelle sfide che la vita ti mette dentro i giorni: facendoti arretrare di fronte ad ottimismi facili o a pessimismi faticosi; costringendoti a rivedere il nocciolo delle cose, tempo e spazio che chiedono di essere rimisurati in tempi di epidemia, ma per i tempi di sempre. Perché sì: è giusto che i credenti siano, alla Diogneto, in tutto cittadini della loro patria. Ma la sofferenza di non avere il dono dominicum, se celebrato in sicurezza? quell’eucarestia che è salute dei viventi? Responsabili certo, ma da adulti. Forse chi ha deciso e chi si è adeguato senza meditato confronto, meriterà, a epidemia conclusa, di essere raggiunto da una qualche interrogazione. Perché le sfide si assumono senza rinnegare se stessi. Tutte. Anche quelle di tempi nefasti. O soprattutto?


Infezioni

Scrivo proprio perché costretto da chi chiede che dica qualcosa anch’io. Come se i senni che si sono sprecati in questi giorni non bastassero! O come se io potessi aggiungere qualcosa di utile! Ma insomma. Sicuramente tempo a disposizione per informarsi di più ce n’è, visto che hanno fatto abbassare saracinesche su tutta la vita sociale di un prete. E dunque: dal pippistrello allo zibetto è venuta la sars, dal pippistrello al cammello la mers, dalle grandi scimmie l’ebola, dagli uccelli selvatici a quelli domestici l’aviaria, da carni ovine e  bovine la muccapazza. A parte l’Inghilterra che fu focolaio di quest’ultima epidemia, e l’Arabia per quel che concerne la mers, maggiore imputata di focolai è la Cina: la densità di popolazione, gli allevamenti misti, i mercati di animali vivi, permettono a ceppi provenienti da animali diversi di combinarsi e di “impazzire”. Il che potrebbe dar ragione a quei populismi che nel recintare le proprie nazioni così impedirebbero a ceppi umani diversi di combinarsi e dunque di impazzire? O ha ragione chi sostiene il contrario? Due le possibili riflessioni. Gli animali sono all’inizio di queste malattie dell’uomo; e dunque ci fanno ricordare, a noi uomini comprese le donne, che siamo animali: cosa per altro da non dare come scontata, visto l’esito di certi comportamenti di cui ci doliamo a ragione non veduta.  E poi, questa epidemia non sarà l’ultima. La prima che conobbi fu l’asiatica (due milioni di morti!): di anni ne avevo tredici, ero già in Seminario, a Clusone: mal sopportavo la montagna, che mi rinchiudeva desideri e affetti. Eppure quei giorni a letto, in una vasta camerata soleggiata (si era di febbraio, e la neve fuori riverberava ancor più la luce) sono i migliori che ricordo: colmati di attenzioni come non saremmo stati mai in quei tre anni di reclusione – finalmente accuditi maternamente, come solo a casa propria. Perché lì, in quell’incavo infelice tra montagne percepite ostili, la nostalgia densa era la mancanza del cortile di casa. Un rifugio? nella bellissima cappella lo sguardo di Maria nell’altare di sinistra: cercato più volte, era quello di mamma; e di tua mamma la consolazione che traluceva dal sorriso non per il Bambino che Lei portava in braccio, ma per te. Dunque giorni belli quelli dell’influenza, nonostante i malanni che non ricordo: a dire che non è il male in sé, ma come sei accompagnato in quel che succede. Per questo è problematico l’eccesso di prudenza che lascerà vuote di celebrazioni eucaristiche le nostre comunità la prossima domenica (sto ancora sperando che si ritorni sulla decisione …)? o no? Un proibizionismo che faticosamente si accetta in obbedienza, e che tuttavia si spera capace almeno di un affinamento della religiosità in tutti; e di una conversione in quei pochi che l’eucarestia son contenti di farla mancare a chi non ha preti, pur di non intaccare il tabù del celibato. E infine: perché la zona rossa non l’hanno estesa alle tv? L’infezione psichica del panico quanto è figlia di trasmissioni che girano attorno ai quanti contagiati, ai quanti morti, con una frenesia che fa quasi rimpiangere (vedi a che punto!) che non siano ancor di più, di quanto già non affliggano l’umanità televisiva, le trasmissioni di cucina. E per accorgersi una volta di più che la madre degli indignati fasulli è sempre incinta: persino quando sarebbe opportuno che donna non conoscesse uomo, per il bene di chi è già afflitto di suo.


gli sconfitti

Non vi siete meravigliati vedendo il trofeo dato come miglior allenatore di calcio? Una panchina d’oro, disegnata come l’archetipo delle panchine che tutti hanno in testa. Quattro gambette, due assi per sedere e due per appoggiarsi. Quelle insomma che dai campi dell’oratorio agli stadi degli anni fino ai novanta hanno “addobbato” il terreno di gioco. Ma ora? Viste quelle mastodontiche poltrone su cui affondano allenatori e coorte? Che c’entrano? Possibile che messe lì non chiedano vendetta agli dei? per come ne esce sconfitto l’archetipo del calcio? O non esiste più, non solo l’archetipo ma neppure il calcio? Di oggi la notizia di uno scrittore inglese, di cui è un affascinante romanzo sul calcio,  che ha deciso di non scrivere più; e proprio perché, dice, non si riconosce più né nella società inglese né nel calcio parcellizzato per avidità: Vi dicono che non è tanto per gli introiti televisivi, ma per dare a tanti la possibilità di vedere in diretta la propria squadra: falsità. Così come, sempre a proposito di inglesi, con “vere falsità” si è arrivati alla brexit: qui l’ossimoro ci sta tutto. Spaventando i meno informati con bugie e con paure indotte, hanno massacrato una speranza: quella che ha tolto da sotto i piedi per settant’anni quel nazionalismo produttore di guerre, rimettendoci tentazioni di sovranismo ormai seminato in gran parte d’Europa. Di falsità si sta nutrendo l’America chiamata al voto: dove quel che conta è il denaro, sia quello ereditato e in gran parte sperperato, sia in quello guadagnato fino a cifre impensabili: e lì la falsità è sul concetto di democrazia, dato che vince chi si impone con una più vasta propaganda. Sapendo ormai tutti che più titilli la pancia, più il popolo si sposta. E dunque chi è sconfitto? veramente sconfitto? Chi appare vincente usando l’apparenza? usando la menzogna? Dopo la lettera sui Queridos dell’Amazzonia, la fronda politico-teologica che avversa Francesco a prescindere, deve aver tirato un sospiro di sollievo: la tragedia del tocco sul celibato dei preti non si è avverata. E debbono pensare che è opera loro: dei loro tre cardinali referenti, e di qualche decina di vescovi (su cinquemila) che hanno fatto clamori, stacciandosi le vesti (già visto nel Vangelo!). Si sentono vincenti: e sulla pelle di comunità della foresta che non avranno l’Eucarestia, quella tal Cosa che fa la Chiesa. Sono ottusi (e il brano di Matteo che hai letto domenica con l’ ammonizione a non usare parolacce contro il prossimo? Certo: ma se è l’unico modo per aiutarli a crescere? Gesù insegna: lui che non ha lesinato male parole – sepolcri imbiancati – della serie quando ci vuole ci vuole!). Ottusi perché incapaci di volersi liberare da pregiudizi: e sulle convinzioni della necessità del celibato espresso da Francesco, ma insieme sulla astoricità della esclusione di presbiteri sposati accanto a quelli celibi. Sconfitti sono quelli che amano la propria schiavitù religiosa, o quelli che vivono la libertà che lo Spirito del Signore innesta in loro? Di quante falsità hanno invaso un certo mondo cattolico, con attacchi frontali e strategie degne di miglior uso per la fede. Sono perdenti, sono sconfitti, perché stanno dimenticando l’essenziale del vangelo: l’amore. In un suo testo degli anni sessanta del secolo scorso. quando ancora quest’onda di rivalsa non era lo tsunami che si sta vedendo, Carlo Carretto, il piccolo fratello del deserto, scriveva: quanto sei contestabile Chiesa, eppure quanto ti amo. Quanto distanti, questi sconfitti, da parole cristiane. Dove c’è arroganza, non c’è Vangelo; dove c’è carità, lì è Dio.


desnuda

Non dell’opera di Francisco Goya, che richiama al Prado di Madrid curiosi un poco morbosi, e poi disillusi, più che appassionati d’arte che possono trovare lì capolavori di Rubens, Rembrand, Tiziano; di El Greco con la sua Resurrezione – che è eros puro nel connubio con thanatos, la morte; se non dello stesso Goya, con quel El tres de mayo dove il condannato in bianco e giallo alza e spalanca le braccia come un crocefisso e grida la sua fede per la libertà. Non dunque della Desnuda di Goya né del suo fucilato-crocifisso così simile al Cristo di El Greco, con quella mano perforata a ricordarne la passione – anche se forse troverete una connessione qui. È questa collina che da qualche giorno è desnuda: un invito a ripulire i margini della strada, dal fogliame che calava sino a sfiorarti, è diventato un disboscamento che ha raggiunto alberi da alto fusto: e quelle rotonde vestigie sane sono lì, accumulate, ad accusare. E ottenendo una piattezza che stona. E se chiedi perché, ti rispondono Già che c’ero: uno strapianto molto, molto increscioso. Denudata: e ci vorrà un po’ più di una estate perché tornino le ombre a lasciarsi accarezzare dal sole su questa strada, viottolo antico, che porta alle pietre antiche. Un’operazione che ha avuto la vigilanza indispensabile? Mah! Di altri denudamenti, e certamente più drammatici, viviamo. Una Chiesa messa a nudo, e non solo per gli scandali pedofili. Messa a nudo in personaggi che sono stati “elevati” a dignità di testimonianza, e che vivono di un narcisismo per nulla evangelico. Di una rigidità che non conduce al sineglossa del Vangelo; volendo far vivere di una sacralizzazione che è distante dal Nazzareno, mandato a chiedere fede e non religione: non ritualità ossidate, non separazioni inumane. Ma un desnudamento di quel vivere civile che ha fatto della politica un assecondamento dell’egoismo più becero. La distinzione sociale che doveva obbedire a una acculturazione dei popoli sta diventando – è diventata – uno spogliazione di quei traguardi di convivialità che pure le generazioni precedenti avevano generato. È penetrato nel vissuto degli individui quell’odore stantio che annusi in certe scale di condominio: dove ciascuno cucina secondo sé, incurante delle narici altrui. Ho imparato in questi giorni una nuova parola, emmenalgia: viene dal verbo greco emméno, che significa rimango saldo, persevero, continuo strenuamente. Nonostante. Questa è la fedeltà che ci è chiesta: rimanere dentro le istituzioni, chiesa e mondo, nonostante. E nonostante che, parole come queste, siano bollate come cose da parroco. Bollate da gente che scambia la risposta ai bisogni quali fossero sogni: e non la speranza che conduce, appunto, e concretamente, in questa marea di mediocrità dentro cui siamo immersi. Cacciar fuori la testa, non assimilarsi, controbattere: sapendo la fragilità altrui misurata sulla propria, e tuttavia non cedendo. Che non è ridursi alle fantasie delle magnifiche sorti e progressive; ma aver chiaro che il peccato del mondo, tolto dal Cristo, non ci salva dai peccati di infedeltà di cui sappiamo così bene, e tutti, infarcire i nostri giorni. Bukowski ha scritto che “tutti i vicini pensano che noi siamo strani, e noi pensiamo lo stesso di loro, e facciamo tutti centro”. È vero: con la distinzione però del centro. Ci può aiutare l’indimenticabile battuta di Marcello Marchesi: l’importante è che la morte ci trovi vivi. Vivi di quale vita? È la differenza del centro. Si può anche vestire la desnuda accoppiandola alla vestida. Ma l’effetto potrebbe essere peggiore dell’originale, se si perde la libertà del fucilato che prorompe dal grigio degli altri corpi.


emerito

Un giorno il papa Paolo VI disse, scandalizzando gli ipocriti, che il fumo di satana era entrato nella Chiesa. Eppure erano tempi ancora molto coperti: in barba a tutto, si viveva del preconcilio a Concilio ormai consegnato. Un fumus persecutionis che tocca il papa attuale in modo sconosciuto ai secoli che precedono. Eretico, idolatra: due accuse che sbiancherebbero chiunque nella Chiesa di Cristo, tanto più chi è stato chiamato ad essere presidente della carità ecclesiale, e dunque dell’unità e della difesa della verità. Ma tant’è: viviamo in un’epoca che minaccia di consegnare alla storia non chi ha tracciato un cammino, ma chi si sbatte per chiudere orizzonti. E qui – spiace dirlo a me che ne ho sempre avuto stima anche in tempi in cui lui stesso era vittima di disistima (ma non di persecuzione come ora per il suo successore – l’assist di Benedetto già papa a un cardinale conservatore rimette fiato ai persecutori.  È in uscita un libro che si occupa del no ai preti sposi: e già le anticipazioni titolano con un ”non posso tacere”. Che è brutto; e dunque si spera che sia il solito modo di certa stampa di sollecitare gli istinti primitivi,  la stampa che ama la guerra. Perché non tacere? Non era forse il primo proposito di un papa che ha lasciato, e che, seppure con espressioni diverse, affermava l’esatto contrario: ora devo tacere? Che certi argomenti li titilli un cardinale di curia è ormai diventata una tale moda che può invitare solo al “guarda e passa”. Ma che l’Emerito intervenga, più che ai diritti d’autore del porporato, dà un assist a tutti quei gruppuscoli che stanno macinando rancori e divisioni all’interno della Chiesa. Chi sono? Lefebvriani occulti messisi nell’onda di autodemolizione della chiesa di Roma; lugubri scontenti per una carriera mancata (loro, si pensavano in un’azienda e non nel vangelo del Nazareno); fanatici dell’ombra chiesastica, con riti che odorano di muffa, e non del profumo dei gigli di un campo aperto, o del volo libero di uccelli nel cielo che non è mai lo stesso. Non fossimo stati avvertiti da Lui, il Signore,  che la persecuzione è criterio di verità evangelica, ci sarebbe di che sprofondare. Ma fa male, ma scandalizza gli indecisi, ma allontana gli uomini che pure cercano con cuore sincero. Un a soluzione ci sarebbe: dalle cinque piaghe di Rosmini ad oggi le piaghe sono aumentate di numero e di consistenza; ma l’inizio di tutto, il tarlo che rosicchia e indebolisce, è in quegli apparati che assimilano la Chiesa a una qualsiasi delle potenze terrene. Il ritorno a Zagarolo (ne ho scritto più volte) è il primo comandamento: annullamento dei fasti e delle onorificenze, la sobria solennità del culto, il decentramento dal vaticano all’autocefalia apostolica delle diocesi, il riordino della teologia secondo priorità che rispondano all’umano che oggi si conosce. E, ad esempio, le categorie di puro e impuro che hanno afflitto quel grande dono che è la sessualità, potrebbe suggerire alle inveterate certezze di un emerito novantenne che ci si dà in totalità al Signore e al suo servizio anche da sposati. Al porporato che l’ha coinvolto non chiedete remissione: c’è una durezza di cervice insormontabile.


presepe

La messa della notte di Natale a Bagdad non si celebrerà, per motivi di sicurezza. E dato il contorno del fanatismo guerrafondaio, dolorosamente necessario. Per gli stessi motivi, prima non si voleva permettere ai cristiani di Gaza di recarsi a Betlemme o a Gerusalemme, poi, sì, con un permesso rilasciato dalle autorità israeliane. Da noi, in questa patria italica, c’è un sindaco che impone il presepio in ogni edificio comunale; e che sia grande. Il che, ha fatto scrivere a un notista satirico: “cassato l’iniziale obbligo di escludere dai presepi comunali tutti gli extracomunitari coinvolti, siccome sarebbe rimasto solo l’asino, poteva sembrare satira politica”. Eh, sì, perché il suprematismo bianco sta perdendo colpi nei fatti: camerieri, spazzini, muratori, medici, ma fidanzati e fidanzate, hanno facce diverse dai caucasici di cui si pensa debba popolarsi la penisola. Con qualche subita eccezione per badanti, sennò  i vecchi restano soli e ci rimorde la coscienza. Già: perché dopo aver speculato elettoralmente (risultati che ancora non sono reali, ma che dovrebbero addivenire, alla madonna di medjugorie piacendo, al più presto se i giallorossi finalmente smettessero di litigare per scherzo e liberassero il campo!) – dopo aver imprecato con espressioni che sporcherebbe questo schermo se si citassero per intero frasi su bastardi e bestie riferiti a nordafricani, ora – senza un’autocritica su almeno i napoletani cantati come puzzoni (e la memoria ha un senso per traguardare i dirimpettai) – ora ci si stende oltre Po, oltre il Tevere, fin oltre Scilla e Cariddi. L’armata dei bugiardi dev’essere sconfitta: e dunque quello svegliarsi per accorgersi da cui ci siamo lasciati toccare nel nostro avvento di qui, deve partire dal presepe. Quello in cui può mancare il Bambino perché abbiano posto quelli che non trovano posto, neppure una stalla. Lo si è fatto, una volta per sempre, purché ne rimanga l’ammonimento. Un presepe che possa diventare fonte pura, per purificare quei pozzi avvelenati cui si stanno abbeverando generazioni vecchie e giovani, che credono alla lingua della violenza, la sola creduta risolutrice. O alla lingua dell’indifferenza, la sola che acquieta in un’attesa passiva del nulla. Dove non c’è Eterno. O il cui eterno è fatto di angeli i cui battiti d’ali hanno la consistenza dell’effimero. “La vostra disgrazia è nel fatto che vi sembra inverosimile”, ci ricorda Dostoevskij: inverosimile che la presenza di Dio stia nella vita di ogni uomo. Inverosimile che lui stia nascosto nel Bambino di Betlemme; o che la sua presenza sia rifiutata, come nei saccenti di sempre, quelli che bastano a sé. Partire dal presepe per accorgersi di quelli che stanno nel mondo: lavandaie, arrotini, massaie, falegnami e mugnai, ma anche la  grazia di Maria e l’accoglienza di Giuseppe, colui che aggiusta per le nostre povere attese il progetto di Dio. Partire dagli umili che siamo, per quanto non viviamo da lavandaie, arrotini, massaie, falegnami e mugnai. E tuttavia sentirsi potenti di Grazia: amati e dunque fatti amanti, accolti e dunque accoglienti. Anche se ciò comportasse sentirsi ormai in pochi, una minoranza. Sarebbe bello potersi presentare all’Eterno come gente che è vissuta da presepe, includendo e non escludendo; e poterci annunciare come chi invece di essere arrogante è stato prossimo