solitudine
Montagne innevate, e il Brembo tornato ad essere quel torrente glabro dopo le tante piogge: così percorrendo la circonvallazione, e lasciando che sia l’auto a guidarti. E pensieri che si intessono, intrecciandosi, tra ciò che di alto ci è dato e quanto di terreno ci umilia. Predicazioni di secoli gettate al vento fragoroso eppure inconsistente degli anni che viviamo? A sopraffare quello dello Spirito, vento che soffia tenace nelle vite dei credenti? Impossibile secondo la teologia; e invece è qui, nella indifferenza dell’alto – neve sulle montagne che non richiamano: è mai possibile? – e nell’abitudine al mediocre del basso, che come torrente neppure scorre, ma fluisce a poco a poco senza fremiti. Un Vangelo negato dalla quotidianità sterile di chi vive senza proiezioni universali. Sì, c’è l’irruenza della tempesta a far tracimare persino il piccolo: ma è ancor più segno della fragilità in cui viviamo questi giorni. Rinchiusi in ghetti che ci costruiamo attorno, la pena che da qualche anno affligge i mercati nutrizionali, e subito ricordate le etichette: prodotto in Italia come il non plus ultra, e non alla faccia del km zero, ma nella improntitudine di chi si sente il migliore. Essere unici dissidenti in una comunità ristretta in cui il verbo nazionalista sembra essersi diffuso come un morbo: questo il compito del momento. Riservato a pochi? Perché no? Percorrere la strada di una solitudine che germina, di una promessa mantenuta contro la tentazione di vivere il poco come se fosse il tutto. Ci si interroga oggi sulla solitudine: solitudine affettiva e sociale, ma non si scava nelle radici. E dunque la si lascia intatta fino a costringerla a un isolamento da sé. Non si scava fino a trovarle il senso perduto, quanto conduce alla fame e alla sete di eterno che chiama, ed esalta. Quando qualcuno ti appoggia addosso un sorriso, ti sta chiamando fuori da te: ti dice che la relazione ti è indispensabile, che ogni umana relazione si nutre di ben altro di quanto vedi e tocchi. L’assoluto della fede che è poi l’avvedutezza dell’insicurezza: il tentare di vivere nelle sicurezze dei recinti è la negazione di Dio, che è l’infinito di cui pure siamo impastati. Vedete: un prete non ha figli che prendano il posto dei genitori quando vengono a mancare. Una solitudine che molti non reggono, perché non si proiettano in quella generatività che sta oltre il dato biologico; e perché non si lasciano deporre addosso quel sorriso della vita, che ha radici ben oltre la terrestrità. Trovare parole che riescono a mettere insieme l’amore e la fedeltà; a dominare l’emozione viscerale che si sente di fronte al dolore del prossimo o all’abbattimento incontenibile per la persona che si è perduta, non potuta trattenere dal nostro amore. Sentimenti che irrorano la solitudine, che la rendono feconda anche per ciò da cui non riusciamo ad essere capacitati. L’assoluto della fede è accettare di essere chiamati fuori, pur nella incertezza di passi che segnano tuttavia un cammino. Verso l’Oltre, verso Lui, il Signore che viene.
novembre
Stiamo abbandonando il mese dei morti; o dei viventi, secondo la fede cristiana. Un mese che aggiunto a tutti gli altri di una vita sono anticamera di quel che aspetta ciascuno: paradiso o inferno? Categorie obsolete per molti, del tutto inafferrabili per altri. Eppure sono lì a presiedere il perché dell’esistenza umana: creati per il nulla, o da Qualcuno che chiama a sé? È così improponibile a un minimo di senso che la vita finisca nella morte! Eppure il gran velo che copre le attese degli uomini non viene strappato da una cogente intuizione: e per i molti adulti che si dicono insignificanti per la loro sete di vita – perfino il sole dell’orizzonte tramonta per rinascere, e non certo secondo cifre del socialismo partitico; ed anche per i tanti della nuove generazioni che vivono nella più assoluta assenza dell’idea di un Creatore, e dunque di un fine. In tutto questo, la Chiesa oggi è chiamata a muoversi: e lo sta facendo con la difficoltà del non sapersi scrollare di dosso secoli di irrigidimento ideologico. Perché sì: i secoli dei dogmi, delle verità ritenute intoccabili, hanno ingessato quello scoprire il Creatore nelle creature, con la faccia sempre nuova di Lui che si disvela in continuità. Gli esempi recenti innegabili? Le reazioni all’enciclica Amoris laetitia – o meglio a una piccola nota a piè di testo; o il rigurgito per l’ultimo Sinodo, che si interrogava sulla necessità di una eucarestia celebrata finalmente al di fuori di concezioni di impurità rituali, di cui da più di un millennio si è sospettato il matrimonio. L’essersi lasciati imbrancare in una religione – una serie di regole nel modo che così il Nazzareno non voleva – e non aver accettato il rischio di una fede assoluta: di un vivere cioè in ciascun giorno, evangelicamente, a quell’affidarsi che compone una vita buona, misurandosi nelle personali fragilità, ma insieme riscoprendo in sé giorno dopo giorno la ricchezza di cui siamo stati investiti dalla somiglianza con Dio. I lampi improvvisi dell’anima? La propria e l’altrui? Quelli che vengono in solitudine o forse seduto con un amico – come narra un verso di Spoon River, l’antologia del cimiteriale universo novembrino – quei lampi improvvisi dell’anima non possono non succedere a chiunque, prima o poi, ateo o agnostico che si dica, purché uomo. E dunque l’afflato del mistero, che susciti la fame di una vita che non può rinchiudersi negli anni brevi e poveri dell’esistenza terrena: brevi per quanto lunghi e poveri per quanto felici. A ciascuno deve succedere. Distratti non si sono avvertiti? La Chiesa oggi è lì a scomodare, opportune et importune: questo il suo compito. Ma è credibile se non si presenta arroccata, ma libera della libertà evangelica: guardate i gigli dei campi e gli uccelli che volano in cielo, guardate alla loro bellezza e insieme avvedetevi della loro precarietà. Ma come richiamare alla precarietà della vita terrena, se prima non si predica la precarietà della Chiesa stessa di fronte al Regno? La precarietà di verità fondate sul tempo – che scorre; su storie che si capovolgono; su ricchezze e debolezze che si trasmutano nel loro contrario. Questa è la Chiesa che il mondo esige: non predica sé ma il Creatore di ogni cosa, che non è l’imperturbabile burattinaio, ma l’amoroso che aspetta.
insomma
La pagina bianca intimorisce appena la apri. Poi ti fidi di quel che pensi, e incominci a scrivere. Di solito senza perdere troppo tempo. Ma non è sempre così, e questa è una di quelle volte, e non perché abbia una qualche ritrosia a scalpellare i monumenti: se vanno scalpellati (e l’operazione non è mai per demolire, ma per rimodellare – tuttavia tenete presente lo scalpellìo di Michelangelo sul naso del suo Mosè – inutile perché illusorio). Certo è che occorre aver buon senso per non scambiare verità con menzogne. . Dunque, a proposito di monumenti: perché i cardinali ricorrono così spesso ultimamente nelle cronache di chi non apprezza più il silenzio d’oro? L’uno (già scritto, ma repetita juvant fino a che non c’è chiara conversione) che invoca novene contro un Sinodo voluto dal papa, e dunque contro il papa stesso, anche se è di quelli che premettono sempre che loro al papa gli vogliono bene, così come si premette io non sono razzista, ma… ; l’altro che prega perché il papa non firmi quanto il Sinodo auspica rispetto ai viri probati, che si vorrebbero per nutrire di eucarestia quanti fin’ora non la possono vivere. E quest’ultimo è il cardinal Ruini, un sant’uomo e lo dico senza quella sottile ironia che accompagna le immagini dei santini di turno. Un uomo intelligente, che ha fatto storia nella chiesa italiana, ma. purtoppo, una storia di parte. Forse perché emiliano, dove i comunisti erano lo spettro di quelli sovietici? e dunque ancor più intriso dell’angoscia che slavi affamati di bambini calassero anche in Italia? Uno schieramento, che lo ha indotto a “scomunicare” l’espressione di “cattolico adulto” usata dall’allora presidente del consiglio Prodi per dire una laicità politica rispetto a indicazioni di simpatie destrorse dell’allora capo dei Vescovi italiani. E gli fa dire ora che sventolare il rosario nelle piazze o sulle spiagge può essere il modo di un politico di mostrare una sensibilità religiosa! Unendoti i due periodi, un editorialista scrive: sua eminenza il cardinale Camillo Ruini crede in Dio e in qualunque peccatore si opponga alla sinistra. A suo tempo diede la sua benedizione a Berlusconi, oggi fa lo stesso con Salvini. Noi agnostici possiamo solo sperare che stavolta l’effetto sia più rapido. Nelle stanze ovattate dove giustamente coltiva la sua età di novantenne, è facilmente presumibile che non gli arrivino i respiri del tempo, quell’angosciante atmosfera che circonda le canoniche di preti smarriti da una indifferenza pari al dirompere di uno spirito antievangelico. Pontifica su un atto di Chiesa, quale è un Sinodo, e benedice – pur con qualche distinguo prelatizio – chi è a capofila del dissesto del capitolo 5^ dell’evangelista Matteo, e dunque dell’intera buona notizia portata dal Nazzareno. Resi incapaci, i battezzati, di abitare il Vangelo da una ossessiva predicazione partitica che sbuccia gli argomenti più egocentrici per la pancia di un popolo: che dire bue sarà politicamente scorretto, ma vero. Cari porporati, lasciatevelo dire da un vostro mancato collega cardinale (se tanto mi dà tanto…): il martirio di cui è segno il rosso del vostro abito, potrebbe essere quello di accettare di vivere una stagione di Chiesa che non capite. Ma che non per questo è meno vera della tante altre gloriose del passato, dentro le cui pieghe vi credete salvati.
Malintenzionati
Di uso comune nel linguaggio esortativo di genitori preoccupati: per una uscita serale, per frequentazioni non convincenti, per situazioni abitate da individui poco limpidi. Almeno, una volta era così, e così si diceva. Ora per vero lo si sente meno dire. Forse che tutti son diventati trasparenti? Per poco che si capti, di malintenzionati è piena la terra, ed è un peccato che questo attributo non stia quasi più negli avvertimenti educativi. Senza pesantezze e senza inquisizioni poliziesche. Epperò lasciarsi avvertire da quanto capita per le strade e nei luoghi di ritrovo (siano cantine private o discoteche di diffusa fama) avvertire potrebbe anche essere una prima informale catechesi: guarda che non sei immortale, e può capitare anche a te di finire in cronaca nera, se non scuti e dunque non conosci. Ma malintenzionati come? Treccani racconta di persona che negli atteggiamenti, nelle parole, nella condotta mostra inequivocabilmente cattive intenzioni, cioè il malcelato proposito di voler nuocere ad altri. Inequivocabilmente e malcelato chiedono approfondimento: se non si deve pensar male gratuitamente di qualcuno, solo perché veste o cammina in modo non simile al proprio; tuttavia malcelato rende sicuro il giudizio, quando traspare che l’altro ha intenzioni variamente maldisposte sul conto di qualcuno. Che il papa attuale cammini ondeggiando per riconosciuti problemi fisici; e che i papi precedenti avessero una andatura più rigida o più pomposa, non è – e lo capirebbe anche un asino se l’asino potesse capire – motivo di condanna dell’uno o degli altri. Eppure qui c’è ancor più di condanna; c’è il tentativo di distruggere. Certi blogger, diaristi vaticanisti, sono evidentemente malevoli: anche se li vedete scrivere che io voglio bene al papa. Ma quel che segue insegnerebbe molte cose alle frecce avvelenate degli indiani dei film western. Sono facce d’angelo, multigenitoriali, passate attraverso centinaia di trasmissioni televisive, con il cupolone sullo sfondo; o si sentono magister per una dislocazione del proprio cognome all’infinito della presunzione; o si nutrono di tristezze che neppure la memoria del loro guru che chiamava a liberazione e comunione rende lucidi; o s’accampano a indire novene per contrastare le eresie che sarebbero nel sinodo amazzonico, cardinali che in barba a disposizioni credono di servire Gesù Cristo facendosi reggere lunghe code purpuree – mentre si fanno finanziare da cortigiani dislocati in una destra che più antievangelica non se ne può. Non è più tempo di scomuniche, certo. E dunque oggi la misericordia in primis dev’essere per quelli che ci stanno vicini: eretici mentre danno dell’eretico, e scismatici mentre predicano che il soglio di Pietro è vacante. Certo criticare è lecito, malevoli no, e lì c’è una malevolenza certificabile. E dunque guardarsi dai malintenzionati è precetto. Misericordes sicut Pater per chi non sa star buono al proprio posto.Anche se occorre soffrire che anche la Chiesa abbia oggi i suoi terrapiattisti. O i suoi vegani di ritorno da mense epuloniche.
miopie
Mi verrebbe subito da dire che anche in Italia c’è chi ha ricevuto il sacramento dell’Ordine, pur essendo sposato: per non parlare degli anglicani entrati nella chiesa di Roma con moglie e figli. È vero non sono preti ma diaconi: ma viri probati, sicuro, per quanto il probati lo si applichi con non tanta parsimonia a giovanotti venticinquenni ordinati presbiteri. Ma tant’è: se il Sinodo in atto limitasse lo sguardo a ‘sta cosa – importante, certo, ma un tassello del tutto – si capisce perché neppure le ampiezze amazzoniche smuovano porpore cicalanti, che fingono – fingono! – di non sapere la distinzione tra disciplina ecclesiastica e dogmi (non dando per scontato che anche i dogmi non potrebbero essere rivisti alla luce del Vangelo masticato oggi dall’uomo; e dunque da quella libertà di pensiero e di esperienze che non confinano il mistero di Dio dentro storie e umori e rigidità). Rigidità storiche come l’accanimento del crocefisso sui muri scolastici, altro motivo di sguardo miope: ma se viene staccato per picchiarlo sulla testa di islamici – e fra qualche settimana pronti all’uso saranno anche i presepi – non varrebbe impegnarsi a impedire tentazioni che gridano vendetta al cospetto del Crocifisso? E invece lasciarsi finalmente toccare dalla storia che si sta costruendo; e che si costruisce sulla paura e sull’odio. Lo Yom Kippur, la festa grande per eccellenza degli Ebrei, festa della Riconciliazione, diventa scenario di morte in Germania: e, in quel land dell’est mai riconciliatosi con l’ovest, e neppure un po’ convertito dal comunismo a una solidarietà dei popoli. E pendersela con gli Ebrei in Germania? Proprio lì dove ci si aspetta che la storia abbia finalmente detto no alla xenofobia? Di suprematismo bianco, del prima noi, forse è colpevole oggi solo l’occidente? Di colore diverso ma di suprematismi diffusi, di xenofobie all’inverso? Di nazionalismi si muore: lo sta dicendo l’America , e lo dicono l’Asia e l’Africa. Sta provando a dirselo l’Europa, con la miopia di chi vede il recinto e si crea il nemico. Dire che l’Amazzonia è mia e ne faccio quel che voglio, è oggi il miglior emblema della stupidità nazionalista. E sarebbe da annoverare tra gli stolti quanti volessero resistere sul non si fa, là dove l’universalità della Chiesa chiede differenze che rispettino ritmi e culture: se l’unità è davvero intreccio di diversità riconosciute, la Chiesa di Cristo ne dovrebbe essere esempio per il mondo. Insomma sarebbe da miopi non riconoscere una laicità ecclesiale: una schierarsi finalmente e solo sul deposito della fede – unità e trinità di Dio, incarnazione passione e resurrezione del Signore Gesù – e finalmente lasciare che lo Spirito di Dio aleggi come vuole lui a ispirare le cose ecclesiastiche. È tempo di rimuovere le cataratte dagli occhi di cristiani pregni di religione e meno di fede.
patina
Ne ho accennato nell’ultimo scritto, dolendomi per il monumento grandioso di Mosca, ricostruito, e privo dunque di quell’eternità terrena che sa imprimere il tempo. Ci ritorno per la notizia sulla Pietà di Michelangelo (la Pietà maledetta, che sta nel duomo di Firenze, quella che Michelangelo tentò di distruggere): anch’essa ha accumulato patine. E intervenire non è facile: prima di entrare in azione, i restauratori dovranno sapere quel che vogliono ottenere: una copia di quel che è uscito dalle mani dello scultore, o un’opera su cui gli stessi sguardi ammirati o dolenti hanno riplasmato nei secoli? Insomma, se non vuoi distruggere qualcosa che vale per come ti è consegnato, non ne devi distruggere la storia. Se non vuoi distruggere il mondo non puoi dire che l’Amazzonia non è patrimonio di tutti. E non puoi dire che il tuo paese è dei patrioti e non dei globalizzatori. E, ancor più in ristretto, non puoi far ridiventare un’isola la tua nazione, accampando motivazioni meschine. Certo, vi sono patine del tempo che sanno di muffa: quanto più i paludamenti sono obsoleti tanto più chiedono il cambiamento, dicono in Inghilterra. Ma lo si potrebbe dire a inconfutabile ragione anche della Chiesa. Che ne è stato del documento firmato da alcuni vescovi conciliari in cui si chiedeva di evitare nomi e titoli che esprimono concetti di grandezza e di potenza, come eminenza, eccellenza, monsignore, e che richiamava a una evangelica sobrietà delle vesti ecclesiastiche? Ma la maggioranza resiste e non se ne fa nulla: pensate che un vescovo sia meno vescovo se oggi rinuncia a quel copricapo che va sotto il nome di mitria? È vero: simboleggerebbe i due Testamenti di cui dovrebbe essere intrisa la mens episcopale. Ma mi parrebbe ovvio che ne sia intriso, anche senza un simbolo che è molto vicino a mode egizie del tempo del Mar Rosso. Se dunque non vuoi distruggere la Chiesa, per prima cosa non devi distruggere la sua storia. Che non è quella dei segni ma del deposito della fede consegnato dalle Scritture: dunque non delle tradizioni ma della Tradizione. Ripetuto all’ennesima potenza; e tuttavia sempre in gran parte disconosciuto dalle prassi: sì però, l’espressione che manda a carte quarantotto la coerenza alla chiamata evangelica. La stessa incoerenza di chi coltiva principi assoluti, come se l’uomo fosse un assoluto, e non fosse fragilità il suo codice spirituale. Quanta violenza si è fatta in nome del Bene? E quanta violenza potrebbe ancora avvenire se si ricalcano sull’umanità visioni che scopriamo non stare nei codici genetici umani? Ad esempio: davvero la Chiesa sa i limiti della sofferenza, per impedirne un lenimento che prenda non il nome di eutanasia o di suicidio assistito, ma di quella zuppa e pan bagnato – se è lecito usare un’espressione popolare in argomentazioni drammatiche – che va sotto il nome di non-accanimento-terapeutico? C’è una soglia nella vita: accorgersene è avere quella compassione che è linfa della misericordia. Accompagnare dolcemente a varcarla – senza alcuna premura, senza affanni, dunque senza violenza – è compito cristiano. Anche così, o soprattutto così?, si riannuncia il Vangelo di Gesù. Lontani dall’uomo, dal suo limite, si è lontani dal Cristo: e questo non è forse il peccato della Chiesa, che ha allontanato i molti di un tempo, perché non sa dire che Lui non è venuto per chi si pensa nel giusto, ma per chi nella sua pochezza si consegna a Lui?
il vero
Non vi sembri ridondante l’aggettivo che uso per il viaggio di qualche anno fa in Russia: indimenticabile. Una compagnia azzeccata – dato che per un viaggio ti occorrono compagni capaci dello stesso sguardo, che è poi di quell’uguaglianza dissimile che fa ricchezza. Una terra piena di storia e di arte, e piena di contraddizioni. Un popolo ateo – per definizione ereditata dal soviet che ha preceduto la Russia di oggi: capi del kgb che vedi accendere candeline nella penombra di chiese intrise di canti e di inchini, di donne velate e monaci tronfi. E chiese ricostruite dopo una rivoluzione che le aveva o distrutte nelle città o ridotte a magazzini dei kolchoz. E la cattedrale del Cristo Salvatore, segno di una storia incredibile? Costruita alla fine dell’ottocento; incendiata negli anni trenta del novecento; interrotta dalla guerra l’intenzione di Stalin di sostituirla con il grattacielo più alto del mondo; negli anni cinquanta trasformata nel suo perimetro liberato dai detriti, nella più grande piscina del mondo all’aperto e pure con acqua calda: è alla fine ricostruita nel duemila. Tale e quale: con i suoi marmi bianchi, le cupole dorate, e una superba iconostasi. Tale e quale, ma senti che manca qualcosa. Manca la patina del tempo, delle celebrazioni interrotte, manca delle invocazioni e dei ringraziamenti sfumati nel fuoco che ha distrutto quella vera. Perché, ed è difficile da scrivere, questa Cattedrale resterà sempre un falso: un falso d’autore, certo, ma un falso. Eppure qualcosa chiamato a diventare vero: non per gli occhi dei turisti, ma per la frequentazione continuata di quell’ortodossia che chiama al mistero. Quel ridiventare vero che è urgenza anche per i nostri dintorni: quelli cattolici, di una Chiesa che esce con le ossa rotte – dei suoi uomini e delle sue donne, e non certo del Cristo fondamento del suo essere – da un periodaccio di vacche magre: e ciascuno può mettere un suo titolo a questi due ultimi decenni. Una crisi che tocca il basso e l’alto, e non certo secondo categorie di merito, ma per chiamate di responsabilità. Una crisi che merita più di un maquillage: le rughe, ogni ventiquattrore – e ce lo ricorda una pubblicità che si presenta per il suo contrario – si ripresentano. Qualcosa di più del maquillage di chi nasconde l’indifferenza per la fede nel voltarsi verso devozioni che non tendono alla sostanza evangelica: e infatti molti si danno per tristi con gli emigranti alle porte, con la sopravvivenza degli zingari, o con l’evidenza di diversità nel tessuto personale o familiare che sta cambiando il volto del mondo. Ma: non è che si sia usciti davvero e del tutto da un tempaccio della Chiesa. Così fosse, si sarebbe già imboccata una nuova verità evangelizzatrice. Non ci si può illudere di una apparente bonaccia, favorita da quegli strumenti di distrazione di massa che sono i social: ogni giorno a chiamarti su eventi diversi. Se una barca resta in mezzo al mare, si sta contenti perché il sole si alza al mattino e tramonta la sera, e i viveri ci sono? Ma fino a quando? fino a quando potremo avere la grazia di una parola che sminuzza il Vangelo perché ce ne possiamo nutrire? Dalle rovine delle chiese distrutte, un crocefisso senza braccia è stato l’ultimo incontro del viaggio: conservato, e tramandato. Per una speranza mai distrutta di una resurrezione. Che è poi la speranza della resurrezione di questa nostra cattolicità, che se esce ferita, è per evangelizzare a partire da una miserabilità umana riconosciuta e da una Salvezza altra.
Sete
Sta uscendo in Francia uno di quei libri che dividono: dissacratore o evangelico? dell’Evangelo che si impianta dentro il pensiero di oggi, come gli compete non essendo lettera morta? E dunque ci sarà chi lo metterebbe (anzi, lo metterà) all’Indice dei libri proibiti alla coscienza intelligente – se l’Indice ci fosse ancora (ma sicuramente è rimasto dentro le fibre irrazionali di molti cattolici). Così come qualcuno lo affronterà con l’esegesi propria di chi una volta di più si interroga. Sul chi e sul che cosa crede. Ma soprattutto in Chi crede. Un’operazione che la Chiesa sta affrontando nel modo migliore? Ci si accontenta (ci si accontenta!?) di cambiare le strutture, di sentirsi evangelizzatori per confini e organigrammi rivisti; e non ci si vuol accorgere che dentro ci stanno preti e laici – e vescovi – credenti certo, che rimangono gli stessi. Con le stesse categorie di pensiero che li isola dal porsi la domanda essenziale: avviati alla vita eterna, come? Come in questo mondo che fa dell’indifferenza la sua cifra religiosa, che è poi la cifra della vita che si vive: rassegnati alle tecnologie come risolutive del quotidiano, e incapaci di leggere il mondo come casa propria, e tutti gli umani come facenti parte della stessa famiglia: la nostra, del Nostro Padre che è del cielo, della terra, del mare, e dei marciapiedi. E dunque quel libro riracconta la storia di Gesù. Già fatto più o meno bene nei due secoli che ci precedono: da Pascal a Renan, perfino a Mancuso. Una rivisitazione degli ultimi giorni di Gesù nella sua passione, immaginando nel processo i testimoni a carico. “Essi sono sfilati gli uni dopo gli altri. La gratitudine, si sa, non è di questo mondo: il lebbroso guarito si lamenta di aver perso così la pietà altrui e, quindi, le elemosine; il cieco si lagna della bruttezza del mondo che ora è costretto a vedere; Lazzaro, dell’odore di cadavere che gli è rimasto attaccato alla pelle. Il sindacato dei pescatori di Tiberiade lo accusa di aver favorito un gruppo a scapito degli altri… E non credevo ai miei occhi quando ho visto arrivare gli sposi di Cana, i miei primi miracolati…”. Insomma, un breve stralcio che racconta tutta l’insoddisfazione di chi non vede il bene nel bene che ha ricevuto; e che vuole sempre il di più: quell’albero piantato in mezzo all’Eden è sempre presente, tentatore dell’essere come Lui, il Creatore. Usa un bel po’ di humor, l’autrice del libro in uscita; e non è fuori luogo rispetto a una seriosità teologica che ha indotto spesso un moralismo senza persona, senza quella fragilità riconosciuta, che è poi quello per cui ci è stato dato il Figlio. In francese, il titolo del libro è Sete. Quel “sitio” che cala dalla croce, e che trova come risposta un misto agro, forse compassionevole nel voler essere un analgesico. Ma è un “sitio” che al contrario trova nell’uomo, una fame di sete che tocca l’insaziabilità. Rileggere il Cristo nella sua umanità serve alla nostra: così scomposta, così esposta, soprattutto nelle passioni cui nessuno sfugge. Così poco capace di godere dell’essenziale, così protesa sull’abisso dell’impossibile. E così sciocca dal non voler accettare il limite.
letture estive
“Lo vediamo tutti i giorni: nei necrologi dei teenager che omettono vistosamente la causa della loro morte (leggendo tra le righe si capisce che è un overdose), negli sbandati con cui vediamo le nostre figlie sprecare il loro tempo. Barack Obama fa risaltare le nostre insicurezze più profonde. È un buon padre mentre molti di noi non lo sono… Sua moglie ci dice che non dovremmo dare da mangiare ai nostri figli certe cose, e noi la odiamo per questo: non perché pensiamo che abbia torto, ma perché sappiamo che ha ragione”. Questo è un passo da «Elegia americana» di J.D.Vance: una analisi lucida sul proletariato bianco in crisi e pieno soltanto di ruggine e rabbia. E non solo in America. Un pezzo letterario che accumula con altri uno sguardo retrospettivo, ma fiondato su ciò che ci potremmo aspettare nelle stagioni prossime. Se dell’estate facciamo una stagione di sintesi. Di tante letture si prestano i giorni estivi, per una visione della vita finalmente racchiusa dentro un globo unificante. Sensazioni, vissuti, distacchi, incomprensioni. Tutto in uno. Quella maggioranza di persone persuase di essere più informate degli esperti: le stagioni che stiamo vivendo sono bersagliate da chi nella scienza, nella medicina e soprattutto nella politica fa della mancanza di preparazione una teorizzazione. “Incompetente e me ne vanto”: poteva tutta la secolare sapienza socratica subire un affronto simile? Eppure diventa strumento di ampio consenso (elettorale). A causa della pretesa di saper tutto, ci saranno sempre degli eschimesi pronti a dettare legge sul come debbano comportarsi gli abitanti del Congo durante il massimo della calura: così l’aforisma di Jerzy Lec, scampato ai lager nazisti, può decifrare al meglio quanto accade. Anche nella Chiesa. Per la verità da qualche settimana sembra che sia calata una stasi: forse gli oppositori per partito preso stanno vacando; ma, come scrive N. Schmitz, forse che ”qualsiasi cosa faccia Francesco adesso la Chiesa cattolica è ormai sprofondata in una vera e propria guerra civile”? E proprio sulla scorta di chi crede di sapere quel che non sa. Bonaccia come quiete prima della tempesta? Una nuova barbarie che si riveste di paludamenti antichi per non mostrare la propria nudità in profezia? Ammettere che le tensioni xenofobe hanno toccato i cristiani, è assumere una delle vergogne più sfiguranti il Vangelo. Non va bene burocratizzare la grazia o mettere dogane, avvertiva qualche tempo fa il papa a fronte di steccati che non valutano la vastità della misericordia di Dio e la sua imprevedibilità, non certo misurata su quella umana. Così; e contro il moloch di chi confonde il cambiamento da operare in una società che cambia facendosi tentare da progetti pastorali che sono superati appena li si mette sul mercato: moloch, che per inventare nuove strutture ecclesiastiche, sacrifica persone e storie. “La nostra è un’epoca così essenzialmente tragica, che ci rifiutiamo di prenderla tragicamente. Il cataclisma è avvenuto, noi siamo tra le rovine, cominciamo a tirar su nuovi piccoli motivi di vita, ad avere nuove piccole speranze. È un lavoro abbastanza duro; non v’è ora alcuna strada facile che immetta nel futuro. Dobbiamo vivere, non importa quanti cieli siano crollati”. Un ultima sprazzo di lettura estiva da L’amante di Lady Chatterley di H. Lawrence: è del 1926, ed è un romanzo accusato di essere osceno. Ma credo abbia qualcosa da dire all’oggi della Chiesa e della società: che, prendere coscienza delle proprie inadeguatezze morali, è l’unico modo di risalire la china. Personale, e interpersonale, prima ancora che collettiva.
cinquant’anni
Ebbene sì: uno sguardo all’indietro può essere utile. Anche perché, in questi sette anni ultimi, ho avuto tempo di accorgermi del ”se avessi fatto così” con tutti i rimpianti e i rimorsi sulle evenienze di una vita. Non che, a una somma algebrica, alla fine non compaia un +. Minimo, mi dico, ma un +. E per riandare proprio all’inizio dell’avventura, mi sono riletto la pagina-manifesto richiesta alla vigilia dell’ordinazione:lì pensieri e propositi. Seriosa, di quella seriosità di cui sono stato spesso criticato (e di cui per la verità, mi sono io stesso rimproverato, pur non riuscendo a correggermi: è così bello essere accettato da tutti quelli che non vogliono essere scomposti!). Vero è che partivo da una convinta umiltà: È, anche per me come di un uomo che semina la sua terra; dorme, e si alza la notte e il giorno, e intanto il seme s’apre, ma egli non sa in che modo (Mc. 4,46). O meglio, so che c’è uno Spirito che realizza condizioni uguali da situazioni diverse. A dire, che non presumevo di essere un eletto per le mie doti, ma un graziato: se questa parola non soffrisse di una specie di vintage in un mondo di palestrati dello spirito, quei giusti che sanno la verità – naturalmente la propria. Ma subito aggiungendo che in forza della chiamata non potevo sottrarmi alla forza del seme, che rompe la crosta del così fan tutti: se pensate che lo slogan con cui ho costruito l’immaginetta-ricordo recitava essere come gli altri, essere tra gli altri, ed essere un altro. Essere un altro che per la verità era un auspicio di santità che non mi costa molto ammettere di non avere realizzato. Ad ora. Ma c’è qualcosa a cui, sia pur minimamente, ripeto, mi sembra d’essere stato fedele: Come Gesù “profeta potente in opere e in parole (Lc 24,20). In opere: prenderà sul serio la fame, la lebbra, le menomazioni degli uomini (Mt. 11,15), senza soccombere alla maledizione del desiderio d’efficienza. Appunto: fatte le debite distanze dal Nazareno (ero un venticinquenne, e se non si è radicali lì, quando?) mi sono fatto una vita da prete un po’ fuori dalle righe prelatizie di cui vedo soffrire tanti giovani presbiteri. Così l’accusa di aver fatto politica dai pulpiti della mia predicazione sui tetti, la posso rivendicare tutta: sperando che l’insipienza di chi non sa la potenza scatenante del Vangelo sia, più prima che poi, sconfitta. Evangelizzerò, scrivevo, non mantenendosi nella calma regione dei princìpi, ma calandosi negli argomenti del giorno: il sabato, il tributo a Cesare, i potenti del momento – scribi farisei e la volpe Erode. Non era ancora cominciata l’età dell’odio: si era in un post-Concilio di grandi speranze. Quell’età dell’odio che dalle brigate rosse e nere è arrivata fino ai nostri giorni: in parole social che sono proiettoli ugualmente sanguinosi di quelle che avrebbero, da quel dicembre 69 in poi, steso molti uomini e grandi speranze. È stato, quel calarsi, motivo di ulcerosi sospetti, e di incomprensioni nel presbiterio. Rispetto a un modo di fare pastorale, il vescovo Giulio mi avrebbe detto che la maggioranza dei preti bergamaschi non era pronta a raccogliere il mio eventuale testimone. E debbo dire, visti gli esiti, che vedeva giusto. Ma lui non si è lasciato fermare: chiamandomi a un passaggio di parrocchia sicuramente di stima. Ecco perché un + lo vedi in quella somma algebrica che sono stati questi cinquant’anni: nonostante tutti i miei peccati (altra parola vintage?). Ma ne ero conscio fin dal principio se avvertivo: perché riescano fatti di vita, chiedo a quelli che ho incontrato o incontrerò una continua invocazione al Padre. Poiché conosco i miei limiti. Sono qui, ringraziando molto e sempre ripetendo ogni sera prima di spegnere la luce sul giorno: si iniquitates observaveris Domine, Domine quis sustinebit? Come potrei sostenermi, Signore se tu guardassi solo ai miei meno? Anche per questo, inviando ai miei compagni di messa gli auguri per questo pesante anniversario, ho scritto prendendo immagini leggere da chi le ha sapute creare per altro contesto: non siamo stati qui ad asciugare gli scogli, a smacchiare i giaguari, a cambiare gli infissi al Colosseo, a mettere i pannelli fotovoltaici alle lucciole, a pettinar le bambole (o forse sì qualche volta?): nelle nostre fragilità siamo stati amati dal Signore, e ci abbiamo provato ad amarlo e a farlo amare, dentro le quotidianità cui siamo stati chiamati_ per questo vi auguro – coOrdinati con me al presbiterato quel 28 giugno – che gli auguri che riceviamo in questi giorni si traducano in vita, per arrivare vivi al Traguardo.