Anniversari

Ogni anno ne cascano tanti. Ma il 1969 sembra avere dentro di sé una qualche misura di universalità della memoria. Tocca l’arte – con i 500 anni dalla morte di Leonardo da Vinci, sulla cui Gioconda ci si sta interrogando se davvero è la celebrata icona della perfezione; tocca la politica – con i 100 anni dalla nascita di Andreotti, che è personaggio da non relegare troppo facilmente nelle contrapposte ideologie di chi lo vuol divo e chi luciferino; tocca la malvagità dell’uomo, con i cinquant’anni dalla strage di piazza Fontana, che ha avviato la stagione del terrorismo, ma anche la sua grandezza, con lo sbarco del primo uomo sulla luna, lo sguardo più allungato sul mistero dell’universo. Niente di completo in queste date arrotondate; ciascuno può metterci quel che vuole, a secondo dei suoi interessi e delle sue passioni: un elenco lo si trova facilmente su Internet, ma soprattutto dentro di sé, così che uno può commuoversi per i trent’anni dalla caduta del muro di Berlino, così foriero di speranze che questi anni stanno uccidendo; o i 37 dall’uscita di Blade Runner, un capolavoro della storia del cinema, dove ogni elemento ha saputo comporre lo scenario di un futuro inquietante perché plausibile, dove la tecnologia non è disumana ma troppo umana. (Lo conoscete? Per chi, come me, non ama molto la fantascienza – se non là dove aiuta la scienza a non sentirsi padrona esclusiva del presente – è tuttavia un film che racconta quel che potremmo essere o diventare, e proprio nell’anno 2019: in una Los Angeles piovosa e sovrappopolata, il poliziotto Deckard, dell’unità Blade Runner, viene richiamato in servizio; la sua specialità è l’eliminazione di esemplari insubordinati di “replicanti” – androidi più forti e resistenti degli uomini, appositamente creati per affrontare le situazioni estreme, ecc ecc: poter richiamare ancor oggi alcune persone che hanno la stoffa degli statisti a rimettere al loro posto replicanti muscolari ma incompetenti!). Dunque fare memoria di ricorrenze, per ricordare comunque che si viene, tutti, da una storia: che piaccia o no, che la si conosca o no, che la si sia vissuta o che ci abbia preceduto. Così ci stanno anche anniversari familiari: che so, i cent’anni dalla nascita della mamma, o i settantacinque dalla mia nascita, o i cinquanta dacché sono diventato prete. Si ricordano gli anniversari anche per esorcizzare il passare del tempo, questo tic tac che sovrasta i giorni: impaurendo o semplicemente tenendo avvertiti. Da come si celebrano – fastosamente o sobriamente – si può evincere di quale risonanza si vive. Di quale sguardo sulle cose e sul mondo – e sulle persone che ci circondano – ci stiamo nutrendo.


Odio

Qui ci sono i germi dell’odio che continuano ad annidarsi ovunque. Vergognamoci, è il grido che dovrebbe salire da piazze di gilets multicolori. Piazze che ancora non si vedono, in un mondo attorno a noi sempre più segnato dalle barbarie (senza tuttavia dimenticare quell’accorrere in una notte di tempesta a soccorrere cinquantuno naufraghi sulle coste calabresi, da residenti che se ne infischiano delle regole alla Bongiorno – portavoce di quella noncuranza salviniana che si riveste di leggi inumane). Inumani o gran cafoni, quando ci si fa emuli delle verità che normalizzano il razzismo, con quel “prezzemolo di linguaggio fascistoide” che raggiunge certamente i più deboli. (Non occorre essere pensatori accreditati o dottori della legge per credere di poter sfuggire alla debolezza della irrazionalità: Nietzsche insegna). A scrivere o raccontare queste cose, si perdono i fedeli, secondo la letteratura che trova così consenzienti i lettori feltriniani? E meno male, e finalmente: i cristiani sono un piccolo resto di peccatori che tentano la difficile fedeltà al vangelo sine glossa; che combattono quella paura del diverso che inevitabilmente sfocia nell’odio. Ma i lettori feltriniani non lo sanno? L’hanno dimenticato? Questo papa allontana quanti la pensano diversamente sull’ospitare gli stranieri? Bene: ma chi è fuori dalla legge evangelica? Quelli o il papa? O i vesconi e i pretoni che non avrebbero la sintonia con i loro popoli? O ce l’hanno talmente chiara la sintonia, da allontanarsi quel tanto per non essere ormai cagliati da quell’odio che si fa sgorgare persino da rosari sventolati? “La bellezza ci unisce” dice il papa in un’intervista: ma quale? La bellezza che salverà il mondo: ma quale? E’ possibile che debbano ricorrere al papa quelli che stanno sull’altra sponda, agnostici o atei, per trovare ragione di sé? Forse perché con tutte le sue pesantezze la Chiesa è l’unica possibilità per trovare oggi la condizione del rimanere umani. Le responsabilità dei politici sono tutte lì da vedere: promettere tutto in nome di una propria felicità, quella della autorealizzazione, sia dei singoli sia dei popoli. Ma felicità è la cannabis che vogliono legalizzare per uso ricreativo? E quel che sta avvenendo, dicono le cronache – per una nuova generazione di giovani consumatori di eroina, che non hanno memoria storica dell’ecatombe dei morti di overdose degli anni Ottanta e Novanta – equivale per preoccupazione alle stolte promesse di sconfitta della povertà? O di quello che sta succedendo per Internet dato in mano a tutti? Dice Berners-Lee, celebrato come il padre del web: “Costruito come uno strumento aperto a disposizione dell’umanità per la sua crescita intellettuale, il web è stato preso in ostaggio da troll e mascalzoni che lo usano per manipolare la gente in tutto il mondo. Il mio ottimismo tecnologico è stato ora eclissato dal timore che la rete finisca per danneggiare le nostre società». Ma anche il leader dei Verdi tedeschi, Robert Habeck, ha chiuso i suoi profili social con una motivazione ineccepibile: si è reso conto che lui stesso tendeva a scrivere scemenze, o comunque cose non all’altezza del suo ruolo e delle sue responsabilità. In sostanza, ha attribuito al mezzo la bassa qualità del messaggio. E, pur senza social, ha preso uno sfracco di voti: quel che non sta avvenendo da noi, dove pare che avvenga il contrario per i guru che si raccontano mangiando nutella o vestendo casacche di ogni tipo: per imbonire la plebe? “Qui non si tratta di politica, ma si tratta di stare dalla parte degli esseri umani”. Se adesso la “resistenza” religiosa, e cattolica in particolare, diventasse anche istituzionale, si darebbe il segno che forse non tutto è perduto. E magari ci resterebbe ancora una speranza di “restare umani”.


parole

Tante, come sempre in tutti i Natali che si vivono. Tante e belle: pace, luce, bontà. Ma parole. Parole, parole, parole. Che si sentono ma non si ascoltano, se il giorno dopo le trovi nel cestino della memoria. Solo che quel cestino non lo si rovescia più: è un cestino che s’allarga a dismisura, nella misura di quanto man mano lì si accumula. Ma qualche volta, di sfuggita, salta su qualcosa d’accantonato. Provocato magari da u riflusso. Qua e là, da nord a sud, passando per la Toscana, in un passaparola nuovo, alcuni preti si son detti indisposti a celebrare un Natale ipocrita. Dove c’è tutto meno il Signore, dove il presepe serve per rimarcare un confine. All’opposto di quello che vorrebbe ricordare: Lui è venuto per quelli che Egli ama, indistintamente al colore della pelle, e dalla provenienza geografica. E come può essere diversamente, Lui che da buon ebreo palestinese un po’ abbronzato è nato? Se mancano quelli che Lui ama, che Natale è? si dicono quei preti. E ce lo siamo detto noi, giusto dieci anni fa, noi i preti di parrocchia in città: allontanati i neri che stavano presso i parcheggi dell’ospedale, loro che non disturbavano proprio nessuno, se non certi fanatici scesi dalle valli, leghisti la cui ignoranza era pari agli scarponi ormai abbandonati. Allontanati loro, allontanato il Bambino: così un presepe sì, ma con quel vuoto, per non imbastire una festa fatta di notizie false. La falsità di chi celebra un Signore della storia, che si prende per scagliarlo contro, manco fosse un politicante dei nostri presenti orizzonti. Dieci anni ci sono voluti perché crescessero parole di concretezza: certo pace e luce e bontà; ma, o per tutti e significate concretamente dalla testimonianza di chi si dice cristiano, o niente. Per questo ho detto nella celebrazione della Notte la mia soddisfazione per un Vangelo che finalmente è predicato nella Parola che è: per giudicare pur senza condannare, per separare senza disprezzare. Le parole possono essere dette solo se generate dalla Parola: che è lì nei secoli dalla venuta del Salvatore a dire che o si vestono i poveri, o si dà loro casa, o non li si sfama solo con gli avanzi che cadono dalle nostre mense epuloni che, ma con la dignità che il loro corpo redento esige, oppure cristiani non si è. Ma essere cristiani così interessa davvero a chi si nutre di marginalità, e non di sostanza evangelica? Abbiamo visto, continuiamo a vedere, e ancora vedremo il sorriso di Dio dentro la minorità cristiana che siamo diventati:minorità che non s’impaura di fronte a chi parla e non agisce. E dunque non chiama in verità alla pace alla luce alla bontà.


HACKERATI ?

Dopo quasi un mese di assenza, il sito è ancora in manutenzione, e dunque lo potete vedere in stato ancora di imbastitura. Si è dovuta cambiare la piattaforma su cui era collocato, con tutto il disagio di rimettersi a imparare il come metterci mano. Il che non è che venga facile, come ciascuno sa quando entra in casa un nuovo microonde, o un nuovo cellulare, o qualsiasi altra macchina di questi tempi perfettamente tecnologici. Hackerati: questo il commento primo degli operatori di fronte al disastro combinato da chissà chi. Introdotto un insetto malefico, che si è mangiato non solo le foglie ma anche le radici del nostro sito: ma introdotto da chi? Di fronte ad operazioni che hanno toccato in questo mese, dicono, cinquanta milioni di social, ci si chiede quali giochi o quali interessi abbiano mosso gli assassini del sistema. Si presume che motivi politici o industriali possono essere sottesi a tanto sforzo di maneggiatori espertissimi e imprendibili (o quasi). Ma per quanto ci riguarda, chi ce l’ha con noi? A chi non piacciamo? Beh, ad essere franchi a qualcuno possiamo no piacere. Nel nostro piccolo, le attenzioni spaziano, e inevitabilmente si toccano le ferite altrui. Anche ferite ecclesiastiche. Non certo ecclesiali: la fede è ben sicura nella sua debolezza. Ma usi e costumi ecclesiastici, quelli che impediscono al mondo di vedere una Chiesa pulita da scorie secolari, da interessi poco consoni al Vangelo, quelli si sono toccati. Ma non credo che qualcuno si prenda la briga di badare a un piccolo spazio nell’universo delle comunicazioni, quali il nostro sito è. E dunque, forse, si è stati associati inconsciamente – per una qualche misura comune – a pentoloni di ben altra statura. Il che però dovrebbe far riflettere. E riflettere con quanti si stanno interrogando sulla pericolosità della cosiddetta intelligenza artificiale. Quanto le macchine guideranno il mondo, invece di essere guidate? E quanto dunque saremo sottoposti ad algoritmi, che – ad esempio – escluderanno quanti hanno come cognome “nero” perché politicamente incorretto? Ci sono fautori di fusione tra uomo e computer. È vero che tanti già hanno operato una fusione tra uomo e animale, e con buona pace degli animalisti non cesseremo di denunciare tale abnormità. Ma tra uomo e una macchina? Forse i credenti hanno un terreno di avvertenze che non esula affatto dalla professione di fede in un creato voluto da Dio perché ruotasse attorno all’uomo. E di cui l’uomo non ne divenisse schiavo.


defunti

Chi non va in un cimitero in questi giorni? E chi non compone – scomponendo magari l’epitaffio di prammatica – una propria piccola antologia di Spoon River, mentre passa accanto a chi ha conosciuto in altro modo rispetto al sentire comune? Ad esempio. 1. Lei, una catechista d’altri tempi: puntuale e sagace, che non le mandava a dire ai preti quando la facevano da padroni. Eppure aveva un suo segreto: quel giovane passato come una meteora in paese, ma fissatosi eternamente nel suo cuore. Diventato per lei la misura di qualsiasi altro gli fosse succeduto; e sarebbe stata sempre, naturalmente, una misura scadente rispetto all’originale. Bella, seppur senza esagerazioni, era un chiedersi continuo come mai non avesse trovato marito, nonostante spasimanti di non poco numero. Troppo innamorata della chiesa? Non amore di chiesa, ma l’essere rimasta zitella fu l’amore per quel belloccio giovane prete, passato come meteora, ma fissatosi con freccia inestraibile nel suo cuore. 2. E lui? lui è lì, cinquantenne che sembrava avere tutto il senno per sapersi muovere, per non sbagliare il bersaglio dell’esistenza: fragile, ma sicuro. E invece, lasciata la moglie, s’era dato alla caccia sulle rive del lago, in seconda adolescenza. Cambio di look: canotte femminee, calzoni attillati, orologio Swatch, qualche tentazione di tatuaggi, e naturalmente lavoro parossistico di pollici neppure fosse un quindicenne. Allontanamento da tutti per rinchiudersi dentro le sue avventure. Talmente abituatosi a rifiutare i consigli degli amici, da non ascoltare neppure più i consigli dei medici. Per questo è lì, in questo ossario dentro cui hanno racchiuso le sue ceneri, ex moglie e figli dolenti. Per la sua assenza in morte o in vita, dolenti? 3. E quest’altro, gran signore, affabulatore convinto, che si muoveva tra l’essere miscredente e osservatore attento del clima sociale. Predicava spesso, comprava ascoltatori offrendo da bere, al bar d’angolo, dove c’erano anziani ma anche giovani attratti dalla sua eloquenza socratica. Il suo cavallo di battaglia? Preti, poliziotti, sposati: tutti a tempo. Che se lo si capisce per i deputati (che impoltroniscono senza frutto) non è moneta corrente per queste altre categorie. Per ragioni diverse: di opportunità, di rispetto, di obsolescenza, enunciava. Ed essendo l’assiduità dei rapporti improponibile in un’epoca di centenari, diceva: lui, un Melchisedec di cui non si seppe mai donde venisse, dove abitasse e, se, con chi. Strampalato, forse. Profeta, perché no? Ora riposa tra erbacce che neppure la ricorrenza ha mosso qualcuno a strappare. Tanto a tempo, la sua vita, da non avere legato mai, e con nessuno? mah! 4. Perfino la foto dovrebbe raccontare: occhi che chiedono. Ma non c’è chi ascolta il retro della vita di questo suicida. Quarantenne, alla ricerca di un senso per vivere, lui che non ne fu dotato da madre natura, e ancor meno da genitori impallati su se stessi. Un ricerca spasmodica di appoggi, e una speranza costosa, molto costosa, propostagli dall’amica del momento: la psicanalisi. Nessuno poté raccontargli la battuta, per un sorriso certo ma con una certa verità, che “gli psicanalisti sono una malattia che si vendono come una cura”. Anni, e uscirne con il male di vivere sempre più angosciante. Nessuna prossimità, da parte di nessuno di quelli che pure numerosi erano al suo funerale, ad applaudire. Applaudire cosa? la propria mancanza di cura? > Camposanto: un fluttuare di voci che rimproverano e avvertono. Che chiedono d’accorgersi dei vivi, finché si è vivi.


Paolo VI

Non ho un account social. La dipendenza da riscontro immediato che affligge chiunque stia troppo attaccato ai social non mi affligge (e non ne abbiano a male quanti stanno nel miliardo di utenti giornalieri di whatsapp, e mi predicano l’indispensabilità di simili tecnologie nel tempo presente). E dunque, su questo nostro giornale di collina scrivo quando ho qualcosa da dire, da condividere con i sempre citabili ventiquattro lettori. E capisco che i tempi della loro attesa non sempre coincidano con i miei tempi di tempestività. Per esempio: ho avuto voglia di chiosare quanto, cerca tre settimane fa, Barack Obama così ha provocato gli studenti ad impegnarsi per il loro paese (loro, i giovani, quelli che astenendosi dal voto, procurano guai alle loro nazioni – vedi per la Brexit o per l’avvento dell’attuale presidente statunitense): “Se non vi piace quello che sta accadendo intorno a voi, non mettete la testa sotto la sabbia, non lamentatevi. Votate”. O la voglia di glossare quell’espressione che ho trovato attribuita a Mussolini: “Io non ho creato il fascismo, l’ho tratto dall’inconscio degli italiani”. “Se non vi piace quello che sta accadendo intorno a voi, non mettete la testa sotto la sabbia, non lamentatevi. Votate”. O la voglia di glossare quell’espressione che ho trovato attribuita a Mussolini: “Io non ho creato il fascismo, l’ho tratto dall’inconscio degli italiani”. E quanto ci sarebbe stato da dire sul presente, sull’inconscio delle masse italiane, e sul destino non piacevole che sembra aleggiare adombrato di color gialloverde! Ma appunto: le emozioni hanno bisogno di articolazioni. E non sempre vengono. E non sempre sono adeguate. A. Melloni scrive: “Alla vigila del grande assalto populista al Partito popolare europeo e all’Europa, fatto ungendo con “valori” cristiani nostalgie fasciste, far santo Montini è un segnale preciso”. Ed essendo alla vigilia della canonizzazione di Paolo VI questo mi sembra opportuno. Non che io sia favorevole a queste santificazioni di papi che sembrano pullulare da quella di Pio X a Giovanni XXIII a Giovanni Paolo II, a quelle in fieri di Giovanni Paolo I e forse di Pio XII, e insomma di tutti i papi (che poi potrebbe risultare punitiva per papa Ratzinger se non lo si prevedesse, canonizzato dico, quando il Signore l’avrà chiamato al cielo): potrebbero benissimo tutti stare nella loro cornice di Santi Padri già così celebrati sulla terra. Dunque non per l’aggiunta di uno in più, ma per il segnale che può dare a tanti battezzati che non possono dirsi cristiani – per come pensano, se pensano; per come parlano, e quanto parlano, soprattutto se hanno l’opportunità di una telecamera amica a mostrarli nella loro pochezza evangelica. Un uomo, Giovanni Battista Montini, che ha patito la popolarità del suo predecessore; e per questo è stato catalogato di una personalità rinchiusa, di una destinazione ad essere l’uomo dell’austerità. Un nuomo, invece, che viene descritto, a cinquant’anni dalla morte, come un evangelico: con i suoi errori a sottolinearne l’umanità, ma con la visone ampia su una umanità per la quale chiedeva alla Chiesa tutta di esserne esperta. Non solo antifascista per geni familiari, ma per una scelta di parte precisa. Stupenda la Pacem in terris di papa Giovanni, ma non più di quella Populorum progressio che avrebbe potuto segnare, più di quanto non sia finora successo, quel prendere parte non della “sconfitta della povertà” (oh Dio come si cade in basso!) ma di quel parteggiare per i poveri senza cui non si dà pace al mondo. Di qua e di là dei confini tracciati dall’egoismo dei popoli. Un papa la cui santità è esemplare per chi non si rassegna a populismi infelici, e alla zizzania che nascondono nelle loro viscere. Un papa così ci è necessario, come il Cristo di una sua coinvolgente preghiera: Tu ci sei necessario, per imparare l’amore.


Non ho un account social

La dipendenza da riscontro immediato che affligge chiunque stia troppo attaccato ai social non mi affligge (e non ne abbiano a male quanti stanno nel miliardo di utenti giornalieri di whatsapp, e mi predicano l’indispensabilità di simili tecnologie nel tempo presente). E dunque, su questo nostro giornale di collina scrivo quando ho qualcosa da dire, da condividere con i sempre citabili ventiquattro lettori. E capisco che i tempi della loro attesa non sempre coincidano con i miei tempi di tempestività. Per esempio: ho avuto voglia di chiosare quanto, cerca tre settimane fa, Barack Obama così ha provocato gli studenti  ad impegnarsi per il loro paese (loro, i giovani, quelli che astenendosi dal voto, procurano guai alle loro nazioni – vedi per la Brexit o per l’avvento dell’attuale presidente statunitense): “Se non vi piace quello che sta accadendo intorno a voi, non mettete la testa sotto la sabbia, non lamentatevi. Votate”. O la voglia di glossare quell’espressione che ho trovato attribuita a Mussolini: “Io non ho creato il fascismo, l’ho tratto dall’inconscio degli italiani”. E quanto ci sarebbe stato da dire sul presente, sull’inconscio delle masse italiane, e sul destino non piacevole che sembra aleggiare adombrato di color gialloverde! Ma appunto: le emozioni hanno bisogno di articolazioni. E non sempre vengono. E non sempre sono adeguate. A. Melloni scrive: “Alla vigila del grande assalto populista al Partito popolare europeo e all’Europa, fatto ungendo con “valori” cristiani nostalgie fasciste, far santo Montini è un segnale preciso”. Ed essendo alla vigilia della canonizzazione di Paolo VI questo mi sembra opportuno. Non che io sia favorevole a queste santificazioni di papi che sembrano pullulare da quella di Pio X a Giovanni XXIII a Giovanni Paolo II, a quelle in fieri di Giovanni Paolo I e forse di Pio XII, e insomma di tutti i papi (che poi potrebbe risultare punitiva per papa Ratzinger se non lo si prevedesse, canonizzato dico, quando il Signore l’avrà chiamato al cielo): potrebbero benissimo tutti stare nella loro cornice di Santi Padri già così celebrati sulla terra. Dunque non per l’aggiunta di uno in più, ma per il segnale che può dare a tanti battezzati che non possono dirsi cristiani – per come pensano, se pensano; per come parlano, e quanto parlano, soprattutto se hanno l’opportunità di una telecamera amica a mostrarli nella loro pochezza evangelica. Un uomo, Giovanni Battista Montini, che ha patito la popolarità del suo predecessore; e per questo è stato catalogato di una personalità rinchiusa, di una destinazione ad essere l’uomo dell’austerità. Un uomo, invece, che viene descritto, a cinquant’anni dalla morte, come un evangelico: con i suoi errori a sottolinearne l’umanità, ma con la visione ampia su una umanità per la quale chiedeva alla Chiesa tutta di esserne esperta. Non solo antifascista per geni familiari, ma per una scelta di parte precisa. Stupenda la Pacem in terris di papa Giovanni, ma non più di quella Populorum progressio che avrebbe potuto segnare, più di quanto non sia finora successo, quel prendere parte non della “sconfitta della povertà” (oh Dio come si cade in basso!) ma di quel parteggiare per i poveri senza cui non si dà pace al mondo. Di qua e di là dei confini tracciati dall’egoismo dei popoli. Un papa la cui santità è esemplare per chi non si rassegna a populismi infelici, e alla zizzania che nascondono nelle loro viscere.


Giobbe

Alla veglia per un prete morto in ancor giovane età, mi sono distratto. Distratto dalla monotona cantilena di un rosario; distratto nel senso di incamminato altrove con l pensiero. Alle “ingiustizie” della vita così come noi le patiamo. Noi che della vita abbiamo le nostre date, i nostri percorsi, il bene così come lo intendiamo noi. “Poteva fare ancora tanto bene”, l’han detto di lui ora steso in una bara senza fronzoli, lo dicono di tanti. Mi sono distratto in Giobbe, cercandone il testo sulla bibbia tascabile che mi son portato dietro (e così forse non scandalizzo gli oranti attorno a me). Nella sua avventura terrena, in quella parabola di ogni uomo che ha sofferto e soffre, Giobbe che non vuole Dio giudicato dall’uomo. Giobbe è un uomo molto tormentato, giusto? E tutto comincia quando Dio convoca i suoi angeli. Di cui uno è Satana, o l’Accusatore, com’è scritto in alcune traduzioni. Satana è stato via per molto tempo e quando Dio gli chiede che fine avesse fatto, Satana gli risponde di aver vagato tra gli uomini. II libro di Giobbe è fantastico. È considerato uno dei più antichi testi della Bibbia, anche se non compare per primo, ed è impossibile capirlo fino in fondo. Molti ci hanno provato, naturalmente, ma esistono innumerevoli interpretazioni. Tra Dio e Satana succede che litigano. Su Giobbe, l’uomo più ricco e potente della terra di Us, Dio si vanta di quanto gli è devoto, mentre Satana è scettico: a suo avviso, è facile essere fedeli quando si ricevono così tanti doni divini. E allora fanno una specie di scommessa. Dio e Satana fanno una scommessa. E Satana riceve il permesso di portare via a Giobbe tutto quello che possiede, tanto Dio è sicuro che quello conserverà la fede in Lui. È dunque Satana a mettere alla prova Giobbe? Mah, diciamo tutti e due. Il punto è che Giobbe è un uomo timorato di Dio: ma non gli impedisce di chiede conto del perché è stato colpito cosi duramente. Vuole sapere. Chiede addirittura di morire, ma non dubita mai dell’esistenza di Dio. Dio è il suo interlocutore. Anche quando sua moglie gli si scaglia contro – esasperata, e la si può ben capire, anche lei ha perso i figli e la roba – e gli grida: “Rimani ancora saldo nella tua fede? Maledici Dio e muori”. non mette mai in discussione l’onnipotenza del Signore. Neanche quando Satana lo tocca nella pelle, perché non è servito a nulla privarlo di tutto quello che possedeva. In tutto questo Giobbe non peccò e non attribuì a Dio nulla di ingiusto, dice il testo. Ma – Giobbe è uno che sta in piedi davanti a Dio – insiste e continua: “Ma io all’Onnipotente voglio parlare, con Dio desidero contendere”. Gli è stato portato via tutto, si è preso anche la peste. Quella fisica, e quella di amici che non sanno, e parlano a vanvera, e vogliono trovare giustificazioni per Dio. Ha perso tutto, ma non il suo diritto di interrogare Dio. E questo gli guadagna una vita nuova: ancora figli, ancora roba, ancora amicizie, di quelle, si spera, che non contaminano l’amico con l’imputargli per forza del male. Poi però “Giobbe morì, vecchio e sazio di giorni”. Che non è quello che, fuor di parabola, si può dire oggi, qui – in questa cappella finalmente tornata al silenzio che parla a Dio – e in ogni oggi umano. Raramente succede che si muoia sazi di giorni e di affetti. E allora? Resta la possibilità di interrogare Dio; e la probabilità di trovare pace pur nell’andare che non ha confini di sazietà.


scisma?

Paura di uno scisma? Perché? Qualcuno dei miei ventiquattro lettori si è meravigliato che ce ne fosse, nell’ultimo DaQui, quasi un auspicio. Siamo a un punto di svolta? Ad ogni angolo acuto, preso con impeto, sono molti che vanno a sbattere. Ed oggi, in questo nuovo punto-zero della Chiesa, molti di quanti pur si dicono credenti, stanno rovinosamente scontrandosi con il muro dei loro pregiudizi, di quella religione della mamma che gli sembra di tradire chiamati a vie nuove. Che poi, come ci si dice continuamente, nuove non sono, sono il Vangelo finalmente letto dentro le nostre deviazioni, dentro le paure e le attese del nostro tempo. Dico della religione della mamma per chi viene da un tempo un po’ più lontano dalle giovani generazioni; che di religioni alla mamma non ne hanno, infrattati nel presente mediatico che li sta scorporando non solo dal Cielo ma dalla terra. Giovani generazioni perse per la fede? C’è chi lo pensa e ne scrive. E c’è chi invece dice: aspettate e vedrete. Vedrete un ritorno. Sarà: ma a che cosa? all’insignificanza di una fede senza corpo, senza il corpo del Figlio di Dio? perché le premesse ci sono tutte. Nelle interviste che si sono fatte loro, i giovani si rappresentano per una deità informe, per “qualcosa che c’è, ma…”. Certo che ci sono anche giovani in ricerca vera. Eran trecento, eran giovani e forti, e per fortuna non sono morti tornando da un pellegrinaggio diocesano: ma in quale Chiesa si ritrovano? In una Chiesa dove “il Vangelo è il talento da spendere e far fruttificare… una Chiesa che deve scendere per strada, sporcarsi e magari ferirsi; o dove le resistenze attaccano e contrastano questa visione della Chiesa, intesa anche come “fiaccola? che cammina e va dappertutto? Dove la si vorrebbe solamente come un faro che sta fermo lì dov’è, nella sua staticità: che attira e consola ma non accompagna?”. Le resistenze al Vangelo sono le resistenze al Concilio, che ha voluto essere la traduzione evangelica per il mondo contemporaneo. E vederle dentro, venire da persone che sono chiamate per vocazione a trasmettere la Parola di Dio senza le ingessature dei secoli è davvero triste. Così come è davvero triste che debba ancora alzare la voce il papa emerito, e alzarla di fronte a un cardinale da lui pure eletto, per richiamarlo alla verità del momento storico che viviamo: lui che trova la forza di dimettersi, e lui che si mette in obbedienza al papa suo successore. C’è materia ancor più consistente, oggi, di quella di cinquecento anni fa, con lo scisma di Lutero. Dove si costruiscono muri, cadono i ponti. Perché vengono meno le mani che dovrebbero tendersi a prendere mani, mani di uomini e donne bisognosi di un accompagnamento. Di parole se ne sono spese tante; e di libri si sono viste falcidiate molte foreste. Ma di opere, di cambiamenti veri del cuore, oggi non c’è traccia sufficiente per dirsi finalmente avviati a una coscienza della propria fedeltà al Signore della vita. La storia delle indulgenze di allora, è molto meno di questo clima: e allora, pronunciarsi per uno scisma che purifichi, perché no? E non solo per provocare, ma anche.


zero-punto-qualcosa

L’Europa è attraversata da un vento di tempesta: con l’Italia, i quattro Paesi di Visegrad, Polonia, Repubblica Ceca, Ungheria e Slovacchia. Ora anche la Svezia, pur con le connotazioni culturali luterane rispetto a quelle cattoliche del nostro Belpaese. C’è dunque innegabile questa alleanza tra sovranismi e cristianesimo tradizionale: non della Tradizione, ma delle tradizioni dentro cui ci si è ingessati lungo i secoli: per avere certezze riguardo al paradiso e all’inferno, si è fatto diventare vangelo i nove venerdì primi del mese. Ad esempio. E tanto altro. Adesso, con una predicazione petrina che ha rotto l’ecclesialese degli ultimi decenni, una predicazione che usa la lingua familiare sulla scorta di quella di Gesù – quando, volendo far entrare in intimità i suoi discepoli, usava l’aramaico, il dialetto del quotidiano – si sono rovesciate le muraglie d’acqua del passaggio del mar Rosso. Annegando cavalli e cavalieri. Ho scritto del punto zero rispetto alla civiltà nella quale stiamo abitando. Ma c’è un punto zero anche per la Chiesa? È vero che ora si intendono punti zero-punto-qualcosa in più. Era dell’uno o del quattro? Ed anche per la chiesa non si può certo fermarsi a uno zero. Non fosse altro per la santità dei molti che hanno mantenuto viva la parola del Signore, con una testimonianza verace della vita. Ma questo zero-punto-qualcosa che è segnato sul nostro vivere la fede del terzo millennio è un punto di rovesciamento? di frattura? o di ripartenza? O è solo una pausa, come molti si stanno augurando, per tornare a un dopo Francesco, al rassicurante tran- tran di un Concilio preso di striscio, e di apparati che sanno di potere del mondo? Si sta scrivendo sulla stampa anticlericale – quella che ama occuparsi delle cose di Chiesa là dove interferiscono con la propria visione decisamente destrorsa della vita, dove i poveri contano perché i ricchi possano, tronfi, distinguersi – che l’attuale insistente richiamo sul tema della migrazione avrebbe allontanato molti cattolici dalla Chiesa. E se fosse vero, come pare anche a me? Se il non ospitare lo straniero diventa una prassi dei frequentatori domenicali delle chiese; se la cura del samaritano Gesù non è più norma cristiana; se è così, ben venga che ci sia una disinfestazione. Cinquecento anni fa, Lutero staccò per ragioni ben più alte di questo meschino modo di pensarsi cristiani. Ha perso la Chiesa? Ma ha guadagnato il Vangelo! Che potrà pur tornare ad essere di pochi, ma di quelli che le otto beatitudini se le tengono davanti, per potersi poi far riconoscere nel giudizio finale. Voi dove eravate? Io credo che si tradurrà così l’interrogatorio dell’ultimo giorno. Tu dov’eri? Hai alzato la tua voce? O ti sei lasciato intruppare dal pifferaio di turno? Ben venga anche uno scisma. Spiace. Ma è inutile tener dentro una congregazione chi lo statuto evangelico di quella convocazione lo ha messo al margine. O seppellito sotto le morbide vesti paonazze di cultori di sé. È un tempo di svolta: rendersene conto per sapere quale argine scegliere, nella piena di un fiume che potrebbe straripare ancor più di quanto non si veda oggi.