vescovo a Genova a trentott’anni, e cardinale a 47: e in un tempo di gerontocrazia ecclesiastica piuttosto pronunciata (e che sembra durare tuttora: ma è prudenza, secondo una scuola di pensiero, che vuole uno stagionato rispetto a chi potrebbe ancora risentire delle tempeste, più o meno ormonali della crescita, che non si ferma alla gioventù). Tuttavia da sempre il nostro professore di storia ci avvertiva con forza: strage della Chiesa il nepotismo. Che non è, manco a dirlo, solo quello familistico: ma che compare in quelle preferenze dell’uno rispetto ad un altro, al di là dei meriti. Non che Giuseppe Siri non fosse uomo intelligente e virtuoso al punto giusto. Ma certo si ingessò in un paludamento che non gli fece sentire l’ebbrezza di un’aria nuova: sarebbe stato fedele al Concilio, avrebbe detto lui di se stesso; ma con tutte le riserve di una obbedienza che nasce dal sentire del dover restituire una fiducia. Intelligenza inevitabilmente compassata, e di senso unico. Imitato recentemente da un altro porporato, già segretario della congregazione vaticana della liturgia – quello che attribuisce lo spopolamento dei fedeli all’aver tolto le balaustre nelle chiese! Dunque il cardinale genovese (genovese di etnia e di episcopato) nella sua conclamata fedeltà al Concilio, certo non ha mostrato d’averne colto lo spirito: imporrà per la durata di tutto il suo episcopato, e saranno ben quarantanni, che sugli altari rivolti al popolo ci fossero sempre almeno due, se non quattro candelieri, e la croce in mezzo (già Francesco Giuseppe, anche lui dal regno ‘secolare’ si occupò di candele, ricordate?): “perché i candelieri distinguono l’altare cattolico da quello acattolico, e ciò è della massima importanza”. Alla barba dell’ecumenismo. Preti, quelli di Genova che si distinsero per decenni dagli altri italiani, perché tenuti da disposizione arcivescovile a indossare la tonaca, in tempi di transizione al clergyman. Insomma uno tosto, il nostro cardinale. E tuttavia, o per questo, indicato come papabile in ben quattro conclavi: al suo biografo R. Lai racconta che le prime due volte ha declinato l’invito dei conclavisti, le ultime due no, volendo, diventando papa, correggere i disastri usciti dal Concilio (certo, precisa, non quello vero, ma quello corrotto dei progressisti). Ma non è stato eletto: e chi avesse ancora dei dubbi sullo Spirito santo che aleggia in Conclave, si ricreda! Perché oltretutto quel sentirsi bravo per la nomina a nemmeno quarantanni, qualche problema psicologico glielo può aver creato: del teologo Ratzinger ha detto senza paura di passare per vanitoso: “quel che apprezzo di lui è che diciamo le stesse cose, ma io le ho dette prima di lui”. Che può essere vero, aldilà della cifra teologica diversa dei due (anche se, confesso, potrebbe essere successo anche a me di dire cose, a me come a tanti altri, prima di un papa o di un vescovo). Insomma un bel tipo. E a questo punto mi rimbombano nelle orecchie le domande ovvie: ma perché ne scrivi? Semplice: per assonanza con l’altro Siri, il contemporaneo, pure lui genovese. Se le Iene, e gli svariati elefanti in cristalleria dei media, non hanno ancora trovato collusioni (nepotistiche) tra un sottosegretario e il cardinale d’allora, vuol dire che non ce n’è. Ho dunque messo le mani avanti. La Chiesa ha già tante grane da risolvere nell’oggi, non creiamole pasticci posticci. Magari inventando parentele che giustifichino. No: eventualmente, le colpe dei cardinali non facciamole ricadere sui nipoti.