Ricordo, tanti anni fa ormai, di non essermi fermato più di tanto davanti alla Gioconda. E non solo per quell’ammasso di persone che “si devono” fermare – e ancora non c’erano i selfie, mi immagino adesso! (A parte che alla Gioconda preferisco di molto i ritratti del bergamasco Moroni, di una intensità esistenziale imparagonabile: ma non è voce di critico autorevole la mia. È per l’istinto che mi conduce a scegliere e non ad essere scelto da mode. E non per snobismo da intellettuali: semplicemente – per grazia? per fortuna? – in tempo di influencer sta a dire che non tutti e non da ora debbono essere afflitti dal fare e/o pensare come ti vorrebbero altri). Naturalmente potrei scandalizzare i fans che riducono, loro, il grande Leonardo a quel ritratto e non all’opera complessiva che lo ha canonizzato come il genio che è stato. Alessandro D’Avenia cita oggi sul Corriere un racconto che avevo già conosciuto. Narra di un pellegrino, uno dei tanti nel Medioevo in cammino verso un santuario, che si trova su una strada tra grandi cave di pietra, in una giornata di sole cocente. Vede uomini impegnati a sgrossare le pietre con i loro scalpelli e si ferma a osservarne uno, coperto di sudore e polvere, le braccia ferite dalle schegge. “Che cosa fai?” gli chiede. “Non lo vedi?” risponde l’uomo infastidito, senza alzare il capo: “Mi ammazzo di fatica”. Il pellegrino riprende il cammino e incontra un altro spaccapietre, altrettanto stanco, sporco e stizzito. “Che cosa fai?”. “Non lo vedi? Lavoro tutto il giorno per far mangiare i miei figli”. Il pellegrino continua il viaggio e incontra un terzo scalpellino, malconcio come gli altri, ma sereno. “Che cosa fai?”. “Non lo vedi? — risponde l’uomo sorridendo — sto costruendo una cattedrale” e gli indica l’edificio che sta sorgendo in cima alla collina. Il racconto dice dell’essenziale invisibile agli occhi: invisibile per il primo, visibile solo parzialmente agli occhi del secondo, diventa chiaro al cuore intelligente del terzo “non come illusione o emozione ma come orizzonte di senso che trasforma la mera fatica del lavoro in vita”. E dunque in rettitudine. La stessa che mi ha colpito nell’allenatore inglese di calcio, che obbliga la sua squadra a lasciar segnare gli avversari, dopo che i suoi erano passati in vantaggio approfittando di un giocatore avversario a terra infortunato. E così perdendo la possibilità di una promozione. Ma non la faccia, che in un gioco competitivo come il calcio sembra invece essere l’ultima cosa da perdere, almeno qui da noi. Non so se ne vedete subito il nesso; ma mi ha colpito in una intervista quel che dice il regista di quell’inguardabile film (a tratti inguardabile, se solo t’immedesimi nella sofferenza di quella creatura dodicenne!) che è L’esorcista. Dice – lui un ebreo convertito alla fede cattolica: “Ho voluto che il prete celebrasse messa come se credesse a ogni parola pronunciata, non come spesso si vede in chiesa, con la messa celebrata molto velocemente, tirata via; invece ho fatto sì che il prete nel film celebrasse la messa molto lentamente, con fede grande e profonda nelle parole”. Il nesso? Il nesso è la rettitudine. Qualità che non sempre è presente anche nelle migliori opere, nelle migliori mani. La rettitudine che è molto più della morale: ma è il sentire secondo coscienza. Siamo in un tempo che davvero aspetta di stravolgere tanti modi di guardare alla vita; e ci è chiesto di riguardare a tante maniere clericali di affossare il bene degli individui. Un tempo in cui le chiese dovrebbero interrogarsi se certi movimenti di cambiamento non abbaino il tarlo del gattopardismo: tutto cambiare perché non cambi nulla. La rettitudine chiede di vedere l’invisibile e di tenerselo ben stretto, per non negare al mondo l’ampiezza degli orizzonti, il tutto del Nazzareno che venne predicando la terra e il cielo. E non il cielo senza la terra.