Lo spettacolo di Milano, per chi l’ha visto, non è stato bello. Anche offensivo quello sventolare un rosario, dopo qualche mese dalla chiamata a un giuramento sul vangelo: che oltre tutto, in quelle mani, sembrava intonso!. Certamente intonso era nella testa, per lasciar perdere il cuore, di chi li ha sventolati. Perché se c’è qualcosa che non appartiene a quelle piazze è proprio il vangelo: dice di stare attenti a non ricevere i forestieri, che è il termine più comprensibile che si possa applicare ai migranti, questo cavallo di battaglia che, si dice, procurerà una valanga di voti allo sventolatore. Forestiero: comprensibile ché racconta di chi viene da fuori, appunto. Ed è evangelico non tenerlo fuori. Di una chiarezza inattaccabile; anche se troverete tra i frequentatori dei templi cattolici tutti i distinguo che di fatto lasciano fuori: sì però, chi, perché viene, non è molestato da guerre, e insomma la fame l’hanno fatta anche i nostri antenati. Antenati – per la verità storica del tutto dimenticata, o forse mai tramandata – che si sono stipati su navi per raggiungere le americhe, o hanno chiesto asilo alle nazioni vicine, oltralpe. Ma tant’è: è sempre vangelo che non c’è peggior sordo di chi non vuol ascoltare, di chi non presta orecchio per intendere il grido di chi fugge, di chi bussa. Ma quanti di quelli che pure sono battezzati, si sono offesi? E come possono frequentare le eucarestie, quanti negano il pane della propria abbondanza a chi è nel bisogno? e come possono accettare di predicare sul sesso degli angeli tanti omileti domenicali, non facendo scendere le loro chiese dalla regione dei principi alla realtà di una Parola che chiede di essere spezzata, anche sulle reni della nostra incomprensione? La piazza di Milano viene da lontano: viene dalla contestazione di cristiani perfettini (a proprio dire) che hanno scelto di stare a destra contestando il cardinal Martini; viene dai frequentatori del dio Po, e da “quelle camicie verdi che  affogheranno il Vaticano nel water della storia”; viene da chi arrivò a urlare, applauditissimo, che «come già accade nel bergamasco, i fedeli andranno in parrocchia con il fazzoletto verde e si alzeranno se solo sentiranno pronunciare certi sermoni”. Appunto: non si sono alzati, perché non hanno sentito certi sermoni. È tempo di prenderci le nostre responsabilità – e lo dico innanzi tutto per noi preti – di sentirci complici di chi ha fischiato, nella piazza di Milano, Francesco e il suo vangelo sine glossa. Non abbiamo detto sui tetti quanto ci è stato consegnato. Così come i laici cristiani non hanno saputo opporsi, sempre educatamente ma fortemente, ai discorsi da bar e da officina, alle bestemmie di chi si dice cristiano per devozioni, e non per l’obbedienza della fede. Per non dire della ignoranza che contrappone questo papa ai suoi predecessori: come se non avessero detto sia Giovanni Polo sia Benedetto, le stesse cose di Francesco, sia sul diritto dei popoli di cercarsi una patria possibile sia riguardo agli zingari: ”I Nomadi sono poveri di sicurezze umane, costretti ogni giorno a fare i conti con la precarietà e l’incertezza del futuro”. Ma è un’altra predicazione, di cui ci si dovrebbe nutrire. O non è che i preti, e i cristiani, si sono accomodati in una religione che non è più evangelica? Che rinnega la creazione di Dio, di cui tutti siamo figli, allo stesso modo, e semmai con una preferenza per chi è più fragile? Ecclesia sempre reformanda: e se non si riformano i cuori, le nazioni saranno sempre più xenofobe. Non sarà che la chiesa oggi non sa dire al mondo perché coloro che la abitano non sanno più vivere di vangelo?