Ne ho accennato nell’ultimo scritto, dolendomi per il monumento grandioso di Mosca, ricostruito, e privo dunque di quell’eternità terrena che sa imprimere il tempo. Ci ritorno per la notizia sulla Pietà di Michelangelo (la Pietà maledetta, che sta nel duomo di Firenze, quella che Michelangelo tentò di distruggere): anch’essa ha accumulato patine. E intervenire non è facile: prima di entrare in azione, i restauratori dovranno sapere quel che vogliono ottenere: una copia di quel che è uscito dalle mani dello scultore, o un’opera su cui gli stessi sguardi ammirati o dolenti hanno riplasmato nei secoli? Insomma, se non vuoi distruggere qualcosa che vale per come ti è consegnato, non ne devi distruggere la storia. Se non vuoi distruggere il mondo non puoi dire che l’Amazzonia non è patrimonio di tutti. E non puoi dire che il tuo paese è dei patrioti e non dei globalizzatori. E, ancor più in ristretto, non puoi far ridiventare un’isola la tua nazione, accampando motivazioni meschine. Certo, vi sono patine del tempo che sanno di muffa: quanto più i paludamenti sono obsoleti tanto più chiedono il cambiamento, dicono in Inghilterra. Ma lo si potrebbe dire a inconfutabile ragione anche della Chiesa. Che ne è stato del documento firmato da alcuni vescovi conciliari in cui si chiedeva di evitare nomi e titoli che esprimono concetti di grandezza e di potenza, come eminenza, eccellenza, monsignore, e che richiamava a una evangelica sobrietà delle vesti ecclesiastiche? Ma la maggioranza resiste e non se ne fa nulla: pensate che un vescovo sia meno vescovo se oggi rinuncia a quel copricapo che va sotto il nome di mitria? È vero: simboleggerebbe i due Testamenti di cui dovrebbe essere intrisa la mens episcopale. Ma mi parrebbe ovvio che ne sia intriso, anche senza un simbolo che è molto vicino a mode egizie del tempo del Mar Rosso. Se dunque non vuoi distruggere la Chiesa, per prima cosa non devi distruggere la sua storia. Che non è quella dei segni ma del deposito della fede consegnato dalle Scritture: dunque non delle tradizioni ma della Tradizione. Ripetuto all’ennesima potenza; e tuttavia sempre in gran parte disconosciuto dalle prassi: sì però, l’espressione che manda a carte quarantotto la coerenza alla chiamata evangelica. La stessa incoerenza di chi coltiva principi assoluti, come se l’uomo fosse un assoluto, e non fosse fragilità il suo codice spirituale. Quanta violenza si è fatta in nome del Bene? E quanta violenza potrebbe ancora avvenire se si ricalcano sull’umanità visioni che scopriamo non stare nei codici genetici umani? Ad esempio: davvero la Chiesa sa i limiti della sofferenza, per impedirne un lenimento che prenda non il nome di eutanasia o di suicidio assistito, ma di quella zuppa e pan bagnato – se è lecito usare un’espressione popolare in argomentazioni drammatiche – che va sotto il nome di non-accanimento-terapeutico? C’è una soglia nella vita: accorgersene è avere quella compassione che è linfa della misericordia. Accompagnare dolcemente a varcarla – senza alcuna premura, senza affanni, dunque senza violenza – è compito cristiano. Anche così, o soprattutto così?, si riannuncia il Vangelo di Gesù. Lontani dall’uomo, dal suo limite, si è lontani dal Cristo: e questo non è forse il peccato della Chiesa, che ha allontanato i molti di un tempo, perché non sa dire che Lui non è venuto per chi si pensa nel giusto, ma per chi nella sua pochezza si consegna a Lui?