Ebbene sì: uno sguardo all’indietro può essere utile. Anche perché, in questi sette anni ultimi, ho avuto tempo di accorgermi del ”se avessi fatto così” con tutti i rimpianti e i rimorsi sulle evenienze di una vita. Non che, a una somma algebrica, alla fine non compaia un +. Minimo, mi dico, ma un +. E per riandare proprio all’inizio dell’avventura, mi sono riletto la pagina-manifesto richiesta alla vigilia dell’ordinazione:lì pensieri e propositi. Seriosa, di quella seriosità di cui sono stato spesso criticato (e di cui per la verità, mi sono io stesso rimproverato, pur non riuscendo a correggermi: è così bello essere accettato da tutti quelli che non vogliono essere scomposti!). Vero è che partivo da una convinta umiltà: È, anche per me come di un uomo che semina la sua terra; dorme, e si alza la notte e il giorno, e intanto il seme s’apre, ma egli non sa in che modo (Mc. 4,46). O meglio, so che c’è uno Spirito che realizza condizioni uguali da situazioni diverse. A dire, che non presumevo di essere un eletto per le mie doti, ma un graziato: se questa parola non soffrisse di una specie di vintage in un mondo di palestrati dello spirito, quei giusti che sanno la verità – naturalmente la propria. Ma subito aggiungendo che in forza della chiamata non potevo sottrarmi alla forza del seme, che rompe la crosta del così fan tutti: se pensate che lo slogan con cui ho costruito l’immaginetta-ricordo recitava essere come gli altri, essere tra gli altri, ed essere un altro. Essere un altro che per la verità era un auspicio di santità che non mi costa molto ammettere di non avere realizzato. Ad ora. Ma c’è qualcosa a cui, sia pur minimamente, ripeto, mi sembra d’essere stato fedele: Come Gesù “profeta potente in opere e in parole (Lc 24,20). In opere: prenderà sul serio la fame, la lebbra, le menomazioni degli uomini (Mt. 11,15), senza soccombere alla maledizione del desiderio d’efficienza. Appunto: fatte le debite distanze dal Nazareno (ero un venticinquenne, e se non si è radicali lì, quando?) mi sono fatto una vita da prete un po’ fuori dalle righe prelatizie di cui vedo soffrire tanti giovani presbiteri. Così l’accusa di aver fatto politica dai pulpiti della mia predicazione sui tetti, la posso rivendicare tutta: sperando che l’insipienza di chi non sa la potenza scatenante del Vangelo sia, più prima che poi, sconfitta. Evangelizzerò, scrivevo, non mantenendosi nella calma regione dei princìpi, ma calandosi negli argomenti del giorno: il sabato, il tributo a Cesare, i potenti del momento – scribi farisei e la volpe Erode. Non era ancora cominciata l’età dell’odio: si era in un post-Concilio di grandi speranze. Quell’età dell’odio che dalle brigate rosse e nere è arrivata fino ai nostri giorni: in parole social che sono proiettoli ugualmente sanguinosi di quelle che avrebbero, da quel dicembre 69 in poi, steso molti uomini e grandi speranze. È stato, quel calarsi, motivo di ulcerosi sospetti, e di incomprensioni nel presbiterio. Rispetto a un modo di fare pastorale, il vescovo Giulio mi avrebbe detto che la maggioranza dei preti bergamaschi non era pronta a raccogliere il mio eventuale testimone. E debbo dire, visti gli esiti, che vedeva giusto. Ma lui non si è lasciato fermare: chiamandomi a un passaggio di parrocchia sicuramente di stima. Ecco perché un + lo vedi in quella somma algebrica che sono stati questi cinquant’anni: nonostante tutti i miei peccati (altra parola vintage?). Ma ne ero conscio fin dal principio se avvertivo: perché riescano fatti di vita, chiedo a quelli che ho incontrato o incontrerò una continua invocazione al Padre. Poiché conosco i miei limiti. Sono qui, ringraziando molto e sempre ripetendo ogni sera prima di spegnere la luce sul giorno: si iniquitates observaveris Domine, Domine quis sustinebit? Come potrei sostenermi, Signore se tu guardassi solo ai miei meno? Anche per questo, inviando ai miei compagni di messa gli auguri per questo pesante anniversario, ho scritto prendendo immagini leggere da chi le ha sapute creare per altro contesto: non siamo stati qui ad asciugare gli scogli, a smacchiare i giaguari, a cambiare gli infissi al Colosseo, a mettere i pannelli fotovoltaici alle lucciole, a pettinar le bambole (o forse sì qualche volta?): nelle nostre fragilità siamo stati amati dal Signore, e ci abbiamo provato ad amarlo e a farlo amare, dentro le quotidianità cui siamo stati chiamati_ per questo vi auguro – coOrdinati con me al presbiterato quel 28 giugno – che gli auguri che riceviamo in questi giorni si traducano in vita, per arrivare vivi al Traguardo.