Sta uscendo in Francia uno di quei libri che dividono: dissacratore o evangelico? dell’Evangelo che si impianta dentro il pensiero di oggi, come gli compete non essendo lettera morta? E dunque ci sarà chi lo metterebbe (anzi, lo metterà) all’Indice dei libri proibiti alla coscienza intelligente – se l’Indice ci fosse ancora (ma sicuramente è rimasto dentro le fibre irrazionali di molti cattolici). Così come qualcuno lo affronterà con l’esegesi propria di chi una volta di più si interroga. Sul chi e sul che cosa crede. Ma soprattutto in Chi crede. Un’operazione che la Chiesa sta affrontando nel modo migliore? Ci si accontenta (ci si accontenta!?) di cambiare le strutture, di sentirsi evangelizzatori per confini e organigrammi rivisti; e non ci si vuol accorgere che dentro ci stanno preti e laici – e vescovi – credenti certo, che rimangono gli stessi. Con le stesse categorie di pensiero che li isola dal porsi la domanda essenziale: avviati alla vita eterna, come? Come in questo mondo che fa dell’indifferenza la sua cifra religiosa, che è poi la cifra della vita che si vive: rassegnati alle tecnologie come risolutive del quotidiano, e incapaci di leggere il mondo come casa propria, e tutti gli umani come facenti parte della stessa famiglia: la nostra, del Nostro Padre che è del cielo, della terra, del mare, e dei marciapiedi. E dunque quel libro riracconta la storia di Gesù. Già fatto più o meno bene nei due secoli che ci precedono: da Pascal a Renan, perfino a Mancuso. Una rivisitazione degli ultimi giorni di Gesù nella sua passione, immaginando nel processo i testimoni a carico. “Essi sono sfilati gli uni dopo gli altri. La gratitudine, si sa, non è di questo mondo: il lebbroso guarito si lamenta di aver perso così la pietà altrui e, quindi, le elemosine; il cieco si lagna della bruttezza del mondo che ora è costretto a vedere; Lazzaro, dell’odore di cadavere che gli è rimasto attaccato alla pelle. Il sindacato dei pescatori di Tiberiade lo accusa di aver favorito un gruppo a scapito degli altri… E non credevo ai miei occhi quando ho visto arrivare gli sposi di Cana, i miei primi miracolati…”. Insomma, un breve stralcio che racconta tutta l’insoddisfazione di chi non vede il bene nel bene che ha ricevuto; e che vuole sempre il di più: quell’albero piantato in mezzo all’Eden è sempre presente, tentatore dell’essere come Lui, il Creatore. Usa un bel po’ di humor, l’autrice del libro in uscita; e non è fuori luogo rispetto a una seriosità teologica che ha indotto spesso un moralismo senza persona, senza quella fragilità riconosciuta, che è poi quello per cui ci è stato dato il Figlio. In francese, il titolo del libro è Sete. Quel “sitio” che cala dalla croce, e che trova come risposta un misto agro, forse compassionevole nel voler essere un analgesico. Ma è un “sitio” che al contrario trova nell’uomo, una fame di sete che tocca l’insaziabilità. Rileggere il Cristo nella sua umanità serve alla nostra: così scomposta, così esposta, soprattutto nelle passioni cui nessuno sfugge. Così poco capace di godere dell’essenziale, così protesa sull’abisso dell’impossibile. E così sciocca dal non voler accettare il limite.