Avvento di che?

Così come viene lamentato, finalmente non può restar dubbio a nessuno: il natale così come viene evocato non è il Natale dei cristiani: e ci si potrebbe fermare qui. È altro. Qualcuno sta facendo i conti: se il confinamento (alias lockdown) arriverà sotto l’Albero spenderemo 870 milioni in meno nelle bollicine, consumeremo 70 milioni di panettoni in meno, ci saranno 5 milioni di pranzi da veglione in meno. A conti fatti un natale austero provocherebbe una caduta di 25 miliardi nei nostri consumi. Piangono in tanti. Un natale povero. Di nuovi poveri?! – e però si dovrebbe dibattere di quale povertà si sta parlando, ma un’altra volta. E qualcuno, con chi piange, dovrebbe nel caso piangere? La salute intra-covid da accantonare? E il marasma delle relazioni da ricostruire, rimandato? Ci si era detto, agli inizi del morbo – quando improvvisamente ci si sentiva tutti buoni, tanto buoni, di un buono altro che a natale! – che potesse essere la volta buona. Di cambiare. Cambiare i modi, cambiare gli sguardi. Cambiarsi, e non solo di vestito ma di cuore, di intelligenza. Che il Mondo cambi, che la Chiesa cambi. Poi, non più all’inizio, quando la paura  ha lasciato il posto alla insofferenza – e alla rabbia, ma è così penoso che è meglio scivolare via – si torna a desiderare la normalità: non del bene degli abbracci che ci mancano, ma del male dell’indifferenza che ammucchia lasciando soli. Non è stato, e non è facile: stare lontanamente insieme è complicato. Tornare a ragionare come comunità, e non più come individui è difficile. Occorre un vaccino contro l’ignoranza: e i beninformati assicurano che lo si sta sperimentando nei laboratori di babbo natale, naturalmente di quel natale lì, non quello dei cristiani. E, dicono i giornali, intanto le turbe psichiche aumentano. (Forse perché ci sono editori che si adeguano o fanno adeguare persino il papa?: si preannuncia un libro di Francesco cui è stato dato il titolo Ritorniamo a sognare_ ho da sempre, e l’ho già scritto, ripugnanza per i sogni che non siano del sonno, tanto benefici questi, quanto deleteri quelli a occhi aperti, perché illusori, perché devianti_ per questo ritengo, spero, che sia una forzatura editoriale quel titolo, non piacendomi che il papa usi termini già abusati da quel signor B che ha guastato la nazione con la sua tv dei sogni!). Occorre un piano per salvare il Natale, quello storico che fa memoria e quello escatologico che avverte del secondo ritorno del Signore. Potrebbe non essere complicato: basta vivere quel giorno lasciandosi afferrare dalla semplicità degli affetti possibili, e dei beni condivisi. Sapendo, dietro le mascherine prescritte, saper sorridere sulle pochezze umane, senza sprezzarne i protagonisti; e senza rinunciare al giudizio che costruisce, per quanto inviso da scribi e farisei della nostra contemporaneità. Il giudizio costruito, ad esempio, additando le paginate che oggi celebrano la morte di un divo del calcio: nulla toglie alla compassione per l’uomo criticare chi adombra la sregolatezza micidiale del protagonista, a favore di quella parabola che da soli pochi metri incrocia l’angolo impossibile per un goal che diventa così possibile; e costruisce indignandosi per lo scrittore – che pure ha fatto della sua vita una crociata contro la camorra, e pagando di persona – vederlo scrivere oggi un peana maradoniano senza citare i suoi connubi con la malavita: obnubilatio mentis? ecco quel che producono gli idoli persino sui migliori. Ma anche: è lecito per chi crede alla povertà di Betlemme saper pretendere che il francescano insignito or ora del cardinalato non si ammanti di porpora. Francesco, il nudo d’Assisi, rimanderebbe sicuro al suo vicino di posto, a quel Filippo Neri e al suo “no grazie, preferisco il Paradiso” quando gli si voleva offrire la porpora cardinalizia (che era poi un modo subdolo per allontanarlo da quella rivoluzione di povertà che aveva creato nella corrotta Roma papalina). Presumendo buone  le ragioni per cui il papa ha pensato a lui – e che non siano di tipo mediatico, come qualche malevolo scrive e qualche invidioso raccoglie – suggerirei che quel frate si presentasse alla cerimonia di investitura (e già questi termini dovrebbero far arricciare tutti i peli) con il suo abito conventuale, e ricevesse solo lo zucchetto, fosse stato fatto nel frattempo vescovo, o semplicemente la bolla di nomina. Un piccolo cambiamento. Ma finalmente l’immagine fastosa della Chiesa si prenderebbe lo scossone sufficiente ad innestare il ritorno convinto alla nudità gloriosa del vangelo betlemitico. In attesa che il cardinalato sia abolito, e la sua funzione principale – eleggere un papa – sia demandata ai vescovi eletti dalle nazioni. (Ma chi sono io per giudicare?!).


san Martino

Lo si sapeva, ma si è fatto come se fosse un’ipotesi del terzo tipo: irreale. E invece. Anche da lì fu facile profezia che si sarebbe usciti un po’ più stupidi e un po’ più cattivi. È qui da vedere. Stupidi? Per un verso e per l’altro. Di quelli delle movide, che sbracano  accavallandosi nelle piazze a protestare contro le chiusure, e intanto distruggendo ristoranti: ma sono i loro, o non sono loro i ristoratori scesi in piazza? Ma c’è anche stupidità in chi chiude a occhi chiusi: di chi chiude ristoranti, bar, palestre, cinema, luoghi che pure si sono organizzati, prendendo sul serio la minaccia della seconda ondata. Avrebbero costituito una tentazione, dicono; e occorre ammettere che, visto ciò che gira, davvero potrebbe essere una fiducia mal riposta: nei clienti, non nei datori dei servizi. E combattere le disuguaglianze, il tema aggravatosi da come già era prima del covid? Lamentele del mondo del calcio per non poter pagare gli stipendi (al milanista o allo juventino da milioni, o a quello che gioca per qualche decina di migliaia di euro, giusto per provvedere al futuro non calcistico?) No, dico, non sarebbe l’occasione per ricomporre equilibri che non gridino vendetta al cospetto di insegnanti o di infermieri? Cattivi al punto di portare in tribunale i medici: per incapacità a fare i conti con la morte, ci si instrada sui sentieri dei risarcimenti, e non crediate che siano morali: cattivi al punto di barattare la memoria dei loro cari con mammona. Altro che tempo degli eroi, o di ballate sui ballatoi di casa. Così come fu facile prevedere che la chiusura dei campi estivi oratoriani avrebbe diffuso la microcriminalità:adolescenti lasciati a se stessi sulle strade di un’estate impropria, a doversi inventare lo spazio per esserci, dentro la frantumazione di certezze. Cattivi e stupidi insieme quei tifosi atalantini che prendono a sassate i pullman degli avversari: non è che senza un avversario non ci sarebbe partita e neppure la loro squadra? – ma non perdere tempo a spiegarglielo, non ci arrivano. L’apice di ogni epoca è stata segnata da una peste o da una guerra devastante, dagli Egizi in poi, che se ne abbia memoria biblica o altra. Ci siamo? E dopo? Quale umanità, di robot fatti uomini o di uomini fatti robot? Dove la semantica degli uni si scambia con la sintassi degli altri? E dove dunque verrebbe a mancare quel bene essenziale che è sapere il perché dell’umano. Stupidità e cattiveria da covid ci devono allarmare: per accorgerci che stiamo perdendo l’essenziale. Leggo e riporto: uno studente, anni fa, chiese all’antropologa Margaret Mead quale fosse, secondo lei, il primo segno di civiltà in una cultura, aspettandosi che Mead parlasse di ami, pentole di terracotta o macine di pietra. Ma non fu così. Mead disse che il primo segno di civiltà in una cultura antica era un femore rotto e poi guarito. Spiegò che nel regno animale, se ti rompi una gamba, muori: non puoi scappare dal pericolo, andare al fiume a bere qualcosa, o cercare cibo; sei carne per predatori che si aggirano intorno a te; nessun animale sopravvive a una gamba rotta. Un femore rotto che è guarito è la prova che qualcuno si è preso il tempo di stare con colui che è caduto, ne ha bendato la ferita, lo ha portato in un luogo sicuro e lo ha aiutato a riprendersi. La morale di sempre, covid o non covid, è semplice: noi siamo al nostro meglio quando ci prendiamo cura gli uni degli altri. Come Martino di Tours. Da uomini, prima ancora che da cristiani.


eh, sì

Qualche alto prelato, per altro dimesso pur senza togliergli diritti di porpora – anche se è stata evidente a suo tempo una sfiducia – si dice nella scia di quel primo Concilio, quando Paolo rimproverò Pietro, senza per altro togliere obbedienza a chi il Signore Gesù aveva messo a capo. Bello e giusto. Non fosse che s’incanala apertamente dentro quei suprematisti cristiani che – sulla scorta di quelli bianchi d’America  – finiscono per dirsi favorevoli all’attuale reggente, dovesse votare per uno dei due di là. E dunque sposa quella corrente di devoti non credenti che titolano le loro articolesse con “il trappolone dentro cui è finito di nuovo il Papa”. Che ormai ha dato loro le ultime armi per farlo fuori, mi è certo. Non con i veleni dei tempi dei Borgia, ma con quella prelatizia smorfia che “sì, certo, mi spiace, neh!, ma insomma, dovrebbe parlare solo per encicliche, e non a ruota libera con donne  e uomini che magari stanno su sponde opposte alle nostre”. Dunque, per riassumere per chi sa e chi non sa: un documentario su Francesco fa un’operazione di colla-incolla,  con molte lacune (deliberate?) a partire da un’intervista che una giornalista messicana gli ha chiesto dopo quella frase sull’aereo, riguardo alla omosessualità: “chi sono io per giudicare i figli di Dio?”. Ecco tutto sta lì: non un giudizio per categorie di umani, ma ciascuna persona è degna di diritti in quanto figlio di Dio, e non come figlio minore. Nell’intervista originale il Papa parla di convivencia. Non parla di matrimonio, che lui stesso riconosce da sempre di altra natura: generativa ed educante. Ritiene semplicemente quello che molti cattolici ritengono da tempo: che vi debba essere una legge che riconosca loro diritti civili per essere legalmente coperti nel difficile della vita; tutto qui. Ma certo è tantissimo per molti. Per quelli che non riescono a digerire le parole del Signore, che sono la Parola, caro prelato d’alto bordo a cui pure ti richiami per correggere il Papa (che va corretto quando sbaglia, è indubbio, ma non quando ti mette su una direttrice correttiva dei tuoi ingessati pensieri); e non citando solo quella contenuta nel primo Testamento. E dunque, “il sabato è stato fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato”. Leggere i segni dei tempi è anche chiedersi se davvero la dottrina della Chiesa non è mai cambiata nei secoli: chiederselo per rispondere ovviamente che sì, e per grazia di Dio. E solo per questo tema – che è il tema dell’accoglienza per ogni persona – non ci si deve porre interrogativi? Ci si deve rinserrare nel limbo di definizioni che di fatto tengono al margine? Una nota comica, da quei devoti non credenti, tipo quelli che quando filosofeggiano si fanno una Pera: scrivono che Ratzinger fu un papa laico, Bergoglio è un giustizialista. Come dovrebbero invertire ora, senza naturalmente mancare di rispetto a Ratzinger che non lo merita? Non invertiranno. Peggio di quei chierici acquiescenti alla dottrina senz’anima. Alla dottrina che non ricorda l’incarnazione come radice dell’obbedienza a Cristo di chi vuol esserGli discepolo.


Fratelli tutti

Un’enciclica che darà del filo da torcere alle pance dei detrattori di Francesco papa. Che sulla tomba di Francesco d’Assisi firma una lettera a questo Mondo che, nonostante quel che accade, si sta svagando su se stesso; e a questa Chiesa che è ancora fissata sul dare il cardinalato a certe chiese italiane che l’han sempre avuto: come se la porpora fosse un sacramento!; arrivando perciò – perciò! – a proclamare una Chiesa italiana in declino. Perciò! E non perché da molto tempo ha rinunciato ad essere incarnazione della rivoluzione del Vangelo, quella appunto che nella Lettera trova le sue espressioni da mal di pancia: “La perdita del senso sociale è camuffata da una presunta difesa degli interessi nazionali, e dunque da conflitti anacronistici, nazionalismi esasperati, risentiti e aggressivi, da un mondo sequestrato dalla finanza e da poteri economici senza vincoli”; e anche: “Chi sta peggio sono i «migranti», nemmeno degni di partecipare alla vita sociale e purtroppo molti cristiani condividono questa mentalità inaccettabile. A questa aggressività sociale e ai fanatismi partecipano anche persone religiose. E quello che fino a pochi anni fa non si poteva dire di nessuno senza il rischio di perdere il rispetto del mondo intero, oggi si può esprimere nella maniera più cruda, anche da parte di alcune autorità politiche, e rimanere impuniti”. E pure:”Non è accettabile che nel dibattito pubblico abbiano voce solo i potenti e gli scienziati. Le religioni infatti raccolgono secoli di esperienza e di saggezza, ma i leader non devono essere mai imprudenti e giocare con integralismi e fondamentalismi. Mal di pancia da subito. Tanto che ci si è buttati a quell’ipercritica che risente dei vuoti non solo mentali, ma di cuore: odiano!; e chi lo nega li aiuta a continuare ad odiare. Se poi qualcuno s’attacca a quel fratelli che non avrebbe attenzione per le sorelle, di primo slancio mi vien da dire che s’attacchi. Ma non è cristiano. Anzi non è umano, e proprio secondo il vangelo ripresentato dalla Lettera. Dunque, da fratelli non coltelli lasciamo che dicano. Anche il cardinal Ruini, per non lasciar mancare nulla al collegio cardinalizio – che in questi ultimi tempi ti fa chiedere se lo Spirito santo davvero non c’entra, come io ho sempre creduto per altro, nella loro elevazione alla porpora, e in tante altre cose ecclesiastiche in cui è impropriamente reclutato – il venerando cardinale della rivoluzione culturale fallita ha detto l’altro giorno che se uno critica il papa non vuol dire che gli è contro. Anch’io alla sua età non saprò distinguere tra chi critica e chi disprezza? Tra chi definisce eretico Francesco, e chi non critica il papa per criticare il Concilio, che è stato traduzione evangelica per l’epoca che viviamo, in uscita dalle epoche che non appartengono più a una lettura puntuale di quanto il Signore vuole che viviamo oggi – sempre supposta una risposta convinta al suo se vuoi essere mio discepolo? D’accordo, siamo in un anno bisesto: nefasto per tutti, prelati compresi. Ci è stato dato da madre natura un tempo per il sabbatico: usarlo? Macchè. In streaming preghiere e messe a profusione anche dai salottini di preti che si sono ormai sentiti importanti per l’apparire nelle 60 famiglie privilegiate sulle 2000 che contano le loro comunità. Non il vuoto che chiama, non l’interruzione che provoca. Esserci comunque, pur non essendoci davvero. Mi si conceda una autocitazione: nell’anno del giubileo si è sospeso tutto, là dov’ero, ma proprio tutto, in parrocchia, eccetto la celebrazione eucaristica. Al ricominciamento, che qualcuno paventava svuotato nelle convocazioni di varia natura, un afflusso moltiplicato dagli adolescenti agli adulti. Ci dessimo – siamo ancora nell’era del covid 19 – un anno sabbatico? Basta su tutto, concentrandoci sulla Eucarestia celebrata con le attenzioni ma senza ossessioni alle indicazioni sanitarie? Per ritrovarci alla fine in una sinodalità dalle comunità parrocchiali fino alle diocesi – per chiedersi: che cosa è essenziale per la nostra fede che chiede di essere evangelizzante? Che cosa potare e che cosa trattenere? Domande cui vorrei tanto ci si mettesse a dar riposta. Per non perdere la grazia, nella disgrazia, della pandemia.


il come ricominciare

Testa sotto la sabbia? Che mondo è? Con vegani e omeopati al grido il Covid è una truffa, liberiamo l’Italia, la destra porta i negazionisti in piazza. Marciano su Roma: terrapiattisti, schizonazifascisti, no-mask, gilet arancioni, no-vax… “Macchiette e mattoidi diventano mostri solo in tempi già difficili. Siamo mostri anche noi? Non è andata bene ai Franceschielli che gettano la farina al popolo: il popolo esulta, ma poi il giorno dopo si ripresenta con la stessa fame”. Gli spin-doctor (alias esperti, in lingua italiana, ma tant’è, a dirla in straniero fa più effetto) hanno suggerito a un governatore poi rieletto di farsi crescere la barba; a un altro, ch non è stato eletto di allungarsi i capelli; e al piazzaiolo degli scontenti a prescindere, di mettersi gli occhiali per ingentilirsi un po’, ma è bastato solo in parte ad allontanargli qualche deluso. Per vincere ci si attacca alla scienza della comunicazione: che poi sia di sostanza o di apparenza, ci sono sempre i malcapitati che ci cascano. Ci si dovrebbe ricordare – e in tempi come questo ancor più – quanto disse Moro, lo statista ammazzato dalle Brigate Rosse. “Se dobbiamo cogliere l’opinione pubblica, valutarne gli stimoli ed accentuare la nostra capacità critica, non dobbiamo però seguirla passivamente, rinunciando alla nostra funzione di orientamento e di guida”. Esattamente l’opposto di quanto si sta vedendo: a rimarcare che da quel piccolissimo coso che sta devastando l’umanità, non si sta uscendo (e speriamo che si stia uscendo…) come per qualche mese si è sperato. Ma, come già ebbi modo di scrivere, in po’ più cattivi e un po’ più stupidi. Proclamando che il web sarà la nostra salvezza: il lavoro da casa, le scuole a distanza, e teatro e cinema e calcio solo nel televisore. La rottura dei corpi sta generando la rottura del corpo sociale? Quello che insegna, nella prossimità, a vivere i conflitti per generare tenerezza? E dunque una vivibilità umana? La pandemia è un esperimento colto prima con paura, poi con ribellione: non ha cambiato lo stile della convivenza di cui le tracce ultime erano di dissoluzione. Non ha sconvolto al meglio. Si ricomincia, come se nulla fosse, da come eravamo. E ci si appallottola anche tra i cattolici nel tentativo di riportarsi alle “certezze” di prima. (Parlare di “punizione divina” nella pandemia, come strillano da Radiomaria, è blasfemo! Dio ha mostrato attraverso Gesù che Egli vuole la salute, il bene per tutti i suoi figli, anche quelli che sbagliano. Dio non vuole la morte del peccatore, ma che si converta e viva, come racconta Ezechiele il profeta: è parola del Signore, io non godo della morte dell’empio). Che poi fossero certezze che trasmettevano un Signore datato e scontato, su questo ci si tiene alla larga nella ricerca di una ripartenza ecclesiale. Affannati a chiedersi per le chiese vuote, per le riunioni difficili, per quel venire a galla – e questo è di una visibilità netta per chi non vuol essere struzzo – di una indifferenza religiosa che è poi assenza di fede cristiana, affannati a chiedersi: e adesso? Abbiamo un Dio vivo, un Signore che ci ha dato delega per dare il nome al creato; e dunque per sapere dare risposta al divenire spesso difficile ma sempre pregno di grazia degli avvenimenti storici. E dunque non più l’approssimazione che ha bollato le parrocchie di pressapochismo. Il Vangelo nella sua meraviglia merita una serietà tutta da riscoprire. E dunque sobrietà, e dunque apertura; e dunque opposizione a chi sta dentro con tutt’e due i piedi fuori: di che cosa si confessano quelli che negano il Vangelo di Gesù osteggiando la predicazione evangelica che viene da Santa Marta? La vera grande scommessa di chi punta la sua vita sul Vangelo – seppure da peccatore – è riconoscere la propria salvezza nella cura che ha del corpo del prossimo. Per servire la vita nel mentre accade. Ho volutamente scelto una pittura del cinquecento luterano a sostituzione di quella proposta alla diocesi sulla resurrezione del figlio a Naim. e, preciso, soprattutto per una leggibilità iconica quella fantoniana che mi pare piuttosto illeggibile. Ma il Cristo e il ragazzo – di Lucas Cranach il giovane, dipinto che sta a Wittenberg – emergono dentro una processione di nerovestiti: Lui e noi, nella stessa resurrezione che affranca da processioni religiose funeree, senza fede, quindi senza speranza. Non è più tempo di anacronismi cattolici, che ci disturbi o no ‘sta cosa.


diatribe?

Senza alcuna presunzione di mettermi alla pari delle riflessioni dello psicanalista Recalcati, sia subito chiaro. Ma il titolo, che più che biblico è catastrofico, con cui ha scritto l’altro ieri su un quotidiano non può lasciare alla finestra, come se i contenziosi appartenessero solo a chi ha ospitalità sui grandi giornali. Dello psicanalista ho grande stima. Più volte anche qui a Fontanella ci ha introdotto a un mondo di pensieri accattivante. Girando lui attorno al “desiderio” e fondando lì quasi il totale dell’esistenza: anzi della eccedenza e della follia del desiderio. Che è vero, finché non si scontra con il limite. Quello appunto di una vicenda come quella di Bose, e come tante altre nella storia della Chiesa. Ricordo ai miei generosi lettori i due daQui che ho dedicato, il primo a frate Enzo, il secondo ai suoi frati e alle sue sorelle (e per chi li avesse mancati, o volesse rinfrescarsene la memoria, li si trova cliccando qui sotto). E l’ho fatto dolendomi che una eredità, preziosa per la nostra Chiesa e per l’oikumene cristiano, finisse per avere la sorte dei cedri del Libano: quando cadono, risuona a sgomento e molto lontano il loro lamento. E infatti, era inevitabile che quelli di fuori della comunità o si confondessero o festeggiassero. E proprio per quella profezia che sta nell’intuizione di Bose: desiderata dai molti che vogliono una Chiesa meno lenta nello sbarazzarsi di storicismi anacronistici; ma osteggiata dai tanti che non vogliono essere smossi da certezze che li tengono in piedi. . Oppositori che Recalcati insinua essere in una probabile normalizzazione dell’evento Bose: uno spurio ecclesiale da risanare? Come in tutte le fragilità umane, ho scritto, in tutti i conflitti – un fondatore che non sa rinunciare alla sua creatura, e una comunità tentata di relegarlo in un cimitero degli elefanti – nessuno ha tutte le ragioni, come non ha tutti i torti. E qui la differenza tra i ragionamenti di Recalcati e la realtà spirituale dei credenti vede il confrontarsi del desiderio con la croce di Cristo: che chiede all’uno l’umiltà di ritrarsi per non fare ombra, e agli altri di tenere comunque viva la memoria del dono di cui vogliono continuare a vivere. È la narrazione del sacrificio, che non annulla il desiderio ma lo contiene: il desiderio di una paternità e il desiderio di una emancipazione. E dunque accusare, come fa lo psicanalista, di una mancanza di pietas, è del tutto fuori luogo. È pietas dare a ciascuno il suo posto nello scorrere dei giorni. E giustamente Recalcati introduce sulla vecchiaia malandata di Enzo, che dev’essere presa in cura: e chi non condividerebbe? Ma i due fratelli e la sorella che hanno già preso posto altrove, non avrebbero potuto caricarsi sulle spalle, loro, il loro mentore? O è Enzo che comunque non vuole allontanarsi? È uno sradicamento, certo, e doloroso: ma quanta esemplarità di obbedienza, per chi si mantiene suo discepolo e per chi ne ha subito mal di pancia! Che la vita di Bose sia condizionata dalla sua presenza, non è motivo altrettanto valido per il rispetto che si deve al “desiderio” di coloro che vogliono vivere con il nuovo priore una stagione rinnovata? E se il Vaticano, altro che correggere il carisma di Bose, avesse inteso zappettarlo ancor più? Ecco perché è bene che Recalcati con il suo scritto abbia richiamato al dovere di non interrompere un dialogo nella Chiesa tra due sponde che di Bose hanno sentori diversi: quelli che ritengono non ci sia mai un diritto illimitato di proprietà sulla propria creatura – non lo si pensa anche dei genitori verso i figli? -; e quelli che non dimenticano che, ancora una volta, tra il dire e l’agire scorre il fiume dei nostri sentimenti. E dunque al fraterno rimprovero a Enzo di non essersi forse lasciato custodire dalla sua cella, non può mancare l’avvertenza che nulla mai è pienamente compiuto, umanamente, neppure in una professione di fede convinta. Ecco perché il titolo dell’articolo (nessuno tocchi Enzo) non può essere biblico: richiama prontamente il “nessuno tocchi Caino”: che non è proprio il meglio se lo imparenti a Enzo Bianchi, l’ex priore che ha fatto grandi cose, pur scivolando anche lui (e chi non scivola?). Pur Recalcati ha qui il suo scivolone. A me pare.


fare corpo

Dunque, ristoranti vuoti chiese vuote, come titolava un giornale. Che detta così ci sta anche bene: gli uni e le altre son per il nutrimento, senza cui non si vive in nessuna parte del mondo. È vero, si mangia anche a casa, ma è come il cinema alla tv e non nelle sale, ora chiuse: tutt’altra cosa. E non saprei dire perfettamente cosa; ma è cosa, se ci pensate un po’. Perché si tratta di corpi, di un corpo che il cibo mostra condiviso, lo si prenda in una trattoria o in una chiesa. Dunque di una umanità che svolge se stessa, che non si apparta, ma riconosce una appartenenza. Che non sia egocentrica, come i populismi vorrebbero fosse: noi per noi come conseguenza dell’io per me. È notizia che rischi quarant’anni di galera quel ceffo – un regista hollywoodiano ne potrebbe ben usare la faccia per un satana in spoglie umane – che dalle stanze trumpiane è arrivato fino alla Certosa di Trisulti per predicare quel verbo antievangelico? Colto con le mani nel sacco di sottrazione di denari frutto di donazioni: che sicuramente è giustificabile nella logica dell’io prima di te, che fonda il noi prima di voi. Che è poi quello che sembra, mentre il covid non si decide ad andarsene. Intanto, quella vena di ottimismo sul “ne usciremo meglio” sembra svaporata con i canti dai balconi. E i discorsi che si sentono da politici e no hanno a tema i giovani (per altro già detto di quanta ipocrisia sia zeppa questa attenzione, in chi non molla un ette dei suoi privilegi parlamentari o pensionistici). Quei giovani che vogliono tornare indietro, a come si stava bene tra discoteche e spiaggiate, quei giovani che forse hanno sofferto più degli adulti il furto di alcuni tempi della loro crescita; o quei giovani, e sono la maggioranza, che si sono rifiutati di mettere paura nella loro vita, e ancor più sono pronti a giocarsi tutte le risorse vitali, per sé e per gli altri? Ma per questi ultimi, e per gli altri anche, non possono essere trattati solo per un futuro economico. Chi riuscirà a parlargli del perché della vita? e come gli si potrà dire, se non in quei “discorsi a tavola” eucaristici, se non li frequentano? Quel distacco che non si è voluto vedere fin dai bambini, di un altrove rispetto al senso che il cristianesimo dà . E forse allora si capirebbe finalmente che servono mascherine religiose, per difendersi da un inquinamento nichilista più diffuso di quanto non ci si è voluti accorgere. Si vive senza senso, non cercando senso, sbeffeggiando chi lo rincorre nelle cose invisibili che pure chiamano. Kerouac , parlando di On the Road, il libro giovane di molti giovani – che forse, sì, dicevano “solo erba, quella beh sì, ma mai sentito altro” come se l’erba fosse l’avemaria di penitenza per un’assoluzione piena – diceva che si trattava del “viaggio di due amici cattolici in cerca di Dio attraverso l’America”. Ora si tratta di chiedersi se ce ne siano almeno due amici-cattolici, che si mettono a cercare Dio. Cercarlo, e insieme, per risvegliare l’umano che prepara l’udito al misticismo che ci abita. Anche così, finalmente non temeremo più quello scisma pratico in atto, di chi polemizza con un cristianesimo dedito a curare la carne dell’uomo, per vivificarne lo spirito. Scisma di nuovi catari: loro, alla pari delle sette e trenta del mattino, li si faccia scegliere tra marciapiedi di barboni, e case occupate dai nostrani sans-papiers, o messe impeccabili  ma celebrate da loro preti che finalmente riconoscano la sponda su cui sono. Dove non ci stanno le donne che osano appena toccare la veste del Signore, o apprezzare metà del mantello di Martino.


dopo

Dunque il covid non ci ha cambiato, non ha cambiato la Chiesa – che si trova nella tentazione di ri-calcinarsi dentro “quel che eravamo” – né nel mondo. Le sceneggiate dell’Europa che ha impiegato settimane per accordarsi sull’indispensabile della propria sopravvivenza politica, nella svolta richiesta dalla pandemia, ha fatto venire a galla, tra gli altri paesi del nord,  l’Olanda, e non per il suo lato bello. Con un’alterigia tutta calvinista, a condannare i cattolici come inconvertibilmente lassi (e magari è un po’ vero); però sostenendo ‘sta cosa da attaccati ai propri tulipani, e alle multinazionali cui danno ospitalità fiscale a spese degli altri paesi del continente: frugali loro? sulla pelle degli altri! Non ci ha cambiato il covid, ma può diventare l’occasione di cambiare. Dispiacendosi, si può condividere l’affermazione di un polemista, che descrive l’essere umano come la più evoluta delle scimmie, ma il più goffo e ridicolo tra gli dei (distanziamento sì o no, quanto, dove, per quanto; e i negazionisti che sono come i terrapiattisti: un meteorite si spera di poca consistenza, ma si sia consapevoli che gli uni e gli altri sono insani). Il che non deve portare alla disperazione. Soprattutto nella Chiesa che è costretta da un virus a interrogarsi sul chi è per questo mondo, un mondo che è ben oltre lei. E dunque a non riaffossarsi dentro tradizioni che non chiamano i “lontani”, e disperdono i “vicini”. È bastato un virus per farsi accorgere di assemblee affollate da chi ci stava solo per il bollino premio-paradiso. E a convincere che le chiese semideserte di queste settimane non rifioriranno più, pur nelle percentuali non vere del pre-covid, dentro cui non si contava al vero, ma non si contava per illudersi. Di una comunità parrocchiale fatta di seimila persone, che frequentassero in tutte le celebrazioni neppure in mille, possibile che non sia stato un avvertimento? Non lo è stato. Perché, se non perché la Parola non è entrata come la Tradizione ridotta alle non disturbanti tradizioni? Quei pur buoni credenti, e i loro preti, che hanno pensato di riempire il vuoto – un vuoto che accettato in pienezza avrebbe finalmente scosso – con celebrazioni televisive, oggi gli è rifilato il conto; e detta così può essere persino provvidenziale pure quell’errore. Ma “la Chiesa di papa Francesco è una Chiesa che chiede di non stare a guardare seduti sul divano, come spesso dice lui. Che capisce la paura di tanti ma dice che per vincerla bisogna aiutare chi ha bisogno, e anche se è diverso da te. È il Vangelo a esigere di non restare indifferenti, a non ammettere classifiche su chi aiutare prima e chi aiutare dopo. È la Chiesa di un Dio che non si accontenta di essere al centro della vita spirituale, ma chiede di essere incontrato nella vita materiale, soprattutto di chi soffre. Non è una Chiesa comoda, certo: è una Chiesa esigente. Ma è la Chiesa del Vangelo”. Lo scrive il cardinale di Bologna, così come lo si è scritto anche da noi, pur da cattedre meno autorevoli. Ma ci si scontra con chi non ci sta, ed i peggiori sono quanti vanno in direzione ostinata e contraria, ma sempre a favore di vento, venti fasulli. Quelli a cui manca di unire al vero il fascino della bellezza, che è poi l’unica maniera di sconfiggere i moralismi, l’unica gamba che sembra sostenerli. Quelli a cui l’esperienza francese – il canto degli organi nelle loro cattedrali ad accompagnare la contemplazione; e quelle liturgie sobriamente solenni e plasticamente illuminate sul mistero e non sui celebranti; e quel “accueil” che bada alla persona in cerca della domanda giusta, quella evangelica – esperienza di decenni ormai, è sempre risultata nemica: eppure il loro ritrovarsi tra pochi, granello di senape che testimonia nella massa, avrebbe potuto essere profetico anche per noi. E invece no: noi si badava ai numeri, alle tante carte che stabiliscono al minimo l’andare e il venire della vita, all’appartenenza istituzionale più che a quella carismatica, scordandosi del detto, dalle congregazioni vaticane ai supporter curiali di periferia, che il cammello è un cavallo disegnato da un comitato. Una Chiesa che finalmente non si scandalizzi (e preti e i diaconi, non ho notizia di vescovi!) perché il papa manda il suo elemosiniere ad aiutare i/le trans. Non è facile; ma non è così difficile capire che il mistero di Dio che si fa uomo è un interrogativo cogente per un cristiano: assunta da Gesù nella sua bellezza e nelle tante fragilità, la carne degli uomini è il prossimo da servire in tutta pienezza.


in-uscita

Mi sto chiedendo da qualche giorno perché me la prendo tanto. Quegli annodati agli ambienti dell’ultraconservatorismo catto-italiota, quei nostalgici della liturgia tridentina con un latino in cui non sanno immergersi, quei prelati frequentatori dei salotti del patriziato nero, da cui attingono le voglie per cotte plissettate . E nessuno pensi che sia invidia da basso clero, smanioso di una rivoluzione che riporti dentro la Chiesa una fraternité indissolubile da égalité. Non che non ce ne sia bisogno: ma a quale pulizia ideologica porterebbe, a quali poltronifici dismessi, a quali vuoti istituzionali – e, certo, a quale crisi economica per negozi d’haute-couture romani con fastose vetrine purpuree? (ma anche no: li frequentano anche tipi del basso clero, che disdegnano negozi del pret-a-porter; e solo per avere un colletto romano, che certifichi la loro fede cattolica e, appunto, romana: di quale romanità potete ben capire). Ma non ce l’hanno un amico? Uno che dica loro quel che gli va detto, uno che li salvi da se stessi? È vero che siamo in un tempo in cui i consigli non sono ben accetti, soprattutto se toccano dentro le viscere, se infastidiscono i gangli di un accomodamento. Ma a che serve un amico se non a disturbarti sulle certezze di cui non vedi le cadute? Il progettista del nuovo manufatto di Genova sostiene che “il ponte unifica senza confondere, è un oggetto di pace”; anche come immagine allegorica con un ponte tutto comincia a risolversi. Un amico come un ponte. Se lo rifiuti? Se preferisci rinserrarti nel tuo baco come rinascerai farfalla? È opera di secoli – duecento anni diceva il cardinal Martini – l’imbozzolarsi della Chiesa in se stessa; e il fastidio di una Chiesa in uscita, richiesta da Francesco papa, ne è direttamente proporzionale per i cultori del bel tempo antico: quello delle processioni dei vestali con i piviali, dei beniamini comandati, del noi vogliam Dio cantato a squarciagola contro i nemici predestinati all’inferno. Quelli di ieri, i comunisti senzadio, a preparare quelli di oggi, gli islamici in primis. Mi sono meravigliato della distanza, 70 milioni di km, da cui è stato fotografato il Sole: sulle stelle non sono mai riuscito a prendere le misure. Ma settanta milioni di kilometri mi fanno pensare alla presunzione di chi vorrebbe avvicinare l’Inavvicinabile, Dio a sé, il Dio di eruzioni laviche e caos calmo, come racconta al meglio l’Antico testamento. Di chi lo vorrebbe faccia a faccia da questa parte della vita: per descriverlo, per fargli dire cose. Una Chiesa in uscita è una Chiesa che si senta finalmente mortale con i mortali cui annuncia la Vita. Ma lì cascano orpelli, lì ci si induce all’essenziale. Lì si gratta l’ultima pellicola per finalmente vedere “ciò che il mondo voleva e vuole: che il cristianesimo sia abolito. Ma scaltro com’è il mondo, ha capito come per istinto che il miglior modo per abolire il cristianesimo è di mantenere un’apparenza che lo sia ancora” (S. Kierkegaard). I chiesastici che vivono per apparire, cerchino, finalmente desiderandolo, un amico.


Silenzio

Qui in certi momenti del giorno, è lo stesso dei recenti mesi primaverili: intonso, corroborante, nel trillo degli uccelli che non si sono allontanati, e nei rumori di pioggia quando non disturbati da motori. Non è lo stesso registrato con angoscia nella pianura e nelle valli del covid. Con il tormento delle sirene a profanarlo, e dei rintocchi di campana a morto che si rincorrevano di campanile in campanile. La storia come lungo cammino di sofferenza, e di grandezza, è qualcosa che suscita perplessità se ci si ritrova in un contesto non aspettato: o per inerzia di uomini o per insipienza. Eppure, e lo ricorda il papa non solo ai credenti ma al mondo, questo è il tempo, di pesare ciò che conta e ciò che non conta, ciò che è prezioso da ciò che distrugge. In molti stanno disertando chiese, ma anche ambulatori. Leccarsi le ferite è umano, interrogarsi è umano. La salute certo, ma quella totale. E certe incertezze di medici di base lasciati a se stessi; e certi pannicelli chiesastici inventati per tener stretta una comunità che non poteva esserlo comunque? Provvedimenti inadeguati alla gravità di una situazione, palliativi che non hanno prodotto risultati; o almeno non nella misura illusoria con cui sono stati messi in atto. E i preti che non si sono piegati? che hanno preferito il silenzio che interroga a riti televisivi senza anima? Tacciati di pigrizia! Eppure si sono messi davanti a Dio come non gli era forse mai capitato; e seguendo semplicemente il Vangelo dove chiede di tirarti fuori, nel chiuso della tua stanza per incontrarLo. Così come nel chiuso delle case meglio avrebbero sentito il bisogno del Signore, se fosse del tutto calato il sipario su riti troppo meccanicamente frequentati fino a quel momento. Certo il dominicum; ma vero: o meglio il nulla. Trovarsi insomma d’accordo con il dato antico, che attribuisce alla natura il non spreco di energie in ciò che si può ottenere facendo meno. Fare meno per fare meglio? Non è questo anche per la Chiesa un tempo non rimandabile di potatura? Dove il Vangelo non dice, fare silenzio: abbandonare  labirinti morali, o murate teologiche che ampliano solo catechismi, ma inaridiscono il vento dello Spirito. Sine glossa, sine glossa gridava per le piane di Assisi il Poverello. È il momento di ritrovare comunque l’entusiasmo. Assumendo la prospettiva delle persone che soffrono: quelle che nel loro silenzio non trovano risposte; e quelle che le hanno mettendosi in ascolto docile. E certo occorre uno sguardo nuovo alle nostre radici. Uscendo dai paludamenti mentali e d’apparato che frenano. Lo si dice, lo si scrive: ma non s’arriva a convincersi che nel medioevo c’era molta più partecipazione – vescovi preti e diaconi erano scelti dal popolo; e le “fraterie” domenicane francescane e dei serviti nascono per un servizio evangelico alle povertà del tempo, in correzione del potere non più praticato come servizio. C’è una forte resistenza, oggi, soprattutto nei seguaci di quel barocchismo che vede nell’opulenza chiesastica lo specchietto d’allodole: non se lo direbbero mai, perché non sanno: ma qualcuno che li metta di fronte a sé? come pericolo per la salvezza che Chiesa annuncia? chi glielo racconta, con pazienza ma con parresia, che la Chiesa di Cristo non è una organizzazione speculare alle potenze del mondo? che può non aver bisogno di corpi diplomatici – un esempio per tutti, e sono tanti da riguardare. Per non illuderci più di “rimanere sani in una Chiesa malata”. Questo l’entusiasmo vero: Dio dentro.