Stiamo abbandonando il mese dei morti; o dei viventi, secondo la fede cristiana. Un mese che aggiunto a tutti gli altri di una vita sono anticamera di quel che aspetta ciascuno: paradiso o inferno? Categorie obsolete per molti, del tutto inafferrabili per altri. Eppure sono lì a presiedere il perché dell’esistenza umana: creati per il nulla, o da Qualcuno che chiama a sé? È così improponibile a un minimo di senso che la vita finisca nella morte! Eppure il gran velo che copre le attese degli uomini non viene strappato da una cogente intuizione: e per i molti adulti che si dicono insignificanti per la loro sete di vita – perfino il sole dell’orizzonte tramonta per rinascere, e non certo secondo cifre del socialismo partitico; ed anche per i tanti della nuove generazioni che vivono nella più assoluta assenza dell’idea di un Creatore, e dunque di un fine. In tutto questo, la Chiesa oggi è chiamata a muoversi: e lo sta facendo con la difficoltà del non sapersi scrollare di dosso secoli di irrigidimento ideologico. Perché sì: i secoli dei dogmi, delle verità ritenute intoccabili, hanno ingessato quello scoprire il Creatore nelle creature, con la faccia sempre nuova di Lui che si disvela in continuità. Gli esempi recenti innegabili? Le reazioni all’enciclica Amoris laetitia – o meglio a una piccola nota a piè di testo; o il rigurgito per l’ultimo Sinodo, che si interrogava sulla necessità di una eucarestia celebrata finalmente al di fuori di concezioni di impurità rituali, di cui da più di un millennio si è sospettato il matrimonio. L’essersi lasciati imbrancare in una religione – una serie di regole nel modo che così il Nazzareno non voleva – e non aver accettato il rischio di una fede assoluta: di un vivere cioè in ciascun giorno, evangelicamente, a quell’affidarsi che compone una vita buona, misurandosi nelle personali fragilità, ma insieme riscoprendo in sé giorno dopo giorno la ricchezza di cui siamo stati investiti dalla somiglianza con Dio. I lampi improvvisi dell’anima? La propria e l’altrui? Quelli che vengono in solitudine o forse seduto con un amico – come narra un verso di Spoon River, l’antologia del cimiteriale universo novembrino – quei lampi improvvisi dell’anima non possono non succedere a chiunque, prima o poi, ateo o agnostico che si dica, purché uomo. E dunque l’afflato del mistero, che susciti la fame di una vita che non può rinchiudersi negli anni brevi e poveri dell’esistenza terrena: brevi per quanto lunghi e poveri per quanto felici. A ciascuno deve succedere. Distratti non si sono avvertiti? La Chiesa oggi è lì a scomodare, opportune et importune: questo il suo compito. Ma è credibile se non si presenta arroccata, ma libera della libertà evangelica: guardate i gigli dei campi e gli uccelli che volano in cielo, guardate alla loro bellezza e insieme avvedetevi della loro precarietà. Ma come richiamare alla precarietà della vita terrena, se prima non si predica la precarietà della Chiesa stessa di fronte al Regno? La precarietà di verità fondate sul tempo – che scorre; su storie che si capovolgono; su ricchezze e debolezze che si trasmutano nel loro contrario. Questa è la Chiesa che il mondo esige: non predica sé ma il Creatore di ogni cosa, che non è l’imperturbabile burattinaio, ma l’amoroso che aspetta.