Non vi sembri ridondante  l’aggettivo che uso per il viaggio di qualche anno fa in Russia: indimenticabile. Una compagnia azzeccata – dato che per un viaggio ti occorrono compagni capaci dello stesso sguardo, che è poi di quell’uguaglianza dissimile che fa ricchezza. Una terra piena di storia e di arte, e piena di contraddizioni. Un popolo ateo – per definizione ereditata dal soviet che ha preceduto la Russia di oggi: capi del kgb che vedi accendere candeline nella penombra di chiese intrise di canti e di inchini, di donne velate e monaci tronfi. E chiese ricostruite dopo una rivoluzione che le aveva o distrutte nelle città o ridotte a magazzini dei kolchoz. E la cattedrale del Cristo Salvatore, segno di una storia incredibile? Costruita alla fine dell’ottocento; incendiata negli anni trenta del novecento; interrotta dalla guerra l’intenzione di Stalin di sostituirla con il grattacielo più alto del mondo; negli anni cinquanta trasformata nel suo perimetro liberato dai detriti, nella più grande piscina del mondo all’aperto e pure con acqua calda: è alla fine ricostruita nel duemila. Tale e quale: con i suoi marmi bianchi, le cupole dorate, e una superba iconostasi. Tale e quale, ma senti che manca qualcosa. Manca la patina del tempo, delle celebrazioni interrotte, manca delle invocazioni e dei ringraziamenti sfumati nel fuoco che ha distrutto quella vera. Perché, ed è difficile da scrivere, questa Cattedrale resterà sempre un falso: un falso d’autore, certo, ma un falso. Eppure qualcosa chiamato a diventare vero: non per gli occhi dei turisti, ma per la frequentazione continuata di quell’ortodossia che chiama al mistero. Quel ridiventare vero che è urgenza anche per i nostri dintorni: quelli cattolici, di una Chiesa che esce con le ossa rotte – dei suoi uomini e delle sue donne, e non certo del Cristo fondamento del suo essere – da un periodaccio di vacche magre: e ciascuno può mettere un suo titolo a questi due ultimi decenni. Una crisi che tocca il basso e l’alto, e non certo secondo categorie di merito, ma per chiamate di responsabilità. Una crisi che merita più di un maquillage: le rughe, ogni ventiquattrore – e ce lo ricorda una pubblicità che si presenta per il suo contrario – si ripresentano. Qualcosa di più del maquillage di chi nasconde l’indifferenza per la fede nel voltarsi verso devozioni che non tendono alla sostanza evangelica: e infatti molti si danno per tristi con gli emigranti alle porte, con la sopravvivenza degli zingari, o con l’evidenza di diversità nel tessuto personale o familiare che sta cambiando il volto del mondo. Ma: non è che si sia usciti davvero e del tutto da un tempaccio della Chiesa. Così fosse, si sarebbe già imboccata una nuova verità evangelizzatrice. Non ci si può illudere di una apparente bonaccia, favorita da quegli strumenti di distrazione di massa che sono i social: ogni giorno a chiamarti su eventi diversi. Se una barca resta in mezzo al mare, si sta contenti perché il sole si alza al mattino e tramonta la sera, e i viveri ci sono? Ma fino a quando? fino a quando potremo avere la grazia di una parola che sminuzza il Vangelo perché ce ne possiamo nutrire? Dalle rovine delle chiese distrutte, un crocefisso senza braccia è stato l’ultimo incontro del viaggio: conservato, e tramandato. Per una speranza mai distrutta di una resurrezione. Che è poi la speranza della resurrezione di questa nostra cattolicità, che se esce ferita, è per evangelizzare a partire da una miserabilità umana riconosciuta e da una Salvezza altra.