Montagne innevate, e il Brembo tornato ad essere quel torrente glabro dopo le tante piogge: così percorrendo la circonvallazione, e lasciando che sia l’auto a guidarti. E pensieri che si intessono, intrecciandosi, tra ciò che di alto ci è dato e quanto di terreno ci umilia. Predicazioni di secoli gettate al vento fragoroso eppure inconsistente degli anni che viviamo? A sopraffare quello dello Spirito, vento che soffia tenace nelle vite dei credenti? Impossibile secondo la teologia; e invece è qui, nella indifferenza dell’alto – neve sulle montagne che non richiamano: è mai possibile? – e nell’abitudine al mediocre del basso, che come torrente neppure scorre, ma fluisce a poco a poco senza fremiti. Un Vangelo negato dalla quotidianità sterile di chi vive senza proiezioni universali. Sì, c’è l’irruenza della tempesta a far tracimare persino il piccolo: ma è ancor più segno della fragilità in cui viviamo questi giorni. Rinchiusi in ghetti che ci costruiamo attorno, la pena che da qualche anno affligge i mercati nutrizionali, e subito ricordate le etichette: prodotto in Italia come il non plus ultra, e non alla faccia del km zero, ma nella improntitudine di chi si sente il migliore. Essere unici dissidenti in una comunità ristretta in cui il verbo nazionalista sembra essersi diffuso come un morbo: questo il compito del momento. Riservato a pochi? Perché no? Percorrere la strada di una solitudine che germina, di una promessa mantenuta contro la tentazione di vivere il poco come se fosse il tutto. Ci si interroga oggi sulla solitudine: solitudine affettiva e sociale, ma non si scava nelle radici. E dunque la si lascia intatta fino a costringerla a un isolamento da sé. Non si scava fino a trovarle il senso perduto, quanto conduce alla fame e alla sete di eterno che chiama, ed esalta. Quando qualcuno ti appoggia addosso un sorriso, ti sta chiamando fuori da te: ti dice che la relazione ti è indispensabile, che ogni umana relazione si nutre di ben altro di quanto vedi e tocchi. L’assoluto della fede che è poi l’avvedutezza dell’insicurezza: il tentare di vivere nelle sicurezze dei recinti è la negazione di Dio, che è l’infinito di cui pure siamo impastati. Vedete: un prete non ha figli che prendano il posto dei genitori quando vengono a mancare. Una solitudine che molti non reggono, perché non si proiettano in quella generatività che sta oltre il dato biologico; e perché non si lasciano deporre addosso quel sorriso della vita, che ha radici ben oltre la terrestrità. Trovare parole che riescono a mettere insieme l’amore e la fedeltà; a dominare l’emozione viscerale che si sente di fronte al dolore del prossimo o all’abbattimento incontenibile per la persona che si è perduta, non potuta trattenere dal nostro amore. Sentimenti che irrorano la solitudine, che la rendono feconda anche per ciò da cui non riusciamo ad essere capacitati. L’assoluto della fede è accettare di essere chiamati fuori, pur nella incertezza di passi che segnano tuttavia un cammino. Verso l’Oltre, verso Lui, il Signore che viene.