Lo si sapeva, ma si è fatto come se fosse un’ipotesi del terzo tipo: irreale. E invece. Anche da lì fu facile profezia che si sarebbe usciti un po’ più stupidi e un po’ più cattivi. È qui da vedere. Stupidi? Per un verso e per l’altro. Di quelli delle movide, che sbracano  accavallandosi nelle piazze a protestare contro le chiusure, e intanto distruggendo ristoranti: ma sono i loro, o non sono loro i ristoratori scesi in piazza? Ma c’è anche stupidità in chi chiude a occhi chiusi: di chi chiude ristoranti, bar, palestre, cinema, luoghi che pure si sono organizzati, prendendo sul serio la minaccia della seconda ondata. Avrebbero costituito una tentazione, dicono; e occorre ammettere che, visto ciò che gira, davvero potrebbe essere una fiducia mal riposta: nei clienti, non nei datori dei servizi. E combattere le disuguaglianze, il tema aggravatosi da come già era prima del covid? Lamentele del mondo del calcio per non poter pagare gli stipendi (al milanista o allo juventino da milioni, o a quello che gioca per qualche decina di migliaia di euro, giusto per provvedere al futuro non calcistico?) No, dico, non sarebbe l’occasione per ricomporre equilibri che non gridino vendetta al cospetto di insegnanti o di infermieri? Cattivi al punto di portare in tribunale i medici: per incapacità a fare i conti con la morte, ci si instrada sui sentieri dei risarcimenti, e non crediate che siano morali: cattivi al punto di barattare la memoria dei loro cari con mammona. Altro che tempo degli eroi, o di ballate sui ballatoi di casa. Così come fu facile prevedere che la chiusura dei campi estivi oratoriani avrebbe diffuso la microcriminalità:adolescenti lasciati a se stessi sulle strade di un’estate impropria, a doversi inventare lo spazio per esserci, dentro la frantumazione di certezze. Cattivi e stupidi insieme quei tifosi atalantini che prendono a sassate i pullman degli avversari: non è che senza un avversario non ci sarebbe partita e neppure la loro squadra? – ma non perdere tempo a spiegarglielo, non ci arrivano. L’apice di ogni epoca è stata segnata da una peste o da una guerra devastante, dagli Egizi in poi, che se ne abbia memoria biblica o altra. Ci siamo? E dopo? Quale umanità, di robot fatti uomini o di uomini fatti robot? Dove la semantica degli uni si scambia con la sintassi degli altri? E dove dunque verrebbe a mancare quel bene essenziale che è sapere il perché dell’umano. Stupidità e cattiveria da covid ci devono allarmare: per accorgerci che stiamo perdendo l’essenziale. Leggo e riporto: uno studente, anni fa, chiese all’antropologa Margaret Mead quale fosse, secondo lei, il primo segno di civiltà in una cultura, aspettandosi che Mead parlasse di ami, pentole di terracotta o macine di pietra. Ma non fu così. Mead disse che il primo segno di civiltà in una cultura antica era un femore rotto e poi guarito. Spiegò che nel regno animale, se ti rompi una gamba, muori: non puoi scappare dal pericolo, andare al fiume a bere qualcosa, o cercare cibo; sei carne per predatori che si aggirano intorno a te; nessun animale sopravvive a una gamba rotta. Un femore rotto che è guarito è la prova che qualcuno si è preso il tempo di stare con colui che è caduto, ne ha bendato la ferita, lo ha portato in un luogo sicuro e lo ha aiutato a riprendersi. La morale di sempre, covid o non covid, è semplice: noi siamo al nostro meglio quando ci prendiamo cura gli uni degli altri. Come Martino di Tours. Da uomini, prima ancora che da cristiani.