Christmas  . 2

Il 23 dicembre dell’anno scorso, scrivevo così. Vale per questo Natale 2021: non c’è da aggiungere nulla all’augurio di un Natale santo, in giorni rioccupati dalla preoccupazione di questa pandemia che non cessa. Così come non cessa il nostro tentare una normalità che non è più la stessa, non  può più esserlo. Anche solo per quei segnali di totale uniformità che traducono le feste natalizie in “feste stagionali” come subito ha raccolto il diktat europeo la manchette arlecchina di Google. Per includere a tutti i costi, neghiamo le diversità che fanno l’unità! Fosse il Natale giusto per dire sopra i tetti che il Figlio di Dio è venuto tra noi, che lo credano o no i tutti del mondo. (23 dicembre 2021)

 Christmas  . 2 – Il bisesto funesto sta per finire: solo per chi crede che il tempo non sia tutto attaccato; e dunque c’è il pericolo, per loro, che rimangano delusi – ché le guerre continuano, i virus non smettono, e la stupidità continua a generare umani.
Chi non crede che un giorno in più sul calendario porti o tolga disgrazie, non si illude: sa che a meno delle grandi oscillazioni della storia si va dall’oggi al domani portandosi nella bisaccia della vita buon grano e loglio. Preparati alla vita, che è alti e bassi, bellezze che danno valore anche alle deficienze, questo il compito di ogni giorno.
Non sarà mai detto a sufficienza dell’avvicinamento spurio a questo natale, per la domanda asmatica che ha percorso la penisola – che natale sarà? – con il natale tutto minuscolo per come la domanda lo intendeva.
Non certo il Natale di Cristo: tant’è che festeggiano anche in culture che nulla hanno a che fare, almeno intenzionalmente, con la storia incominciata a Betlemme. Il bello è che potrebbe essere il Natale gusto, autentico, e proprio come frutto del covid: porterà nelle chiese chi vuole risentire la notizia del salvatore che ci è stato dato. E perciò a uno come me – che (lockdown per tutti) degli anglicismi esasperati con cui si è inquinata la nostra lingua si è più volte mostrato insofferente – è dato un augurio vero, per definire al meglio quel natale così generico da includere invece della capanna betlemitica i vari Orio così magnificamente frequentati nonostante i colorati lockdown di cui pure ci sentiamo afflitti.
Non più buon natale ma Merry Christmas. Che nella sua accezione dice la verità di questi giorni: gioiosa celebrazione di Cristo. Anzi, noi potremmo augurarci un Holy Christmas, una santa celebrazione di Cristo.
Ringraziando per una volta quelle fasce anglosassoni che ci riportano al centro, mettendoci in riga. Se ce lo diciamo così, prende finalmente sapore quel celebrare la notte e il giorno, la luce che ci è data nel piccolo figlio di Maria, cui diede il proprio casato Giuseppe, in quel suo gesto di disobbedienza alla legge: e per amore.
Per tutti voi, fedeli di queste righe, il mio più cordiale Holy Christmas. E che sia anche gioioso
dal sito: www.santegidioinfontanella.it


stagnazioni

Scrivevo, qualche tempo fa, che da qui vedevo troppe pianete, quella veste liturgica a mo’ di fisarmonica, così ridottasi dall’antica casula, poi riscoperta dagli anni sessanta – riscoperta nelle parrocchie, perché un liturgo come il vescovo Bernareggi già le aveva commissionate fin dagli anni trenta del secolo scorso per il nuovo seminario di Clusone. E mi chiedevo  se fossero i sacristi che vogliono rinfrescare i cassetti o è il revival di preti, uomini inespressi? Per avere come risposta il ma sì non è lì, c’è ben altro. Quel benaltrismo, così di moda in chi s’acceca da sé di fronte alla complessità, che non permette di guardare in faccia i problemi. Certo che non è tutto lì. Ma gli indizi ci sono tutti, per accorgersi ad esempio che il covid non è stato assunto nella sua grazia, quella di far accorgere che questa santa chiesa del Signore si era da tempo arenata. Il vecchio papa Giovanni, storico di buon intuito, disse che la chiesa non poteva limitarsi ad essere un museo del passato, ma doveva aprirsi al vento nuovo della “novella Pentecoste”. Lo disse in tempi non sospetti, con una chiesa non del tutto ancora spiaggiata, e tuttavia già con sintomi pericolosi. (E non dite che comunque la chiesa non può essere come una balena spiaggiata mai, dato che lo Spirito terrà comunque perché gli inferi non prevalgano! Lo so: ma nell’esemplarità al mondo del Vangelo di cui è stata investita, che ne dite?). E sintomi di museo non stanno solo nel ripescare da armadi polverosi il prezioso e inutile di un tempo, ma anche nel fissarsi in modelli di pensiero che non si piegano all’uomo che diviene. I vescovi americani stoppati dal papa mentre stavano, in questo autunno, sul tema dell’aborto, schierandosi con l’ipocrisia trumpiana, nel proporre la negazione della Comunione: dover mettere a posto i vescovi quando toppano in modo clamoroso confondendo pratiche politiche con pratiche religiose! s’è visto mai? O i grandi lai – e parzialmente ragionevoli – di chi dall’Europa si vede imporre non solo la misura delle banane, ma anche il bon ton che sembra eliminare dal vocabolario il natale (in piccolo: per quegli auguri e regali che non è il Natale del Signore, già eliminato nella gran parte degli europei, cristiani di varie confessioni: per gli altri, i laicisti, sarebbe bastato ricordare che a forza di includere si esclude!). E ora di fronte al tema italiano dell’accompagnamento al fine-vita che succederà? schierati per ideologia sui principi o chini sulla sofferenza umana, sul limite dell’uomo? Pasolini ha scritto allora per ora: l’anima se non cresce si accartoccia. Se non si apre, se non respira l’aria del tempo – seppure  inquinata – non vive. E finisce in quel cancel cultureche diventa la moderna forma di ostracismo di quanto non piace, pur essendo indispensabile. Quel prete, Mennon, e la sua idea radicale ancor prima di Lutero: occorre un ritorno alle origini. Si è tentato anche nei nostri giorni di interrogarsi se secoli di teologia e di lotta per il potere non abbiano allontanato dalla parola originale dei vangeli. Ma si è subito sospettati di disfattismo. Appunto: saldi sulla roccia; peccato che sia friabile non essendo di Cristo. Ci si sta dando battaglia nel cortile cattolico così come lo si fa su un ring qualsiasi. È sotto gli occhi del mondo intero questo nuovo stile che non ha nulla del dialogo e del discernimento sulle cose antiche e nuove, con un’impressionante quantità di odio e di livore presente in tanti che pure si dicono credenti. Peccato non aver lasciato un vuoto celebrativo durante la prima ondata del covid: l’ho scritto e detto già più volte e dappertutto, ma è per me un mantra obbligato. Avrebbe reso manifesto quello che il cuore dell’uomo cerca a partire dal proprio profondo. E avrebbe da sé risistemato le priorità cattoliche, obbligando vescovi preti e frati (e radio-marie) a lasciarsi perdere nell’oceano del Signore uscendo dalle proprie stagnazioni.


impreparati

Ce lo stanno dicendo da decenni che questo nostro pianeta è in pericolo. Il riscaldamento globale lo si prevede in gradi di calore che vanno dal minimo ancora per un po’ sostenibile a un massimo che erutterà le acque con una marea silenziosa ma devastante:  tsunami che ricoprirà senza sradicare. Ora si scende in piazza, ordinati come non sono quegli sciocchi del no green pass; e si chiede quello che i grandi non sanno concedere. O non possono o non vogliono, immersi in quel botolo del presente che sradica ogni speranza di un buon futuro. Invertire la rotta? Ma come si fa, se ci si è costruiti in esigenze irrinunciabili. “Meno è meglio”? Se lo dici dopo una camminata in montagna, il passo greve e greve il respiro, ma nella percezione gioiosa dell’anima che solitamente non vivi, con molta probabilità sei sincero. Ma per quanto? Meno è meno: meno shopping, meno vestiti, meno scarpe, meno abbuffate, meno frutta e verdura fuori stagione, meno … Impreparati! Siamo impreparati a una consapevolezza che sfondi l’abitudinario del benessere, di quello star bene che si nutre di superfluo. Fino a che si riverseranno sulle nostre quotidianità, e non in barconi da centinaia, ma in migrazioni da migliaia e migliaia quanti saranno tempestati da carestie insostenibili. Mentre scrivo ‘ste cose, e lo confesso, sento tutta la distanza da questo scenario. Impreparati persino al probabile prevedibile? Ormai ristretti in una bolla di appagamento ritenuto essenziale, è un futuribile senza sponda ragionevole: sì, vabbé, non esagerare. Me lo dico: e sento che è la misura dell’impreparazione al cambiamento. Ed è male comune: e non per scusare sé, ma per avvertire che nella transizione richiesta non si è solidali, eppure se ne esce solo insieme o non si rimedia. E benedetta la pandemia nella sua malefica presenza. Detto così può sembrare una bestemmia verso l’umanità. E lo è, se non che in ogni male c’è una grazia, pur che la si sappia cogliere. L’ affanno del dopo: chiese da ripopolare, catechesi da ricominciare, oratori da riabitare. Un fiatone al limite della tachicardia ecclesiastica. Preti e vescovi che non so quanto si rendano conto che sono impreparati a questo dopo. Che per la verità era già un prima, ma grazia della pandemia a renderlo di una evidenza innegabile. Impreparati a un mondo senza Dio, impreparati al come annunciarlo. Se la preoccupazione è riprendere dal dove eravamo rimasti, quale delusione! Un Papa che chiama alla sinodalità, a quel camminare insieme che è intriso di parole scambiate, di ascolti che cambiano i propri pensieri, di verità che si illuminano diversamente per una preoccupazione non solo sul cosa ma sul come – che è la vita, e quella prigionia inconscia che trattiene oggi i battezzati in sentire secondo il mondo – se Francesco chiama a questo e poi senti che “insomma, l’abbiamo sempre fatto” allora tu sai con certezza che a questa svolta della storia cristiana siamo impreparati. Non voglio dirlo in maniera apodittica, poiché so che nulla è inconfutabile: ma la sensazione è questa. Impreparati oggi a dire il Vangelo a orecchie che possano intenderlo: parliamo in turco, a gente che sproloquia quando le si chiede una qualche preghiera in italiano. Perseveriamo in devozioni, quando serve toccare l’essenziale. Forse, oggi e per un po’, basterebbe l’Eucarestia domenicale, e niente più. Per abbeverarsi al meglio dato alla Chiesa.


insieme, ma chi?

Nell’indice di argomenti che mi girano per la testa, a seconda dei giorni delle letture e soprattutto degli incontri, ci sta questo e altro: vogliono certi cattolici uno stato confessionale, né più né meno di uno sharia islamica? e dunque quello che dicono di voler combattere? Con tutti i corollari su cui fanno silenzio, approvando: una critica serrata – al richiamo all’ordine di Francesco papa sulle cosiddette messe in latino, che di fatto sono messe anticonciliari; una radiomaria polacca che incita all’antisemitismo, e fa da bordone al nazionalismo di marca neofascista dei loro governanti; le amicizie di certi politici italiani, da quei cattolici votati a piene mani (si macchiassero di nero in certe celebrazioni religiose, le chiese saprebbero di che pasta è fatta l’inno di lode al Creatore!) con le nefandezze di Putin e/o di Trump; insomma, non è solo (ahimè) la comunione da negare, che sembra essere l’argomento principe del vescovado statunitense, a dire in quale dirupo stiamo sprofondando. E poi temete un bello scisma? Lo scongiura papa Francesco, e certamente alla fin fine ha ragione lui, e non io. Però, della serie che nella chiesa del Signore è accettabile credenti diversamente cattolici, dico sommessamente e rispettosamente al papa, fino a che punto? Lo spirito di appartenenza, il rispetto, la lealtà e, perché no?, il senso del dovere, se non li abita, perché coerentemente non si decidono per altrove? Per ignoranza. Questo mi dice un amico di vecchia data, che sta sulla soglia: ancora eucaristico, ma tentato di andarsene da un apparato che contiene tutto e il contrario di tutto. Che è di chi prega secondo quanto crede senza glosse tradizionaliste, e di chi prega secondo quanto gli piace della religione. Ignoranza dei termini. Ignoranza del Vangelo. Stiamo lavorando male, mi son permesso di dire in una recente assemblea con il Vescovo. Ottenendo una risposta di assordante silenzio. Un gregge diminuito dal Covid, o dai decenni in cui si son chiuse le finestre al Vento del Vaticano secondo? Chiuse allo Spirito che chiamava altrove rispetto a un rassicurante sé ecclesiastico. Generare aspettative è generare illusioni: così si sono difesi i rinserrati, non accorgendosi che non più l’una fuori, ma le novantanove fuori con l’una sola dentro a soffrire di un vuoto ecclesiale. Una Chiesa imbellettata, non potata , se non con uno spulcio superficiale. Così che Dio si è assentato dalla vita dei novantanove: non osteggiato, sparito. E dunque ancora battesimi e prime comunioni e cresime come atti socializzanti, che non producono appartenenza di fede, la compagnia del Signore Gesù. E certo: dico novantanove e so del piccolo resto che non è solo di uno. Per grazia di Dio. Ma sostenere la battaglia dei mille contro i diecimila, concorderete che non viene bene. Pure se fatto con i piedi, una volta, il vino era buono. Vero. Ma i tempi che viviamo non possono solo essere smartphone, facebook e twitter: anzi lo streaming ha prodotto un disastro in tempi di covid, convincendo i molti che una messa lì è la Messa (e questo solo perché si è voluti essere presenti ad ogni costo, come se gli atti religiosi fossero irrinunciabili per la fede: un errore, scusabile, ma accorgersi finalmente che è stato un grande sbaglio!). La Chiesa è compagnia nel prendersi cura non solo della carità delle mense, ma dell’amore che incammina gagliardi e deboli sulle strade della vita. La buona sinodalità – è questo il tempo – è assenza  di paura di un’analisi dura del dove stiamo sbagliando, per restituire in grazia il molto, o il poco, che si ascolta.


terrapiattisti

Qualche prete è afflitto dal dubbio cartesiano. (perché qualche prete? magari anche un qualche diacono tuo, e parecchi che diconsi cristiani). Il dubbio che dietro le magnifiche sorti e progressive del vaccino ci siano gli interessi farmaceutici, o l’asservimento dei popoli a una nuova dittatura sanitaria, o … insomma quelle fandonie per le quali è inutile qualsiasi tentativo di liberare i tuoi interlocutori. A chi appunto gli chiedeva in materia di  assumere il dubbio a giustificazione di chi si rifiuta di appartenere alla massa credulona, la risposta di un polemista è stata questa: Non a Cartesio lei si ispira, ma ai ben più grandi filosofi Mario Giordano, Paragone, Porro, Meluzzi, e compagnia danzante della Quattro – intesa come televisione. Immaginare che sia lo stesso gregge prono ogni sera a recitare il rito dell’opposizione a qualsivoglia iniziativa degli avversari; immaginare che sia lo stesso gregge delle liturgie domenicali può risultare blasfemo. Non dico una serrata catechesi sul come dell’essere cittadini – antico come la lettera a Diogneto – ma una qualche lezione sul patto sociale di Rousseau? Inutile. Fatico a scriverlo perché è poco ascetico, dell’ascesi della pazienza. Ma è così. Uscirne bene dalla pandemia? Ecco qua quel brutti e cattivi che si sperava fosse solo un indizio sbagliato, quando dopo la breve era dei medici eroi, ci si è buttati in tribunale a denunciare per guadagnare sui propri morti. E invece – e non solo certo per il vaccino – ci sta dicendo che non ne stiamo uscendo bene. E non scrivo per pessimismo; ma per avvertirci a tempo di frenare lo scivolamento. Non accomunerò questi terrapiattisti del vaccino a quei santi nuovi parroci che si stanno affacciando alle comunità loro assegnate. Come sanno in tanti, la liturgia è disegnata da edifici e da vesti a dire che come si prega anche si crede. Chi entra nella nostra chiesa abbaziale, nel percorrere il pavimento di pietra sotto cui giace per sempre chi ci ha preceduto ricorda l’effimero della vita; e riscopre nella nudità delle pareti il segno della sobrietà che sola può celebrare al meglio il Signore. Non con ori e argenti, non con frange e con gioielli. Perciò vedere dalle cronache fotografiche molti di quei nuovi santi parroci rivestiti di pianete  – quella veste a forma di chitarra, resa rigida dai ricami certamente preziosi – e non dal semplice mantello a casula (anche se anch’esse, appese sulle spalle dei celebranti, ormai fluttuano tra le stoffe di lusso); e a corredo camici con pizzi orlati di rosso come è previsto per i prelati che loro non sono: vederli e chiedersi il perché di questo voltarsi indietro è tutt’uno per uno spirito minimamente critico. Cose da sacrestani che vogliono far prendere aria alle cassettiere? o è il surrogato di uomini insicuri? Non sarà che Dio ormai assente dal mondo, si assenta visivamente persino da chi ne dovrebbe pronunciare il Nome? In nome di un sé irresoluto, solo il donarsi senza dubbi cartesiani riduttivi può condurre a un annuncio non privato della sua origine. Terrapiattisti della liturgia (dalle pianete si passa facilmente a una teatralità del celebrare che trova spazio in forme e gesti di rubriche superate dalla riforma) e da lì “una ideologia che colonizza le menti e fa tornare al passato per cercare sicurezza”. Contro i suoi denigratori (quelli che si devono essere trovati in qualche Hilton a cinque stelle – così si usa a Roma – per preparare il nuovo conclave che rimetta le cose a posto, lui promosso anzitempo a defunto) Francesco papa ha affermato che la sua non è lode all’imprudenza, ma ”andare avanti nel discernimento e nell’obbedienza, perché tornare indietro non è la strada giusta”. Sapeste quanto nella Chiesa, e da quei terrapiattisti del Vangelo, è partita l’accusa di imprudenza per bloccare ogni iniziativa che conducesse fuori dal recinto le novantanove! Perché sì, una si è persa, ma le altre sono invecchiate senza darsi all’ebbrezza di nuovi pascoli. Che è poi la differenza tra una fede fondata sulla morale e quella vissuta nella libertà che il Figlio ha consegnato come promessa e Regno.   4 ottobre 2021, nella festa di Francesco d’Assisi


ricordare

Quelle torri incendiate l’11 settembre di ormai vent’anni fa. Eppure sembra ieri, come molte delle cose che ti si piantano dentro, rispetto ad altre che si perdono ma non del tutto: a volte basta un inciampo buono o meno buono, e riemergono. Ma quelle che ti fanno ricordare il dove il quando e il con chi rimangono per sempre, senilità futura permettendo il per sempre (che poi, chissà, se pure spersi, non si sarà accompagnati da queste trafitture indelebili!). Dunque quell’11 ero sulla bellissima spiaggia di Biarritz, sotto un sole del tutto ancora estivo, con l’Oceano Atlantico a separarci dall’altro mondo del pianeta. E proprio di fronte a quelle torri, pur con qualche spanna di distanza che certo impediva di vedere. E tuttavia davanti. Primo pomeriggio, in quasi consonanza con quella penetrazione come di coltello nel burro. Non vedere ma sapere, quasi in anteprima, rispetto alla diffusione mondiale: a New York c’è la figlia di una coppia viaggiante con noi  (non l’ho detto: parrocchiani di Santa Lucia nel viaggio – non pellegrinaggio, anche se sempre una tappa è anche religiosa, ma viaggio: di cultura di convivenza di contemplazione dell’ altro che il mondo è – una proposta ogni due anni del vissuto comunitario). Una telefonata, e lo sbigottimento prende tutto il gruppo, e si traduce in una corsa al pullman per seguire sulla televisione di bordo. I sentimenti di allora miei non saprei descriverli al meglio, se non per uno smarrimento dentro la bellezza, non più di un imprevisto dentro giorni di pace. E dall’altra parte, davanti a noi, fuoco e macerie, e morti, tanti. L’imprevisto della vita che ti coglie nel pieno di giorni che non immagini poter essere diversi da come li vivi. Il mistero della vita è questo? La vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda, e come la si ricorda per raccontarla, ha scritto Garcia Màrquez. È per questo che quando si ricorda quell’avvenimento, non lo descrivo, come è, con terroristi fanatici che si buttano a morte, o con mandanti che festeggiano a spari di kalashnikov. È quella cosa che non ha scomposto la bellezza, data per me la dominante di quel momento. Quanto di tutto il resto della mia vita non è stato come lo racconto? a me stesso ancor prima che agli altri? quanto infioretto? ma quanto appesantiscono? Domande da ritiro spirituale, come no. Ma domande di vita. Da lì discendono giudizi e pregiudizi che segnano l’esistenza. Da lì nostalgie e desideri incolti. Da lì peccati e meraviglie. Chi prima chi dopo, gli riemergono cose che compongono un bilancio, quella somma algebrica che racconta i sì e i no, errori e centrature. Con l’avvertenza che ci si deve ripetere: non tutto è come lo si ricorda. E dunque assolvendosi o compiacendosi, sempre con riserva: è nel gran libro di Dio che sono scritte le cose come stanno, e non come si pensa che siano state. Che è stupendo se solo si pensa che persino ciò di cui adesso, nel ricordo, non ci si sente fieri, davanti a Dio è stata un’opzione lodevole. Perché la morale di Dio non coincide con quella delle Chiese di qualunque confessione. Il che lo si dovrebbe ricordare di più. E non per relativizzare le indicazioni ascetiche, ma per collocarle nell’Assoluto: il che fa loro perdere le penne inutili. 10 settembre ’21, anniversario della morte di mia mamma a cui non avrò mai dedicato a sufficienza la mia riconoscenza     


Al giro di boa

Al giro di boa dell’estate, con il proverbio che sembra mantenere – in un tempo di metereologi da telefonino – una sua validità, quando parla del bosco rinfrescato, e dunque di ombrelloni richiusi sulle affollate spiagge sui tanti chilometri dell’Adriatico … Al giro di boa ti accorgi di avere occupato il tempo altrove. Non per pigrizia, per più di un mese di vuoto per questa rubrica; ma per l’estate, che segna le ore anche sulla collina di sant’Egidio. Ora di lentezza ritrovata, di un garbo nuovo verso la vita. Ma al giro di boa riemergono motivi che rimbalzano a prevedere preoccupazioni. Certo l’Afganistan, soprattutto l’Afganistan, che è un po’ più in là di noi, ma insomma a chi non è vicino al cuore? Violenza a segnare il futuro di un popolo, eseguite, quelle violenze, dallo stesso popolo: dai giovani che vent’anni fa, in odio all’America, hanno imparato l’odio alla libertà; e che ora scorazzano di casa in casa a stanare nemici che si sono inventati, per giustificarsi (ma si giustificano, o non ne hanno più alcuna sensibilità?) stupri e analfabetismi umani. In nome di Dio. Di quale Dio, lo sa Dio. C’è quell’altro proverbio di cui si è abusato anche nel cortile cristiano, dall’elezione di Ambrogio a vescovo di Milano fino ai nostri giorni, seppure un poco riadattato. Vox populi vox Dei? ma quando mai! Il bambino che nell’imbarazzo generale dice un nome (leggende, ma quanto hanno capovolto gli eventi?) e accontentiamoci. Non nel caso di Ambrogio, certamente saggio e santo, ma di tutte quelle piazze che hanno inneggiato e inneggiano a capi improvvisati dall’ignoranza. Dove gli incolti si ergono a giudici della storia, nascono ingiustizie: che gli azzeccagarbugli di professione mistificano di ragioni per la pancia di chi rovescia la farina e finisce per non avere più pane. È l’assenza della saggezza, che latita pure in un tempo difficile come quello che viviamo. Il detto i saggi traggono profitto dagli stolti più che gli stolti dai saggi attribuito da Plutarco a Catone il Censore: se gli stolti imitassero i saggi non sarebbero più stolti. Non c’è oggi imitazione verso l’alto. Vi sono due fazioni che combaciano, attorno a noi: è il tiro al piccione sponsorizzato da giornalisti cosiddetti liberali (molto cosiddetti!) a Bergoglio papa e a Draghi presidente. Hanno cominciato con il primo e proseguono con ambedue, sbertucciando quanti si dicono: vuoi vedere che finalmente ci siamo? con guide finalmente capaci?  Hanno solo voglia di sé, delle proprie convinzioni, delle proprie tribù: e vadano pure male le cose. Imbecilli o ignoranti? Se gli dici di una spiritualità dell’imperfezione, che è il meglio del sentire cristiano; un rifiuto di quella perfezione che produce mostri se non è attribuita solo al Signore della vita: se gli dici così ti bollano di eretico, confondendo la santità umana con la santità di Dio. Rinnegando così che il meglio possibile all’uomo sta nell’accogliere l’altro diverso da sé, come ha mostrato fino alla croce il Nazzareno. Quasi impossibile narrarlo a islamisti senza cuore, ma perché difficile per battezzati? Il dopo covid chiede di porsi finalmente una domanda così, e prima di affannarsi a riportare in chiesa su schemi obsoleti la tanta gente sparita. Perché non inseguire la minorità cristiana, il dove due sono riuniti nel Suo nome – due e non centinaia; perché temere le catacombe? Ma che dici? Sento rmbalzare su queste righe l’affanno di molti: e l’evangelizzazione’ appunto evangelizzare per trombe o per esemplarità? Amatevi l’un l’altro: Tertulliano testimonia che i primi cristiani prendevano queste parole di Gesù così sul serio che i pagani esclamavano, ammirati: Guardate come si amano! Lo potrebbero dire , non dico gli islamisti, ma i mussulmani, gli induisti, gli ebrei e quanti cercano con cuore sincero? Ma potrebbero dirlo i cristiani di loro stessi? Certe righe sono piene di odio. E sono di chi si professa cristiano. Questo lo scandalo denunciato dal Vangelo a cui non potersi rassegnare.


della Tradizione custodi.

Correre ai ripari quando i buoi sono fuggiti dalla stalla? Sul proverbio ce ne sarebbe da dire: o – già, inutile; o – perché no? Se poi per buoi, con rispetto degli uni e degli altri – animali e uomini – intendi quei paralefebvriani che si nascondono tra le pieghe di una loro fedeltà alle tradizioni (chi non dà più per scontato che i lefebvriani siano ormai su sponda irraggiungibile?) le domande sono per un verso patetiche. Davvero vale la pena rincorrere chi ha deciso di inseguire se stesso turlupinando chi tenta compromessi sicuramente non evangelici? O almeno, non intelligentemente evangelici? Con uno scritto che non lascia spazio più a dubbi, Francesco chiarisce con piglio severo, nella festa della Madonna del Carmine, che l’intento di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, proteso a facilitare i comprensibili transiti di cattolici nostalgici di forme liturgiche antecedenti, è stato spesso gravemente disatteso. Unica è l’espressione della “lex orandi” della Chiesa. Dunque che i vescovi si diano da fare nel vagliare le ragioni di chi persiste in un cattolicesimo vetero: non è che escludono quei nostalgici, di fatto, la legittimità  della riforma liturgica conciliare? È capitato che a capo della congregazione per il culto fossero nominati ultimamente, e quasi in successione, due cardinali ostili, provenienti da Chiese giovani, dove è facile che si scambi la presenza al mondo con il potere (sì anche da noi: ma qui, peccando, ci si avverte come di un peccato, là come una virtù). Due che per difendere i tradizionalisti si rifugiano nell’accusa di storture di chi celebra con il nuovo messale. Cose di cinquant’anni fa: all’inizio della riforma, già contrapponevano così, come se il qualcuno che sbagliava fosse il tutti; allora come adesso, ed è triste. Adesso è lì finalmente scritto; non così, ma è così, come ebbi modo di scrivere già: anche i papi sbagliano. Per amore, certo: ma nella stalla di Betlemme c’è chi ci sta  e chi non ci sta, e non si inventano incarnazioni diverse con presenze autoreferenziali. Perché sì la libertà (una certa libertà, dicono!), ma nella comunione. E i preti che celebrano in latino su altari rivolti al muro diano ragione vera di sé, possibilmente non trincerandosi dietro architetture che vengono dal concilio tridentino. Scambiare il verso i muri con l’est liturgico(quindi non solamente geografico) è tradotto in un recente scritto uscito da menti vaticane, nel crocifisso posto sull’altare rivolto al popolo.  Non lo sguardo verso la mensa, che già è simbolo liturgico di Cristo; e non anche verso l’ostia benedetta? Di irriflessioni di questo genere certo si intorpidiscono le menti. C’è un volgersi verso est – Cristo il sole che sorge – che si può mantenere: mettendo ad esempio la sede presidenziale non al centro del presbiterio, ma a lato (vedi le cattedrali di Milano, di Crema, di Lodi per citarne al cune lombarde, e non quella di Bergamo). Questo permette al presidente dell’assemblea di voltarsi visivamente verso la mensa nella preghiera di colletta che proclama, fedele tra i fedeli. O, e anche, nell’offrire pane e vino all’offertorio  sempre immergendosi dentro quel popolo che quelle offerte ha portato da casa: come sarebbe previsto dal rito e non è solitamente concretato. Così, tra l’altro, sottolineando che l’unico sacerdote è Lui, il Cristo, e vescovi e presbiteri sono ministri del Suo sacerdozio. Non solo quindi una riforma liturgica  post-conciliare. Ma una teologia che rimette ciascuno al proprio posto. Riformare in senso restrittivo il «Summorum Pontificum» di Benedetto è un atto di coerenza ecclesiale che implica anche il coraggio di chi non vuole ritardare l’adesione alla verità del pregare in comunione nella Chiesa. Non lasciandosi fermare da quelle voci critiche, prevedibili, e che subito si sono fatte sentire. È stato rilevato che si sono dati otto anni al Papa in cui realizzare cose: “essere in comunione con Costantinopoli, onorare la riforma di Lutero, dialogare col patriarca di tutte le Russie, riconoscere autorità alle conferenze episcopali, sfidare il presidente Trump, camminare in fraternità con i musulmani, scuotere l’Europa dei diritti, toccare la disperazione dei poveri, tagliare alberi nella foresta del moralismo, , ridare comunione fra i cattolici cinesi, costringere la chiesa a una sinodalità ignorata”. Ed ora questo. A chi persiste nel dire che Francesco è stato un don Chisciotte dei mulini a vento della Chiesa, basta o continua a mugghiare nel benaltrismo?


Distrarsi

Non è un buon verbo per i banchi scolastici, e neppure per quelli di chiesa. A meno che sia un modo per lasciarsi entrare nel mistero di Dio che si compone di quotidianità e di desiderio di evasione. Ma dato quel che ci propina la cucina della storia in cui siamo precipitati, distrarsi è una necessità: se non si vuol vivere nel volo di pipistrelli impazziti. Nelle belle tavole dei cristiani, tra una cucchiaiata e l’altra, precipitano domande su questa chiesa: che succede? È sempre successo qualcosa di disordinato, si sa, e chi non sa è perché fa lo scandalizzato di turno; ma ora, con la velocità delle notizie che si comunicano quasi prima che i fatti avvengano, pare che davvero si sia nella tempesta che può rovesciare la barca, seppure contenga il Cristo. Che però dorme: sensazione che attinge non dal sonno raccontato dal Vangelo, ma dalla pretesa che Lui venga finalmente a mettere a posto questo vento che scombussola certezze. (e se non state pensandolo, cominciate a farlo: perché il vento che turba la navigazione è quello di Francesco papa: così pensano tanti cielopiattisti ecclesiastici, e ce ne sarebbe a sufficienza per capire che se non scendono, quelli, la barca la fanno rovesciare di sicuro – della serie chi ha paura di uno scisma? pur nella sofferenza, non sono forse stati benefici,  lungo la storia millenaria della Chiesa, e proprio a far sorgere domande e verità nuove?). E dunque: si è cominciato nel 2015 con uno scozzese e poi nel 2018 con un americano, e buon ultimo (si spera) e infine con il cardinale sardo defenestrato: costretti  tutti e tre a rinunciare ai diritti e alle prerogative del cardinalato. Non proprio come quello che è capitato quasi cento anni fa a quel Louis Billot che entrato da cardinale nello stanze di papa Ratti ne uscì senza lo zucchetto purpureo e senza anello: Pio XI non poteva sopportare un porporato che continuava a sostenere l’Action Française — un movimento protofascista e antisemita condannato dal pontefice. Ora, se Francesco si voltasse a destra, quanti  prelati troverebbe immischiati in leader e partiti e movimenti che del fatto cristiano si ci sono imbellettati per scopi tutt’altro che evangelici? (Bartolomeo Sorge, a lungo direttore di «Civiltà Cattolica», che, in una intervista a «Repubblica», richiama i valori della Costituzione laica del 1948 e dichiara che il populismo «distrugge la democrazia rappresentativa», mentre il sovranismo «apre al nazionalismo, al razzismo e all’egoismo», definendo l’appoggio della Chiesa al centrodestra «uno dei tanti peccati ecclesiastici di cui la Chiesa deve chiedere perdono a Dio». lo stesso Sorge che ricordava che Mussolini era definito da Pio XI un personaggio da farsa al quale “non si poteva credere” – e questo per quelli che distorcendo una affermazione, continuano a mettere in bocca a quel papa che “M. era l’uomo della Provvidenza”). Sì, distraiamoci un po’ vagando. Ad esempio: è un vescovo americano che avverte: “qualsiasi sforzo a sostegno dell’esclusione categorica dei leader politici cattolici dall’Eucaristia, spingerà i vescovi della nostra nazione nel cuore della lotta partigiana tossica che ha distorto la nostra stessa cultura politica”. La stessa tossicità che dal giorno della discesa in campo di un certo signore si è innestata nel dna di molti cattolici. A discapito del rispetto per la Madre del Signore, sventolata su piazze che del fatto di fede non lambiscono che la superstizione. Perciò, ci rasserena che un cardinale tedesco dica che occorra fare il punto. Rasserena noi, anche se subito i naviganti piantati sui bordi l’hanno manipolato a loro uso e consumo nel ridire che il fumo di Satana è come incenso nelle stanze di Santa Marta. Occorre distrarsi su queste marginalità (?): non possiamo lasciarci trascinare nel gorgo di chi vuole sconfitta una Chiesa che sta riprendendo sé nel vangelo di Gesù, lontano da guru vecchi e nuovi che di Gesù ancora oggi ne farebbero un crocifisso. Non lasciandosi sviare dal vivere la speranza, nonostante. La luna grande che a volte lambisce le case, che si stende per farsi toccare, è frutto della stessa elisse che la allontana dalla terra. Sono tempi di luna lontana? Ma non potrà non tornare vicina la luna del Vangelo alla Chiesa.


Covidfree?

Dopo nove anni mi sono accorto di cosa mi mancava: alzare lo sguardo e vedere il vento corteggiare lieve le foglie dell’albero che sovrasta i tetti del vicino. Quindi è bastato poco: spostare di trenta centimetri la scrivania, e tra un paragrafo e l’altro ora entra il sole, o la pioggia, o qualsiasi cosa si combina nel mondo. Cose spiacevoli? Anche. Vegani, macrobiotici, lattofobi, crudisti, sushisti, naturisti, nogluten, nocarb, carnivori, fruttivori, localivori: una lista composita di gente che si difende attaccando. Attaccando la realtà. E sembra che sia un gioco trasversale, per generazioni e per fasce di individui. Se vi lasciate toccare dalle notizie di bullismo di questi giorni – di vandalismi diffusi su treni e su piste ciclabili, di bande di minorenni che ti circondano per prenderti il telefonino sgargiante che stai mostrando come status symbol di io non so che cosa – che ci crediate o no a me scoccia che mi si dia ragione. Eppure in tempi non sospetti scrissi due profezie: che i minorenni dalla pandemia sarebbero usciti scocciati a tal punto da prendersi la libertà di spaccare tutto (non tutti, i nostri no!), e si sta verificando; e che, dalla prossimità coniugale della pandemia si sarebbero beneficamente moltiplicate le nascite, come nella crisi petrolifera di decenni fa: e invece no. Il desiderabile no, l’indesiderabile sì. C’è da interrogarsi, come direbbe chiunque non voglia finire nell’inferno di Dante: perché “peggio di questa crisi c’è solo il dramma di sprecarla”. Sprecare le lezioni di silenzio delle nostre città, quell’apnea della frenesia produttiva che sembrava impossibile fino al giorno prima del confinamento obbligato; sprecare quella solidarietà fiorita spontaneamente sui germogli rinsecchiti del nostro individualismo che datava da troppo. Tutto sprecato? Certo mi piacerebbe ci fosse un canale tv covidfree, dato che non se ne può più di sentirne parlare per numeri che sicuramente fanno odiare la matematica persino ai matematici. E mi piacerebbe che finalmente si tacessero quei millantatori di sé, che pur di prendersi la ribalta – sono vescovi, anzi, uno per tutti, è un vescovo, quel Viganò che impedito alla porpora si erge ad antipapa – pontificano definendo “presunta” la pandemia sofferta da milioni di uomini e donne, per lanciarsi in anatemi contro clima e migranti, due temi che non c’entrano con la predicazione del Regno di Dio, dicono; ma sono buoni motivi, per loro, di buttare disprezzo sulle sensibilità evangeliche di Francesco papa. A che punto, direbbe mio nonno!, senza perdere la fede, ma mandando evangelicamente a quel paese tipi di tal fatta, anche se mitrati. C’è un rancore plebeo che uno non si aspetterebbe da chi è stato scelto dal Santo Spirito per essere guida, compagno la cui mano non ti abbandoni mentre attraversi la strada. A meno che ci si ricordi che attribuire in modo meccanicistico le scelte dei vescovi allo Spirito sia finalmente da rimettere in chiaro, teologicamente e soprattutto ecclesialmente. Con vescovi così, c’è da chiedersi se ancora echeggia il “sono forse io il custode di mio fratello?” di Caino-memoria. In quella domanda biblica c’è una questione gigantesca, che interessa tutti noi: quanta responsabilità abbiamo nelle vite degli altri? quanto conta ciascuno di noi nel destino dell’altro? soprattutto se tocca la sua fede. Molte chiese si sono sgretolate nei secoli, anche là dove pure c’erano pastori della levatura di Cipriano e di Agostino; un mistero della Provvidenza di Dio che avverte: non vuole che confondiamo la Chiesa con il suo Regno. Con i suoi dogmi, per quanto indicatori di verità, la Chiesa si fa e si disfa, quanto più ascolta la Parola. Che è quello che non sanno più fare – impietriti dentro certezze che hanno radici in io ipertrofici – quegli uomini che per uno scherzo dello Spirito (si può pensare diversamente?) sono stati messi lì a dire quel che si diventa quando la fede è solo religione; e dunque apparenza senza sostanza. Dolomiti, appunto, che viste da vicino sono sassaia inguardabile,  solo per chi non si lascia ammaliare da quello che appare da lontano. Ben venga il sinodo della chiesa; ma senza la sinodalità che sa mettere dietro la lavagna gli incorreggibili, l’insipienza del tempo che la pandemia ha aggravato non avrà forse la sua rivincita dietro personaggi che sanno usare della pancia altrui per i propri funambolismi senza verità? la chiesa oggi necessita di un suo covid-free, non vi pare?