Superfetazione

Finalmente ho trovato la parola giusta. Quella che gironzola come un moscone fastidioso dentro la testa, ma che non imbocca mai il buco d’uscita. Quella che cerchi per ore, a volte per giorni. O per anni, per finalmente dare corpo a ciò che senti. Sai di averla immagazzinata nel tuo scomposto vagare per righe e pagine e volumi, ma non sai più dove, in quale cartella del tuo computer mentale. E poi eccola lì, anzi qui. Spuntare improvvisamente. Per renderti conto che è proprio lei quella che cercavi – una ossessione che l’ha fatta diventare persona tanto che appunto ora la stai indicando con un lei; e si va su Treccani per rinfrescarla. E così ri-sai: indica un fenomeno piuttosto raro, di ovuli fecondati che si sovrappongono, e che ai cinesi non andrebbero bene perché vogliono un figlio solo e non due o tre. Insomma, per i cinesi ma anche per la parola nel suo significato figurato, un superfluo, una aggiunta inutile, che talvolta rovina la vita (o l’estetica, come nel caso del campanile di Sant’Alessandro con quel di più, e in più tondo, che lo innalza quel tanto da essere il più alto della città, ma non il migliore, checché invidino i preti che vi ambiscono!). Una parola per dire la Chiesa oggi. Che negli ultimi decenni ha risposto al Concilio aggiungendo: come se impegnativi programmi e organigrammi diocesani nuovi potessero essere più evangelizzanti. Ho scritto qui recentemente che potare è il verbo giusto per questo tempo della Chiesa, chiamata in Sinodo da papa Francesco. Nonostante qualche pizzicotto qua e là tanto per tenerci svegli; e visto che l’indirizzo da lui dato a Firenze nell’ultimo convegno è stato fino ad ora snobbato a favore di quei cinque ambiti di Verona (che chi sa perché vogliono ancor far scuola, anche se si è ormai in tempi di sintesi e non di specializzazioni), ecco dai prossimi giorni mettersi in moto il fantasma di cui pare proprio che si tema: il Sinodo. E quel che sta avvenendo in Germania? mi sussurrava un vescovo romano qualche giorno fa capitato qui in collina, riferendosi alle problematicità che emergono in quel Sinodo. Paura che snellire rotondità prelatizie nuoccia; e che rendere più elastico il passo delle comunità, e più libera l’appartenenza evangelica dai gravami posti sulle spalle altrui (sempre le spalle altrui?!) riduca alla insignificanza. Dunque un Sinodo per potare. Nello stile del vignaiolo che certo fa “piangere” la vite, ma per darle più forza, sennò il vigore si disperde in virgulti che non arrivano a maturazione. Abbassando, come debbono temere quanti amano il vino, la sua gradazione. Me lo spiegava ieri sera chi ha cura del prezioso vigneto in cui si specchia la nostra abbazia: se resta a lungo senza essere potata, la vite addirittura inselvatichisce e produce solo pampini e uva selvatica. Quel che succede nella vita di chi si disperde sul tanto, sul superfluo: finisce per inaridirsi, per non essere frutto. Fare delle scelte, lasciar perdere quanto ha saputo valere per ieri ma che oggi non sa offrire più segni: potare dunque. Partendo da quella illusione che è la fede popolare. Ad esempio, si può vivere anche senza le bardate processioni del Corpus Domini. Lo si è cominciato in città, ed è durato cinque anni e poi i soloni dei piviali (e degli stendardi, oltretutto lasciati tristemente in chiesa per mancanza di portatori – mica si potevano caricare sui bimbi di prima comunione, comandati nelle loro tuniche bianche, già annoiati di loro, ma chiaramente senza spalle all’uso) i soliti soloni hanno riottenuto il ritorno al “come eravamo” a favore di quei mantellati delle Crociate (scherzo, ma non troppo) che non si sono più visti invitati a sfilare. Non è detto che non sia bella una vite inselvatichita: anzi, il tanto fogliame attira, ma sotto nulla. Saranno duecento, meno giovani e tuttavia forti – ci mancherebbe fossero da meno dei trecento di Sapri – a guardarsi finalmente senza le solite vie di fuga; e senza la fregola di concepire su un precedente concepimento: perché talvolta l’eccesso di vita produce asfissia sulla vita. Ammetteranno le selvatichezze delle loro chiese i vescovi radunati in Sinodo? ascolteranno attentamente i loro vignaioli, preti e laici, che vi passano la vita? e che sanno l’essenziale per soffrirne la mancanza? Sto facendo scorrere sul desktop le foto di un viaggio sulle Dolomiti: così solenni e maestose riprese a distanza; ma riprese da dentro, una pietraia inguardabile. Chi vede da lontano e chi da vicino, vedono la stessa bellezza della grazia di Dio nella Chiesa di Cristo?


In albis

Si sa che i vescovi americani non sono i più frequentabili. Avendo a che fare, dicono loro, con innumerevoli movimenti destrorsi, con predicatori dalle raccolte vistose di offerte, debbono per forza spostarsi a destra. A destra dell’uomo, dove non sta propriamente il Cristo, che dei poveri ha fatto il centro del suo invito. E delle povertà è venuto come rimedio: fragilità umane da accompagnare, non da condannare. E così si radunano per decidere se il loro Presidente può o non può fare la comunione, dato che non si oppone alla legge dell’aborto. Si sa che i fanatici di ogni epoca non aggiungono, sostituiscono. E la laicità – che è un attributo di Dio che nulla espelle ma tutti accomuna – non è coinquilina di quei vescovi, che si mettono al di sopra della coscienza, pur avendo studiato (ma come hanno studiato?) il contrario. Per questo anche fanno di Francesco papa un bersaglio, seppur nella forma prelatizia che è cugina stretta dell’ipocrisia: dicendo e non dicendo, allontanando i molti che vorrebbero una Chiesa impegnata per davvero nella costruzione di una società più umana. E non un’istituzione che è lì quasi sempre per accusare e condannare, triste e noiosa. Anche alcuni preti che lasciano il ministero si trovano a pensare come i due di Emmaus: noi pensavamo, e sconsolati si allontanano da chi è stata per loro madre. Insani, certo, perché una madre non si rinnega mai, comunque. Ma una madre non può mettere un figlio nelle condizioni di rinnegarla. Va molto di moda oggi la resilienza, parola magica che si combina in tante salse; eppure parola necessaria, là dove esprime resistenza alle sollecitazioni d’urto. E quante oggi, oggi nella Chiesa e nella società! Colpi che ti arrivano in pancia, e non piegarti: resilienti, appunto. Capaci di vivere l’imperfezione come fosse l’unica possibilità di perfezione; e non per adeguarsi al peggio, ma per riconoscere che l’unico perfetto è il Padre nostro che è nei cieli. E accettarne le conseguenze: una Chiesa che non giudica, ma accoglie; che non teme di benedire due persone di qualsiasi vocazione umana, quando ha pratiche di benedizione degli animali nella festa di sant’Antonio. E contemporaneamente ricordando che il libro dell’Apocalisse chiude qualsiasi rivelazione; per non piegarsi, come la lobby polacca del tempo in Vaticano, a familismi patriottici di una suora che si è spinta fino a dipingere il “suo” Gesù: arrivando a soppiantare il titolo liturgico in albis con quello della divina misericordia, che non è riducibile a un giorno (quasi fosse una festa della mamma) essendo il tutto del Vangelo. Una Chiesa che conosca i propri limiti, e li mostri, e non li nasconda dentro vestimenti obsoleti. E non si allei, come in Polonia (ancora? ancora) con un regime cattofascista, che riproduce in equivalenza una sharia assoluta e incontestabile, e mentre combatte l’Islam; e lo fa con la voce potente della radiomaria di là, dove, per i toni, Maria la madre di Gesù esce bestemmiata. Volere una Chiesa bella: sanificata dalla polvere della storia, splendente della sobrietà evangelica, la stessa delle rondini che un tempo sfrecciavano nei nostri cieli di maggio. Tutti i giorni a far trasparire il Dio di misericordia per malati, peccatori, stranieri. Per chi ce la fa e per chi crede di farcela senza di lui. Evitando gli scandali veri, del credere nel denaro come un sacramento inevitabile. O di pensare che, senza condivisione di quella misericordia in alcun giorno della storia e verso la storia di ciascuno, si possa annunciare il Vangelo. Tutto questo dovrebbero fare preti e vescovi, pure quelli americani. Pure quelli che hanno lasciato il ministero: preti in eterno, preti di misericordia universale comunque sia la loro vita presente. Essendo la veste battesimale irreversibilmente su di loro.


Preti

‘sti giorni di Pasqua non sono le solite vacanze pasquali. Nelle quali ci stanno sì gli impegni, per i preti, di una più intensa preparazione omiletica da scandire nella diversità delle celebrazioni; e ci stanno anche quei profumi di primavera che coincidono con il mistero grande della resurrezione. Di Cristo e la nostra, ancorché per il momento promessa. Di primavera è il bianco dei ciliegi che sta riempiendo la collina, una rinascita che sfida il rosso del covid, che di queste vacanze  pasquali segna appunto il contrasto. Che si allinea ai pensieri: tanti, sconcertanti. Al dopo che qualcuno desidera come il prima. Ma che i molti sanno che non sarà più lo stesso. Certo che ci si butterà in quella sarabanda di recupero del tempo perduto; perché questa è la sensazione che un poco tutti sperimentiamo: abbiam perso del tempo, e occasioni, e ricchezze. E non se ne uscirà al meglio: i preti più svegli sanno che sarà dura. Sempre meno certezze, sempre più fanatici dell’io, le cose di Dio scaleranno all’indietro, riguardo alle priorità. E crescerà per contrappunto l’ossessione religiosa di altri: con il risultato di una cacofonia difficilmente affrontabile in comunità che già risentono dell’indifferenza religiosa. Se poi ci mettono il carico i preti stessi!: quelli che si preparano allo strafare; o quelli, e forse neppure se ne accorgono, che si adagiano dietro sacrestane delegate a fare da filtro; e quelli che ancor più di prima si riterranno capaci da soli, e incapaci di un lavoro di squadra si drizzeranno ad attori protagonisti. E Cristo che ancora sta in disparte. Se ci saranno invasioni di campo dopo aver vinto la pandemia – e cioè invasioni di chiese non più frequentate per prenotazioni o biglietti numerati – prepararsi a “vedere” i chi che affolleranno; e non perché teste calve o argentate siano di scarto, ma se sono le sole? Se i giovani stanno nei paraggi delle chiese, nei campi di calcio, nelle funzioni del Grest e non in quelle eucaristiche? Seminari deserti non per colpa della pandemia, si sa: dunque il tarlo lavorava già nel  bosco ecclesiale. Il perché è il grande interrogativo su cui, preti intelligenti, potranno ripartire: non lamentando un  gregge piccolo, né, forse, una atmosfera da catacombe, di minorità. Piccolo e ristretto potrebbe diventare il bello evangelico. Che sa testimoniare le cose sane del Signore – sane per qui in terra e per il cielo – a partire dai pochi: gli undici, e i santi di dopo (quelli veri, non quelli come me). Un servizio umile, gratuito, svincolato da pregiudizi. Pressati dalle tante domande di senso, anche ecclesiastico – no ai divorziati? no al celibato? no alla benedizione su chi spera nell’amore? e, per converso, sì alle pompe celebrative, residui liturgici che confondono la tradizione con le tradizioni? – un prete oggi ha ben più da fare dello strafare: rintanarsi per un tempo sufficiente nell’ombra della preghiera, per dire a sé nel silenzio prima che ad altri dove sta la buona notizia portata da Gesù di Nazareth. Notizia di liberazione, notizia di verità. I preti non stupidi sanno che lì trovano la sincera disposizione della propria vita. Certo non è come questa passeggiata sui colli, da cui sono venuto qualche mezz’ora fa. È un po’ più eterogenea, e un po’ meno deliziosa. E so che sono pensieri gratuiti. E so che non c’è un archetipo di prete cui fare riferimento perché non stoni la loro presenza nel mondo. (Ricordano alcuni miei lettori che un archetipo ho cercato di costruirlo in don Celso: il prete umile e saggio che avrei voluto essere, un desiderio che era un proposito. ) No, l’archetipo di prete non c’è. C’è l’uomo che ciascuno è, lasciatosi mandare ad annunciare partendo dalla propria fragilità. Riconosciuta e accettata, nonostante, con serenità.  Pensieri pasquali, questi, da prendersi con un goccio d’amore, mi raccomando.


S.O.S. TERRASANTA E LA BUONA PASQUA

La ripresa post Covid e l’aggravarsi delle difficoltà economiche per i cristiani di Terra Santa, le evoluzioni nei rapporti con le altre religioni e il particolare momento politico in Medio Oriente: alla vigilia della Pasqua il Patriarca di Gerusalemme, il bergamasco Pierbattista Pizzaballa, scorre i temi all’ordine del giorno mentre si prepara alle ricche celebrazioni nella Città Santa. Che si svolgeranno in un clima molto diverso da quello dell’anno scorso ma ancora lontano dalla piena normalità, con i confini chiusi per i pellegrini di tutto il mondo. La situazione è grave, soprattutto in Palestina e in Giordania. Le famiglie rimaste senza lavoro da più di un anno sono ormai migliaia a causa della mancanza di pellegrini, del blocco del turismo e dalla crisi dell’indotto. Molte attività familiari medio-piccole che hanno chiuso non riusciranno a riaprire. Per i cristiani si è costituito là un fondo umanitario per sostenere le spese delle bollette e le spese scolastiche delle famiglie senza lavoro. Ma il 2021 sarà più difficile del 2020, perché l’anno scorso si poteva contare su qualche riserva, che ora è finita. E comunque se è vero che almeno in Israele ci si sta riprendendo, i confini restano chiusi. Niente turisti, niente lavoro; e soprattutto per i poveri che già sono poveri è un dramma. Ecco perché, nell’augurare a ciascuno di voi lontani da Fontanella la Buona Pasqua, vi invitiamo a stare con noi con un vostro gesto di carità __ le offerte che si raccolgono in questi giorni durante le celebrazioni (sono una quarantina le persone che riescono a frequentare) le destiniamo alle famiglie ridotte allo stremo in TerraSanta __ se volete partecipare potete usare del nostro c/c Bianchi Attilio – Rettoria s. Egidio Cassa rurale BCC di Treviglio s.c. – IT 73F0889952780000000370654 o in qualunque altro modo riterrete opportuno __ ogni centesimo nostro e vostro, contrariamente a quanto avviene per gli enti di beneficenza che solitamente detraggono il 70% per il proprio sostentamento, ogni centesimo arriverà a destinazione __ GRAZIE __


trasmigrazione

Sul sordo rumore dei fedeli che si allontanano, che disertano le Chiese – e va bene (va bene?), se pensano che altrove o senza un altrove danno senso a sé, al proprio momento di vita – ma se allontanandosi disertano Dio, il Creatore Padre di tutti e di ciascuno, guardato da Lui per nome? Convenite con me che un certo scoramento è comprensibile, e non di Dio, ma di quelle fette di credenti che rimangono soli. Per la verità, gli allontanamenti sono ciclici, sia nel vivere civile sia nella storia religiosa. Una specie di nomadismo congenito alla ricerca di una terra promessa. E sempre altrove. Ricordate qualche anno fa i giovani che “Barcellona è il tutto per sempre”? Fu una rivisitazione, allo scoccare del millennio, del sessodrogaerock’n’rolle o del più antico baccotabaccoevenere. Adesso Barcellona non sta nella geografia giovanile, e non è solo per l’incostanza, facilmente comprensibile e troppo giustificata, per l’età prolungata in tarda irresponsabilità (ah, quando si era adulti a sedici anni, o con un secchio di malta in spalla su per i ponteggi; o nel timido affaccio – a scuola di avviamento conclusa – su uffici aziendali alla presa del Posto – sì, quello di Olmi! Se tutto questo non ve lo sentite dire, ditevelo: farà bene alla memoria del futuro che si prepara). E così pure sembra stia rallentando, nell’età del pensionamento, la corsa al Portogallo: terra promessa del risparmio e di una vita serena: certo in pollai costruiti sulle rive del mare, ma tant’è. Gode chi … Chi!? Appunto, non c’è età. Ma quei di mezzo? Quelli sono tentati, e talvolta (!) peccano, di lasciare casa e chi c’è dentro. Per un altrove, anche loro. Trasmigrare. Cambiare. Verso falsi lidi? ma pure lidi veri aspettano culture e fedi per ridire il bene per cui sono costituite. E dunque uno stato che assicuri una buona vita dalla culla alla tomba, come avviene nei paesi scandinavi – ma magari badando a ciò che conta per un sano benessere e dunque evitando di porsi come i più forti cultori del suicidio: lo sapete vero? E così per le Chiese: non si tratta di cambiare il Vangelo, diceva già papa Giovanni, ma di cercare di capirlo al meglio dell’oggi. E di sagomarlo sulla vita di oggi.  Eppure c’è chi si oppone, per paura o per accidia, e si barrica dentro il si è sempre pensato così; e si barricano dentro cenacoli chiusi, non lasciandosi neppure più sorprendere da Cristo che attraversa i muri per scuoterli. Che cosa è sacro, e che cosa è sacrificabile di trattazioni morali e di tradizioni ecclesiastiche? Dove oggi saper mettere il dito nel costato, e dunque saper toccare l’essenziale evangelico? Che cosa lasciar perdere senza sciocchi rimpianti? E che cosa promuovere? Non capire oggi che se ci sono colpe, non sono tanto di chi si allontana –anche, per l’impazienza di cambiare dall’interno vero l’esterno – ma di chi è rimasto: di chi si  sente soddisfatto del proprio passo, e non si accorge che impedisce la camminata di chi è mosso da desideri più ampi, da chiamate più vere. Clerici plissettati in testa oltre che in cotta, non potranno mai avvicinare chi veste l’abito della quotidianità: del difficile e costoso, spiritualmente, vissuto nell’oggi. E chi si rifà a categorie di pensiero che solo se rivisitate possono diventare autentico fondamento della fede e della morale … e se ci si accordasse in un sinodo trasparente per la parresia di molti, a rimuovere tabù che nulla hanno di vangelo … e se le trombe di Francesco papa facessero finalmente cadere quelle mura di Gerico che impediscono alla città dei credenti di spalancarsi per una accoglienza di tutta l’umanità nelle sue diversità … : quando racconto questo, perché mi si dice che bazzico il protestantesimo? Quando dico che i protestanti sono dell’altra sponda, dovrei capire che l’altra sponda, per loro, sono io. Alcune semplificazioni cattoliche potrebbero forse captare finalmente certe verità della Riforma. Quelle che furono respinte non in nome del Signore, ma nel nome di un potere che si sentiva assediato. Irrigiditi, allora, e irrigiditi ora: non è questa la buona notizia portata dal Figlio di Dio. Nato in terra di nomadi, vissuto da nomade, ma cercando verità nell’andare.


Andando.

 Il treno per Milano qualche giorno fa. Io per impegni alla Curia. C’è sempre qualcuno che vuole nullo quel matrimonio celebrato in Chiesa. I due davanti a me per passare il tempo, dicono. Uno viene da Bergamo l’altro da Ponte. Sembrano della sfera degli ottantenni. Ma hanno ambedue un fisico asciutto, capelli ben messi, e un profumo da dopobarba gradevole. Perché sono sbarbati, loro, a differenza della moltitudine maschile che sotto la mascherina ormai nasconde la pigrizia di radersi come faceva fino ad un anno fa. E si raccontano le loro giornate. Uno in particolare; l’altro ascolta e annuisce, come se quel che l’altro racconta sia la sua vita. E dunque dicono, uno parlando e l’altro tacendo, che lui il tempo sa come farselo passare, non come questi ragazzi cui sembra mancare il fiato mancandogli lo spinello seduti in stretto cerchio sui prati del parco dei Caduti (scrivo in maiuscolo, perché penso sia quello dei morti in guerra). Sa che ridiventerà rosso? Che non è come quel lóc (-down, penso io della versione bergamasca) insomma quella cosa inglese di un anno fa, che non si poteva neppure affacciarsi al balcone che il dirimpettaio ti sbraitava che lo potevi infettare. Mah! Che poi a me piace che il mondo si fermi un po’, a lei no? Basta con quel rumore di traffico; e quegli uccellini finalmente ricomparsi a cinguettare ogni mattina? Ci scherzano perché ricordiamo i tempi nostri, di quando eravamo bambini, ché queste cose allora neppure le notavamo e si giocava per strada  con auto che passavano una sì e altre cento no. E adesso invece ci mancano. No, non è che rimpiango, io mi sono fatto il sessantotto, mica scherzi, ah lei pure?, semplicemente mi piacerebbe che ogni tanto avvenisse questa pausa: fermi tutti per un po’, a guardare, a vedere. Poi capisco: ho dei nipoti sui diciotto anni, fremono, e hanno quei loro aggeggi a consumarsi tra pollice e pollice. Quindi peggio che se si potessero muovere un po’. Ma insomma, sarà che noi il tempo ci sfugge peggio che tra pollice e indice. Tra dentista, otorino, urologo, cardiologo che ogni anno mi trovano qualcosa di brutto (… e io che comincio a far parte di quel duetto! ma non lo do a vedere, tengo il naso dentro Orobie su una pagina di pubblicità), e l’oculista? cosa stai ad annoiarti? E dietro a mia figlia che smanetta sul computer per trovarmi gli appuntamenti, perché adesso è peggio di quelli con la morosa: si va solo se ti chiamano loro. Il vaccino lei non l’ha fatto? Io sì, e sto bene e nonostante tutto intendo campare cent’anni, a correre di qua e di là a rappezzare ‘sto fisico che vuole manutenzione peggio >>> della mia Fordfiesta del duemila. Vivere così, un po’ sospesi, perché no? Uno l’altro giorno, eravamo sul sagrato, chiedeva al prete cosa si faceva a Pasqua. E lui che allarga le braccia, e dice vediamo come va. Non che Cristo non lo si fa risorgere, ma fissargli una data una volta per sempre! Che a me poi questa cosa piace anche. Sa, io credo, e lei? Ah anche lei, ma insomma forse abbiamo fissato troppo questi incontri con le cose di Dio. È un mistero Lui, sì o no? Sempre alle catechesi io (probabilmente mi guarda, adesso ho messo via il mensile; il colletto da prete è nascosto dalla sciarpa, fa freddo in queste carrozze maltenute; ma quello deve avere un sesto senso), sul Creatore voglio saperne abbastanza da poterlo affrontare senza paure il giorno, ma tra cent’anni, neh! il giorno del giudizio. Perché va bene accettare tutto quello che capita, ma una qualche domandina sgarbata se la merita anche Lui. Eccoci, Porta Garibaldi, ci prendiamo un caffè insieme lì sotto? E il viaggio lo rifacciamo assieme o lei va in centro? Buongiorno a lei (a me che sto alzandomi a riprendere borsa e cappello). Buongiorno a voi. Per oggi la meditazione giornaliera è fatta. Per quello che già i giorni mi stanno chiedendo. E che forse non so accettare con la stessa serenità dei due, che vanno a spasso tra un appuntamento e un altro, non dandosi altra meta che la vita.


Postilla

P.S. del giorno dopo – dicevo di Noè, e del difficile di un’arca in cui c’è di tutto prima della redenzione_  gli avranno rimproverato l’ubriacatura? non state ad arrampicarvi se prima o dopo: quel che è accaduto nelle dichiarazioni di voto (era di LeU quella dell’incappucciato?) non aveva l’arca come salvezza, ma Noè come bersaglio_ è facile profezia ricordare che la gente non si converte a uno schiocco di dita neppure di un superman_ immaginate se si converte a Dio, che non fa miracoli, che non scaglia fulmini, che non prende lo scranno di presidenza di deputati ripiegati su di sé: loro sì incappucciati…


Politici

Che all’essere un po’ stupidi e un po’ cattivi, a seguito del covid, non sfuggissero neppure loro, non ci meraviglia: sono uomini fragili come tutti. Ma che la loro stupidità cucinata con la cattiveria venisse a galla durante questo tempo che segna un malessere universale, loro potrebbero risparmiarcelo. Da oltre oceano alla penisola è la stessa incapacità di assumere il limite: lo stiamo vedendo là, con un capo che incita alle rivolte; e qui con un leader che è ingrumato da due anni per una sconfitta che l’ha messo nelle retrovie. E così si mette in discussione la regola fondamentale della democrazia, che è riconoscere le ragioni dell’altro. Non possiamo far altro che stare alla finestra a vedere quel che succede; di scendere in piazza come sardine a dire che ci siamo anche noi, e dirlo senza violenza se non quella dei numeri, non si può: le restrizioni del tempo impediscono di muovere le piazze nel loro ragionato opporsi ai mestatori. Il più possibile sarebbe che ciascuno promuova una rete di dissenso intelligente. E questo potrebbe finalmente purificare i social dalle nefandezze per cui sono quotidianamente usati. Ma tant’è: convinciamoci che si uscirà a guardare le stelle, prima o poi, anche se questo inizio d’anno, facendo continuare il precedente nei suoi malanni fisici che i politici appesantiscono con malanni sociali, ritarda il compimento della speranza: ma che sia di poco, continuiamo a pregare. D’altronde, dice il saggio, li abbiamo messi lì noi. In un mondo così, che abbiamo ereditato manco fosse il debito nazionale anche non si espunge con il cambio del calendario, anche la Chiesa continua la sua sofferenza. Qui, nella penisola, i pennivendoli cattolici prendono spunto da ogni cosa per demolire il papa, credendo di esaltare il papato. E oltre oceano, nella grande! America del nord si produce la ciclica opposizione a Roma dei cattolici conservatori – guidati, Dio ce ne scampi e liberi, anche da vescovi che uno si chiede che discernimento sulle loro vite si è fatto per metterli a capo delle chiese. Oggi criticano papa Francesco perché si accosta ai cinesi, così come, alle guerre del Golfo, criticavano Giov. Paolo che si opponeva. Nazionalismi che se si intrecciano alla religione inevitabilmente producono guerre: e danno ragione così a quelli che nelle religioni non vedono l’oppio dei popoli (che già è brutto) ma il focolaio di tutte le guerre della storia. Le guerre che producono all’interno della Chiesa, chi di fatto è già scismatico – ho scritto, lo ricordano i miei pochi preziosi lettori? che non si deve aver timore di uno scisma: è lasciare a chi non ci sta di prendersi una propria via. Perché, trattenere a forza chi si abbevera ai copia-incolla dei messaggi di Radio Maria, sull’onda di Medjugorje,  non è bello per una trasparente testimonianza al mondo del Vangelo. Lo si è predicato nelle chiese nei giorni natalizi: Cristo si è fatto carne; e non vederlo nella carne degli uomini, e non servirlo, soprattutto oggi che è momento di bisogno, è negare Dio che ha scelto di stare tra noi. Che è poi quello che negano di fatto – a parole si guardano bene – quanti disprezzano il richiamo a una fraternità di tutti con tutti, quando continuano a pensare che l’essere Chiesa non sia principalmente occuparsi della carne degli uomini; e che senza potere fasti sfarzi pompe,  non c’è Chiesa. Senza potere non c’è Chiesa? Senza potere c’è Chiesa. E a chi si lamentasse con chi – me, ad esempio – mette dito sulle piaghe di chi vorrebbe una chiesa secondo lui, dedico questo racconto della tradizione ebraica. Una sera due amici, resi allegri da molte bevute, e veritieri i loro cuori,   Esemplare al riguardo un racconto della tradizione ebraica chassidica. Una sera in cui due amici erano insieme in una taverna, quando il vino rese allegri e veritieri i loro cuori, l’uno chiese all’altro: “Tu mi ami?”. Così per tre volte, e l’altro a rispondere sempre “Sì”. Quando alla fine gli chiese: Tu sai ciò che mi fa soffrire?” e l’amico rispose “No”, E il primo concluse: “Se non sai ciò che mi fa soffrire, come puoi dire di amarmi?”. È la radicalità ebraica, che sarebbe bene imparassimo anche noi cattolici. Se non vuoi sapere ciò che fa soffrire il corpo di Cristo nell’umanità, come puoi dire di servire Dio? Amare è soffrire insieme, tanto per parafrase un testo di Quoist che ha innaffiato la mia adolescenza.


Christmas

Il bisesto funesto sta per finire: solo per chi crede che il tempo non sia tutto attaccato; e dunque c’è il pericolo, per loro, che rimangano delusi – ché le guerre continuano, i virus non smettono, e la stupidità continua a generare umani. Chi non crede che un giorno in più sul calendario porti o tolga disgrazie, non si illude: sa che a meno delle grandi oscillazioni della storia si va dall’oggi al domani portandosi nella bisaccia della vita buon grano e loglio. Preparati alla vita, che è alti e bassi, bellezze che danno valore anche alle deficienze, questo il compito di ogni giorno. Non sarà mai detto a sufficienza dell’avvicinamento spurio a questo natale, per la domanda asmatica che ha percorso la penisola – che natale sarà? – con il natale tutto minuscolo per come la domanda lo intendeva. Non certo il Natale di Cristo: tant’è che festeggiano anche in culture che nulla hanno a che fare, almeno intenzionalmente, con la storia incominciata a Betlemme. Il bello è che potrebbe essere il Natale gusto, autentico, e proprio come frutto del covid: porterà nelle chiese chi vuole risentire la notizia del salvatore che ci è stato dato. E perciò a uno come me – che (lockdown per tutti) degli anglicismi esasperati con cui si è inquinata la nostra lingua si è più volte mostrato insofferente – è dato un augurio vero, per definire al meglio quel natale così generico da includere invece della capanna betlemitica i vari Orio così magnificamente frequentati nonostante i colorati lockdown di cui pure ci sentiamo afflitti. Non più buon natale ma Merry Christmas. Che nella sua accezione dice la verità di questi giorni: gioiosa celebrazione di Cristo. Anzi, noi potremmo augurarci un Holy Christmas, una santa celebrazione di Cristo. Ringraziando per una volta quelle fasce anglosassoni che ci riportano al centro, mettendoci in riga. Se ce lo diciamo così, prende finalmente sapore quel celebrare la notte e il giorno, la luce che ci è data nel piccolo figlio di Maria, cui diede il proprio casato Giuseppe, in quel suo gesto di disobbedienza alla legge: e per amore. Per tutti voi, fedeli di queste righe, il mio più cordiale Holy Christmas. E che sia anche gioioso


Appunto

Perché perdere tempo a lamentarci della notte, mentre ci aspetta la luce del giorno? ce lo ricorda il Papa. Ma  appunto: L. de Góngora y Argote, il poeta spagnolo del seicento, citato nel Diario ultimo del card Ravasi, ammonisce sul retto uso del tempo: “Non risparmieranno neppure te le ore, / le ore che vanno limando i giorni / i giorni che vanno rodendo gli anni”. Ecco perché sognare ad occhi aperti non fa bene. Immaginavo in questi giorni quanti avrebbero sognato di essere il medico di quel calciatore a cui ora vogliono intestare lo stadio (boh?!). Al massimo della fama riflessa e degli emolumenti – bella parola per non nominare il tanto denaro che ora arriccia la vita ai tanti eredi sparsi nel mondo – quel medico ci è riuscito, e per quel sogno viene osannato e poi travolto in un incubo, per le accuse di omicidio, colposo o peggio, su cui è indagato. Ma gli esempi ci sono nella vita di ciascuno: arrivare lì, sognare di arrivare lì; e poi? Sogniamo  da sempre di essere onnipotenti, o almeno di diventarlo al più presto. E poi arriva una pandemia: chi ci pensava prima che arrivasse? Pensiamo a terremoti, ad alluvioni, persino alla caduta di un qualche pezzo di stelle: ma la pandemia? cosa che abbiamo sempre pensato fosse roba d’altri tempi, o di altri, dei cinesi ad esempio! Al più, per noi, una epidemia: qualcosa di circoscritto, da poter affrontare ragionevolmente. E poi questo virus, questo fantasma che ha la potenza indiscussa di farci sentire in balia. Di strapparci la faccia dalle sabbie in cui l’abbiamo immersa, per farci accorgere della nostra fragilità innata. Una fragilità che ci riesce difficile da accettare. Tanto che  prima o poi troviamo sempre un capro espiatorio: all’inizio fu il fato, e aveva il nome, appunto, di cinesi. Adesso è lo Stato, sono i medici, o i vicini che non si curano di noi e pretendono un natale sulle nevi. Ne I fratelli Karamazov, Ivan è l’intellettuale feroce con se stesso, che racconta ad Alioscia, il fratello buono, del Grande Inquisitore: uno che minaccia Cristo ritornato ad affermare la libertà d’ogni singolo individuo. Gli minaccia il rogo perché quel dono rende infelice l’umanità a causa del peso insopportabile dell’essere liberi nel distinguere tra il bene e il male, il giusto e lo sbagliato. Quello proposto da Dostoevskij è un cristianesimo estremo, quello dimenticato nei grovigli di pratiche che hanno condotto alla deriva il Vangelo. Che detta così sembra eccessivo? Eppure, a leggere il testo di Genesi – e le parole di Adamo “La donna che tu mi hai messo accanto” – il capro espiatorio diventa Dio stesso: sua la colpa. E non per la proibizione, ma per l’atto creativo della donna. Dice un autore che lì si rivela la grande fragilità umana: l’incapacità di assumersi la responsabilità. E “la morte in solitudine di tutti, a cui da lontano abbiamo assistito in questi difficilissimi mesi, non è tanto il prodotto della giustizia e dell’ingiustizia divina, quanto della incapacità di pensare le relazioni, di prevedere e trovare approcci concreti, immaginabili e possibili ai momenti critici e alla sofferenza: non è questione di Dio ma di noi uomini”. Resi capaci di responsabilità, degli uni per gli altri. Un medico, di questa pandemia ha detto una cosa importante: non gli piace il termine immunità di gregge, come se fosse lasciato a un atteggiamento passivo il renderci immuni dal virus pandemico, dice di preferire il termine immunità di comunità, dove appunto è insito il concetto di responsabilità. È l’intelligenza dell’obbedienza, che ho fatto mio mantra in questi mesi: che nulla toglie agli altri mentre conserva sé. Se non si fa uso, adesso, della libertà che si coniuga con la responsabilità, restiamo il gregge che siamo diventati, uomini e donne, cristiani e no, in un mondo omologato al basso. Fare tesoro degli errori commessi in questi anni, non illudendosi di riprendere vecchie abitudini: questa è la grazia del covid 19. Per reinventarci come uomini e come cristiani. Appunto: lascia che la vita ti colga nel mentre accade.