Ce lo stanno dicendo da decenni che questo nostro pianeta è in pericolo. Il riscaldamento globale lo si prevede in gradi di calore che vanno dal minimo ancora per un po’ sostenibile a un massimo che erutterà le acque con una marea silenziosa ma devastante:  tsunami che ricoprirà senza sradicare. Ora si scende in piazza, ordinati come non sono quegli sciocchi del no green pass; e si chiede quello che i grandi non sanno concedere. O non possono o non vogliono, immersi in quel botolo del presente che sradica ogni speranza di un buon futuro. Invertire la rotta? Ma come si fa, se ci si è costruiti in esigenze irrinunciabili. “Meno è meglio”? Se lo dici dopo una camminata in montagna, il passo greve e greve il respiro, ma nella percezione gioiosa dell’anima che solitamente non vivi, con molta probabilità sei sincero. Ma per quanto? Meno è meno: meno shopping, meno vestiti, meno scarpe, meno abbuffate, meno frutta e verdura fuori stagione, meno … Impreparati! Siamo impreparati a una consapevolezza che sfondi l’abitudinario del benessere, di quello star bene che si nutre di superfluo. Fino a che si riverseranno sulle nostre quotidianità, e non in barconi da centinaia, ma in migrazioni da migliaia e migliaia quanti saranno tempestati da carestie insostenibili. Mentre scrivo ‘ste cose, e lo confesso, sento tutta la distanza da questo scenario. Impreparati persino al probabile prevedibile? Ormai ristretti in una bolla di appagamento ritenuto essenziale, è un futuribile senza sponda ragionevole: sì, vabbé, non esagerare. Me lo dico: e sento che è la misura dell’impreparazione al cambiamento. Ed è male comune: e non per scusare sé, ma per avvertire che nella transizione richiesta non si è solidali, eppure se ne esce solo insieme o non si rimedia. E benedetta la pandemia nella sua malefica presenza. Detto così può sembrare una bestemmia verso l’umanità. E lo è, se non che in ogni male c’è una grazia, pur che la si sappia cogliere. L’ affanno del dopo: chiese da ripopolare, catechesi da ricominciare, oratori da riabitare. Un fiatone al limite della tachicardia ecclesiastica. Preti e vescovi che non so quanto si rendano conto che sono impreparati a questo dopo. Che per la verità era già un prima, ma grazia della pandemia a renderlo di una evidenza innegabile. Impreparati a un mondo senza Dio, impreparati al come annunciarlo. Se la preoccupazione è riprendere dal dove eravamo rimasti, quale delusione! Un Papa che chiama alla sinodalità, a quel camminare insieme che è intriso di parole scambiate, di ascolti che cambiano i propri pensieri, di verità che si illuminano diversamente per una preoccupazione non solo sul cosa ma sul come – che è la vita, e quella prigionia inconscia che trattiene oggi i battezzati in sentire secondo il mondo – se Francesco chiama a questo e poi senti che “insomma, l’abbiamo sempre fatto” allora tu sai con certezza che a questa svolta della storia cristiana siamo impreparati. Non voglio dirlo in maniera apodittica, poiché so che nulla è inconfutabile: ma la sensazione è questa. Impreparati oggi a dire il Vangelo a orecchie che possano intenderlo: parliamo in turco, a gente che sproloquia quando le si chiede una qualche preghiera in italiano. Perseveriamo in devozioni, quando serve toccare l’essenziale. Forse, oggi e per un po’, basterebbe l’Eucarestia domenicale, e niente più. Per abbeverarsi al meglio dato alla Chiesa.