Correre ai ripari quando i buoi sono fuggiti dalla stalla? Sul proverbio ce ne sarebbe da dire: o – già, inutile; o – perché no? Se poi per buoi, con rispetto degli uni e degli altri – animali e uomini – intendi quei paralefebvriani che si nascondono tra le pieghe di una loro fedeltà alle tradizioni (chi non dà più per scontato che i lefebvriani siano ormai su sponda irraggiungibile?) le domande sono per un verso patetiche. Davvero vale la pena rincorrere chi ha deciso di inseguire se stesso turlupinando chi tenta compromessi sicuramente non evangelici? O almeno, non intelligentemente evangelici? Con uno scritto che non lascia spazio più a dubbi, Francesco chiarisce con piglio severo, nella festa della Madonna del Carmine, che l’intento di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, proteso a facilitare i comprensibili transiti di cattolici nostalgici di forme liturgiche antecedenti, è stato spesso gravemente disatteso. Unica è l’espressione della “lex orandi” della Chiesa. Dunque che i vescovi si diano da fare nel vagliare le ragioni di chi persiste in un cattolicesimo vetero: non è che escludono quei nostalgici, di fatto, la legittimità  della riforma liturgica conciliare? È capitato che a capo della congregazione per il culto fossero nominati ultimamente, e quasi in successione, due cardinali ostili, provenienti da Chiese giovani, dove è facile che si scambi la presenza al mondo con il potere (sì anche da noi: ma qui, peccando, ci si avverte come di un peccato, là come una virtù). Due che per difendere i tradizionalisti si rifugiano nell’accusa di storture di chi celebra con il nuovo messale. Cose di cinquant’anni fa: all’inizio della riforma, già contrapponevano così, come se il qualcuno che sbagliava fosse il tutti; allora come adesso, ed è triste. Adesso è lì finalmente scritto; non così, ma è così, come ebbi modo di scrivere già: anche i papi sbagliano. Per amore, certo: ma nella stalla di Betlemme c’è chi ci sta  e chi non ci sta, e non si inventano incarnazioni diverse con presenze autoreferenziali. Perché sì la libertà (una certa libertà, dicono!), ma nella comunione. E i preti che celebrano in latino su altari rivolti al muro diano ragione vera di sé, possibilmente non trincerandosi dietro architetture che vengono dal concilio tridentino. Scambiare il verso i muri con l’est liturgico(quindi non solamente geografico) è tradotto in un recente scritto uscito da menti vaticane, nel crocifisso posto sull’altare rivolto al popolo.  Non lo sguardo verso la mensa, che già è simbolo liturgico di Cristo; e non anche verso l’ostia benedetta? Di irriflessioni di questo genere certo si intorpidiscono le menti. C’è un volgersi verso est – Cristo il sole che sorge – che si può mantenere: mettendo ad esempio la sede presidenziale non al centro del presbiterio, ma a lato (vedi le cattedrali di Milano, di Crema, di Lodi per citarne al cune lombarde, e non quella di Bergamo). Questo permette al presidente dell’assemblea di voltarsi visivamente verso la mensa nella preghiera di colletta che proclama, fedele tra i fedeli. O, e anche, nell’offrire pane e vino all’offertorio  sempre immergendosi dentro quel popolo che quelle offerte ha portato da casa: come sarebbe previsto dal rito e non è solitamente concretato. Così, tra l’altro, sottolineando che l’unico sacerdote è Lui, il Cristo, e vescovi e presbiteri sono ministri del Suo sacerdozio. Non solo quindi una riforma liturgica  post-conciliare. Ma una teologia che rimette ciascuno al proprio posto. Riformare in senso restrittivo il «Summorum Pontificum» di Benedetto è un atto di coerenza ecclesiale che implica anche il coraggio di chi non vuole ritardare l’adesione alla verità del pregare in comunione nella Chiesa. Non lasciandosi fermare da quelle voci critiche, prevedibili, e che subito si sono fatte sentire. È stato rilevato che si sono dati otto anni al Papa in cui realizzare cose: “essere in comunione con Costantinopoli, onorare la riforma di Lutero, dialogare col patriarca di tutte le Russie, riconoscere autorità alle conferenze episcopali, sfidare il presidente Trump, camminare in fraternità con i musulmani, scuotere l’Europa dei diritti, toccare la disperazione dei poveri, tagliare alberi nella foresta del moralismo, , ridare comunione fra i cattolici cinesi, costringere la chiesa a una sinodalità ignorata”. Ed ora questo. A chi persiste nel dire che Francesco è stato un don Chisciotte dei mulini a vento della Chiesa, basta o continua a mugghiare nel benaltrismo?