scontato

Ci è cascato anche Gramellini, che pure è un notista e scrittore per altro pregevole. Ma si sa , l’urgenza di una rubrica quotidiana può scusare. Dunque, se l’è presa con il prete che ha scritto, riguardo a una ragazza molestata, “se ti ubriachi e ti allontani con uno sconosciuto, cosa aspetti che ti succeda?”. Quel prete evidentemente dà per scontato che il violentatore sia esecrabile. Ed esecrabile da tutti, che sia o no un magrebino. Ma all’attenzione pone anche un richiamo alla prudenza. Le sta dicendo intanto che ubriacarsi obnubila; e poi che dovrebbe finalmente imparare da quello che succede ogni giorno, quando non si tira il freno dell’imprudenza nell’accompagnarsi a chiunque, sia persino il proprio ragazzo. Dato per scontato che i violentatori vadano isolati e rinchiusi, dove sta il peccato di avvertire che non si dia loro occasione? Avere pietà per quel che ti è successo, è molto più impegnativo di un “poverina”: è farti conscio della tua fragilità. Dunque, se è scontato rabbrividire con tutti i peli del corpo per chi violenta, dev’essere anche scontato che quel che ti è successo non è per caso? Ho pietà vera per te quando e se ti avverto: che è dei genitori, e degli educatori, preti compresi (e magari anche i giornalisti?). Così è dei fattacci che succedono a certi reporter – e il riferimento qui è più ampio del fatto brutale di cronaca appena successo a Ostia, così come è più ampio di quello che è successo alla ragazzina di Bologna. Sulla brutale aggressione, una testata sul setto nasale di un giornalista, non ci sono dubbi: inaccettabile. E tuttavia qualche interrogativo per chi sta da questa parte del televisore nasce. Quando l’ insistenza di una intervista diventa una molestia. Quando l’ insistenza diventa una invadenza, un assillo che rasenta l’ossessione, non è forse violenza? Una violenza che chiama violenza? Quando il microfono diventa una minaccia sventolata sotto il naso di quelli da cui si pretende subito una dichiarazione di perdono, accanto al cadavere di un familiare? Quasi un archetipo quella consegna del tapiro, dentro quella trasmissione che sta nutrendo da decenni la pancia degli sguarniti: è vero che si beccano soprattutto i vippari – e qui la nota di pietà potrebbe un po’ calare, per il grado di demagogia che ci nutre. Ma dato per scontato che gli istinti aggressivi devono essere controllati, se mi provochi oltre il limite potrai aspettarti che ricambi con un calcio negli stinchi. E allora le vittime sono due, sempre: con diversa colpa, chiaro. Ma sono due. E due i violentatori, seppure chiaramente con diversa colpevolezza. A prescindere naturalmente dalla ragazzina e dal giornalista in questione. Ma è così difficile accettare la concatenazione che c’è tra azione e reazione? Così difficile accettare che nella fragilità c’è il serpe della violenza? Per non essere ipocriti: coprendo alla fine il vero male di uno nella brutalità dell’altro. Ed è proprio l’esempio di Gramellini che si ritorce contro il suo ragionamento: se ti tuffi in una vasca di piranha, metti in conto il rischio di essere morsicato. Avvertirti che gli uomini sono spesso piranha, e che tu non puoi sfidarli, è mancanza di solidarietà?


Viaggio

Il mondo è altro da quello che si vive nel recinto della propria geografia. Si sa. Ci si mette in cammino per conoscere altri luoghi, altre culture, altri paesaggi: e dunque altra bellezza. E si scopre e si arricchisce. Ma c’è un viaggio che in questi giorni di Ognissanti i cristiani non si lasciano mancare. Ed è la visita ai camposanti. Ed è un viaggio. Una lapide, una storia. Qui, nel cimitero di Fontanella, piccolo e adagiato sulla collina – trattenuto da una muraglia che gli impedisca di scivolare a valle, ma alcune crepe impensieriscono – si trovano almeno una decina di sepolture di preti, qui nati o qui sepolti dopo una vita spesa per questo grappolo di case; e di seminaristi morti in giovane età, strappati alla loro vocazione e all’affetto dei genitori “da un morbo crudele nell’età dell’innocenza”. E così nel cimitero del mio paese, quello affacciato sull’Adda, così disturbato ora nel suo silenzio dal mugghìo del nuovo ponte in ferro della vicina autostrada: storie che rileggi, là e qui, nelle pietre sepolcrali ormai affisse ai muri, a ricordare la tragedia di padri e figli ”che tragico destino ha insieme stroncato per l’immane massa di una frana”. Ma sono lapidi di un altro tempo: ora, data di nascita e di morte, e nient’altro; solo un passaggio di cui non avresti alcuna memoria, se non fosse per le foto che ti rimandano alla conoscenza che se ne è avuta. Ma serve una conoscenza: la storia che più o meno direttamente, si è comunque vissuta con quei trapassati. Per chi è giovane, e cammina lì dentro, sono pietre senza un passato, un viaggio senza contorni, senza quei paesaggi del cuore e della mente che l’antologia di Spoon River ha fatto sperare, a quelli della mia età, di avere anche per l’oggi in un cantastorie come Edgar Lee Masters. Che non si è lasciato frenare su amori e virtù: ma raccontando una vita, ne ha svelato pure vizi e carenze. Solo esigenze di spazio per cui il sessanta per sessanta dei colombari – e già il nome dice un disagio – non permette scritte diffuse? O qualcosa di più? Una deficienza di memorie, che viene forse da una timidezza nell’esprimere sentimenti? o in una indifferenza essa stessa mortifera? Già negli annunci funerari che appaiono sulla stampa o nei manifesti che ancora si trovano sui muri dei paesi, stereotipi che dicono la stessa cosa di chi è morto giovane o vecchio; e con quegli stampini che l’impresario funebre sottopone ai familiari dolenti: e così si va dal “tuo sorriso” a citazioni più o meno altisonanti. Ma la loro storia mai. Eppure è lì che si impara sempre di più di se stessi: su una vita finita qui in terra, per una proiezione che ha condotto più o meno pacificamente all’aldilà. Magari piccole storie, le piccole storie dei nostri morti: ma che dicano che ora sono i santi, senza un nome nei canoni ecclesiastici, ma con il nome nelle nostre vite. Che è quel che più conta. Dunque viaggiare nel regno dei morti, per farli rivivere dentro noi. E così prolungarne, nella nostra vita, quanto di incompiuto è stato nella loro. Perché – a nessuno sfugga – anche al migliore dei santi è inevitabilmente successo di non aver compiuto tutto, anche se qualche lapide può recitare “pieno di anni e di virtù”. La pienezza di desideri e di opere non sta da questa parte del mondo. E camminare nella terra dei defunti, almeno una cosa la si impara: che il limite ci appartiene. E non può mai essere vissuto come un dramma. Né nei giorni, né alla soglia della morte. Perché è porta di bellezza senza fine.


Frangente?

Come per tanti vocaboli del dizionario, c’è un senso proprio e un senso figurato. Frangente definisce “l’onda del mare che, per effetto del vento, piega in avanti la cresta rompendosi e spumeggiando”. Una immagine che ai poeti serve. Ma sarà per quel rompersi, che questo vocabolo in modo figurato si usa per una situazione particolare, per lo più grave. E l’inquinamento lo è, quello che sta patendo la pianura padana. Una cappa che nessuna pioggia per quanto invocata, e nessun vento ad oggi riescono a spazzar via. Ma sarà un frangente, o una realtà cui ci si dovrà assuefare? C’è anche chi di fronte all’invito a tener chiuse porte e finestre riesce a sorridere: a Torino sono usi a tener le porte aperte? Un sorriso sdrammatizza. Ma il dramma c’è, con profeti di sventura che calcano la mano predicando che il clima sarebbe ormai entrato in una fase irreversibile, che non farà che peggiorare da qui in avanti. Sono tra quelli che avvertono di guardare alla lunghezza del mondo, ai millenni, alle epoche: mai come in questa situazione vale il vivere il tempo presente, lo scorrere dei nostri decenni, senza apocalittiche previsioni che non stanno nel recinto della durata delle nostre vite. Certo, il tempo presente è senz’altro poco piacevole: per un verso si tenta con G7 di darsi delle regole sullo sviluppo, per contro ci stanno quelli che remano contro. Il nuovo rinascimento cinese, come è stato definito, si propone di sconfiggere in trent’anni la povertà di trenta milioni di abitanti di quel continente. Ma fra trent’anni quanti saranno spariti perché asfissiati? La cappa della Valpadana ancora non è gran che rispetto a quella nebbia giallognola che imperversa su tutto il territorio industriale che fu degli antichi mandarini. Ci spaventa certo, se il nostro futuro sarà quello: sperare che sia solo un frangente, una situazione scavalcabile, è necessario, purché la speranza si traduca concretamente e da subito nella sconfitta della stoltezza che pretende il sempre di più. Fermare le auto, ora; ma fermare da ora quello stile di vita che non sa vivere il bene della sobrietà, e che non può che condurre al limite di un baratro – supposto che su quel ciglio non ci siamo già. Frangenti, situazioni difficili. Non è forse anche nella Chiesa, cattolica e romana, che si vive un cambio che da un po’ avvolge il Vangelo in una cappa asfissiante? Si vive di esempi, lo dettava già sant’Agostino, più che di sermoni. Si vive di immagini che si danno. La rottura che oggi viviamo tra chi s’attacca a una definizione inderogabile di natura che impedisce uno sguardo sull’uomo quale è; tra chi vuole mettere paletti alla misericordia in forza delle leggi ecclesiastiche (ma perché non anche a quelle ecclesiali?): che tipo di richiamo può essere alla notizia buona che il Vangelo è per ciascuno? Ripiegati su trine e merletti, su un passato che ha inevitabilmente preso la muffa del tempo, come si può evangelizzare? Nei momenti difficili occorre il coraggio di smuoversi da sé, da abitudini che sono sfociate lungo i secoli in imperialismi religiosi, che nulla hanno in comune con il Gesù che non ha una pietra su cui posare il capo. E non per un pauperismo che sarebbe esso stesso datato. Ma per un ritorno a quella leggerezza senza della quale nessun triennio di attenzione ai giovani da parte delle nostre comunità potrà aver buon esito. In questo frangente, dove forze vetero cattoliche di nuova marca, la Chiesa ha bisogno di rappresentarsi con una immagine vera: ripulita ed essenziale. La Chiesa che siamo noi, i credenti, per quanto peccatori. E la Chiesa che sono loro, i resistenti a un magistero fatto di gesti e di coerenza, quelli che che la fede nel Signore traducono in un’eretica rigidità.


la grazia

Mi auguro che molti cattolici si siano chiesti chi sia stato Lutero – in questo anno, che tramonta alla fine d’ottobre, dedicato alla memoria della riforma protestante avviatasi cinquecento anni fa con quelle 95 tesi che forse sono state affisse, e forse no, sul portale della chiesa nel castello di Wittenberg. Chiedersi chi era questo giovane monaco non è secondario rispetto alla storia che ne è scaturita. Controverso fondatore, o solo uno dei tanti, Melantone e Zwingli tra gli altri, che si sono ribellati partendo da convinzioni diverse? non tutte teologiche, ma politiche, se non economiche? e poi accomunati dalla tradizione protestante in un unico movimento? Lutero la mente, gli altri braccia di una rivoluzione? Perché rivoluzione è stata, dalle sola fide, sola scriptura, sola gratia si è negata ogni mediazione della Chiesa: niente dottrina delle buone opere, nessun merito della vita monastica, niente sacramenti dell’ordine sacerdotale, della confessione, e della Cena, ridotta a pura celebrazione conviviale (tanto che, alcuni miei giovani finiti in America con l’Erasmus si sono trovati a partecipare a “messe” a base di coca cola e patatine – ma questo non c’entra con il luteranesimo d’origine controllata, semmai a quelle frammentazioni inevitabili per chi si ritiene fonte originale nell’interpretare la Scrittura e il proprio agire morale). E poiché gli storici su un punto sono concordi – che il conflitto di Lutero non ebbe l’intenzione di mettere in discussione la chiesa e il papato, ma solo dal porre la questione della illiceità teologica del commercio delle indulgenze – come si è finiti oltre? Si sa che gli epigoni tradiscono i maestri, soprattutto esaltandoli. Ma Lutero, poi, dopo quella sincera indignazione per il gran peccato della chiesa del suo tempo, ci ha messo del suo. Ecco perché è utile sapere chi è stato. Per sapere che cosa ne è stato, nei secoli, di quella accorta riforma della chiesa che era nei suoi desideri. Lui, monaco agostiniano, dalla sofferta vocazione ecclesiastica (ebbe una sua notte buia e proprio nel momento del consegnarsi), si è visto rapidamente affiancare da discepoli che nella novità delle dottrine trovavano la consistenza di una vita altrimenti non più religiosamente significante. Ma invece di reggere dentro la chiesa, di fare resistenza dentro, si è chiamato fuori: smonacandosi; e sposando quella Caterina, lei pure uscita di convento, che gli avrebbe preso non solo il cuore ma pure la conduzione dell’esistenza. Lo si vede da quei discorsi a tavola: certo la raccolta delle conversazioni informali alla tavola di Martin Lutero e di sua moglie Katharina von Bora, su temi quali la teologia, l’attualità politica, l’accademia e la vita quotidiana, fanno emergere un Lutero diretto, a tratti violento e persino volgare. Una deriva, e non la si comprende, se non come una nemesi per un uomo che pure era stato predicatore della grazia. Che è bellezza di Dio. Per la sua vita, lasciare il ministero è stata una decisione forse giusta, forse affrettata, forse sbagliata: non è nel mio giudizio. Ma non stendere la mani alla grazia, questo se lo è fatto mancare, poi. Apparentemente. Secondo quei suoi biografi orgogliosi di lui, della sua umanità anche corrotta. La grazia è un dono; ma vuole corrispondenza; e umiltà nel lasciarsi prendere per mano. Sia chiaro: a me Lutero piace; anche se fino a un certo punto.


Ritornare

Ho avuto un’estate piuttosto impegnata. Ma qualche giorno di vacanza me li son presi, anche solo per ubbidire ai precetti di chi ti vuol ricordare che nessuno è indispensabile. Ma anche alla buona ragione che qualche distacco ravvicina meglio. E così mi son fatto le cinque giornate di Napoli. Cinque giorni su e giù per una città che è molte città. Una bellezza che sfianca e qualche disarmonia che respinge. Mescolate, neppure messe le une accanto alle altre. L’opprimente ponte della Sanità, che è il luogo più frequentato dai suicidi: e per cascare, con sofferenze racchiuse in attimi di disperazione, accanto alla chiesa di san Vincenzo, che è invece diventata luogo di un riscatto dei ragazzi del quartiere. Quando appunto alzi lo sguardo. Ma quando lo alzi, lo sguardo, t’accorgi che Dio ha visitato questo popolo. E scopri che non solo san Gennaro dice la sua presenza due volte l’anno, ma anche santa Patrizia, che ogni martedì fa sciogliere il suo sangue in quella stupenda chiesa di san Gregorio Armeno: un poco in disparte, servita da una scalinata che la separa dalla frenesia della Spaccanapoli. Con tutti gli interrogativi che rimangono, per un credente abituato più alla sobrietà di una fede che vive invisibile; ma incalzato dalla diversità di un credere che esige la presenza del divino: la speranza non può rimanere negli anfratti inaccessibili, per chi abita una rude terrestrità. Un viaggio dopo molti anni dalla prima volta. Con una consapevolezza diversa, devo riconoscere; e con una voglia di ritornare per capire di più allacci che sembrano così distanti, tra il silenzio del Vomero e l’improponibile rumore di clacson nella bassa città; o tra i miserabili “bassi” che pure palpitano di vita e il vuoto della nuova città che svanisce dopo le ore degli affari. Per ascoltare più avvertitamente la lingua fatta di suoni oltre le parole. Le risate in un piccolo bar, dove il caffè è sublime: il barista parla, non ne capisco un acca, gli dico che sta parlando russo, e lui che si scusa in un italiano ritrovato: ah, lei è russo? Per cogliere una gioia di vivere dentro urla che si rincorrono da una finestra all’altra. Per superare la differenza che inevitabilmente c’è tra chi abita e chi visita. Ritornare. Non amando lo spaparanzarmi su una spiaggia – pur rincorrendo coste dove il mare s’infrange bianco di onde su alte falesie rocciose – molti dei miei giorni di vacanza fatti solo di viaggi sono stati un ritorno. Aperitivi in successione. Per rivedere e ricordare. Perché ogni ritorno è un immergersi. Che affranca e che rilancia. Vi sono ritorni anche dentro i viaggi della vita: ritorni necessari, e tuttavia non si fanno. La Rundinella è una canzone napoletana, su un amore tradito, un’attesa che forse non farà primavera: ma Io lascio la porta aperta quando è sera sperando di trovarti vicino a me. La speranza di quel popolo è una porta aperta. La porta aperta che ciascuno vive, quando allontanamenti o abbandoni non hanno le ragioni del cuore di chi è lasciato. Confessate o meno, sono le sofferenze di tutti prima o poi nella vita. Perciò ci si attacca a qualsiasi cosa quando ci sente abbandonati da Dio: fosse il sangue di martiri, o la vaghezza della memoria. Ma con una voglia di ritornare là dove si è vissuto – seppure per qualche tempo, benché talvolta poco – per sapere il ritorno che conta.


amicalità

Mi mancava, il buon odore della terra dopo un temporale; e questo vento che sibila tra i rami dei carpini, e l’ondeggiare dell’erba prima delle cadute delle falese, sui confini continentali della vecchia Europa. Non si ha bisogno di andare su Google – come si dice, intendendolo forse come un monte di conoscenza? – per combinare emozioni proprie con i versi di poeti che sono infissi nell’anima. In questi giorni di cambiamento del clima, dopo l’afosità di un’estate per altro benedetta, si può cogliere in maniera più sottile quanto avviene: come se i fiati affannati dell’estate finalmente lasciassero posto al respiro della mente. Che osserva e discerne persone e fatti. E se su di un fatto ne hai versioni diverse? La verità di quel fatto sta in colui cui decidi di credere: ma è una verità? o la tua verità, quella che desideri perché non ti scombina? Si dice di un prete, per altro ammirevole, che non usi mai la parola onnipotenza nei confronti di Dio. Il perché non lo si conosce, ma è facilmente intuibile: ha lo sgomento di un mondo che va alla deriva – e non solo per terremoti o uragani – ma per una malvagità umana. L’onnipotenza di Dio ha sempre avuto a che fare con la libertà dell’uomo; e da sempre è una delle ragioni per cui tanti si dicono agnostici. Puoi ben dire che Dio non è assente ma nascosto, e la storia umana è un susseguirsi di illuminanti sue apparizioni e rivelazioni, di tracce certe anche se spesso indecifrabili della sua presenza. Resta difficile abbandonarsi a un itinerario che conduce a Lui, se non si coltiva la fede-fiducia nel suo esserci accanto, ma soprattutto se ci si arrende di fronte a una cronaca che sembra solo voler portare lontano. Leggiamo dell’imbarazzo dell’Arma per i due carabinieri che avrebbero stuprato ragazze americane. Ma è l’imbarazzo della Chiesa per i fatti di violenza di cui sono responsabili alcuni religiosi. Ancora non è l’imbarazzo degli avvocati, che pure avrebbero da vergognarsi di alcuni di loro: da una intercettazione si è saputo di avvocati che si sono arricchiti con le denunce di pedofilia: “quale storia vuole che raccontiamo?”. Certamente ci sono bravi ragazzi che sono bravi, finché non incontrano gli orchi: carabinieri, preti o avvocati. Follie ancora più ignobili perché sarebbero compiute da chi indossa una uniforme. Ma, si legge anche, tutte le studentesse americane in Italia sono assicurate per lo stupro: al di là della nomea che ci hanno appioppato quelli al di là dell’Oceano – loro che si sentono comunque innocenti, da Hiroshima in poi – non è che oltre a chi indossa una toga o una divisa o una talare, a rendere indigesta la benevolenza verso il genere umano possono essere tutti, anche quelli senza una particolare livrea? Serve la verità ma senza vendette: dice Francesco papa in Colombia. Che è come dire: chi non cerca un amico è nemico di se stesso. E come ne avremmo bisogno – di amicalità condivisa tra tutti – senza accomodarci dentro le versioni che ci piacciono, su qualunque sponda ci abbia messo la nostra nascita e le nostre scelte di vita! Il mondo moderno non spinge il cristiano ai margini della storia, ma, al contrario, gli chiede di immergersi pienamente, senza riserve, nella vita, nella storia. Solo così è possibile sentire l’onnipotenza di Dio accanto a sé.


7. un passo indietro /

acquarelli estivi

Un prete di città don Bernardo non lo era mai stato, lui che veniva dalla cima delle valli. Eppure era stato mandato lì, alla soglia dei cinquant’anni, in una vicinia di una vasta parrocchia, a recitare gli ultimi anni della sua vita. Fino agli ottantotto che ora si misura. Gambe più lente, ma cervello sempre in azione: entri in casa sua e trovi pile di libri in corridoio, in soggiorno e persino in bagno. Oltre che, naturalmente, nel suo studio. Un prete di città divoratori di libri: per nutrirsene più delle minestrine che si prepara di ritorno dalle uscite per ministero. Una vita che, da solitario, non ha mai sofferto di solitudine. Occhi azzurri e ridenti, nei ritrovi di preti è la sua saggezza che riempie il daffare dispersivo altrui. Non che lo si cerchi molto: ma lo si gode quando c’è. E in quei momenti, persino il più accanito fruitore di cellulare riesce a lasciarlo nel taschino dei bermuda ultima moda; e così don Bernardo concorre a curare nei suoi confratelli quella nuova sindrome del pollice da smartphone: ovvero, come dicono studi medici, i dolori alla base del pollice causati dall’uso continuo del dito per scrivere messaggini, e-mail, text sugli smartphone. Che è poi una delle cose che sorridendo dice di non condividere: i preti dovrebbero aver imparato dai misteri che celebrano la necessità della distanza, della sosta, del soffermarsi: proprio quello che i nuovi strumenti di comunicazione tendono a schivare. Ci rimproverano omelie senza fondo? Occorre metter dentro di sé le storie degli uomini, il loro pensiero che sa risalire i secoli, per poter tradurre nel vissuto di oggi, dice. E giustifica così la sua passione libresca, a chi ritiene che occorre ‘calarsi’: ma, ribatte sempre con un sorriso, occorre calarsi muniti di salvagente. E il sapere è l’indispensabile mai alimentato a sufficienza in un predicatore di vangelo. In un momento storico in cui si usano le false notizie fatte passare per incontrovertibili, in cui si inganna volendo ingannare, come si risponde se non uscendo dalla fonte giornaliera di internet? Indotti a non riuscire a capire quel che pure si vede, solo la distanza può aiutare a servire la verità. E porta l’esempio del pittore che giusto qualche giorno fa ha incontrato sul pianoro montano a cui l’hanno accompagnato per sfuggire un poco a questo afoso agosto cittadino. E racconta di come è stato lì un bel po’ a vedere i movimenti di quel giovane uomo: al cavalletto pennellate, e poi un passo indietro; ancora pennellate e un passo indietro. Per cogliere nella distanza l’insieme che si creava sulla tela. Ecco, senza quella distanza, un dipinto non racconta quello che pure è nel progetto dell’artista. Merita, e ancora sorride don Bernardo, che noi preti facciamo un passo indietro per cogliere l’essenziale del dire e del fare cui siamo chiamati? Sennò, come possiamo testimoniare ad ogni persona che pure per ciascuno occorre nella vita, in certi momenti della vita, fare un passo indietro per capire quel che pure si vede, ma non si riesce a comprendere?           


6. Vino rosso, vino bianco /

acquarelli estivi

Abita nella vasta parrocchia che ha ereditato dal vescovo ormai defunto. Ereditata come la dote per un figlio; tanto era per lui quel suo vescovo: un figlio; e si sa che ai figli si dà indipendentemente dai loro meriti. E infatti don Aurelio non è di quei parroci che si impongono per la forte personalità, costruttori di cemento e di piani pastorali; ma uno che si affida all’intuito, e la cui virtù principale di apostolato è la provvisorietà che si nutre della occasionalità. Sul pezzo, come dicono, forse non linguisticamente corretto, i suoi colleghi giornalisti; e dunque sul punto dell’oggi, e non di futuribili che finiscono per trascurare le domande quotidiane. Legge molto, e ascolta tanto, lui che si dedica alle erbe officinali, nella grande terrazza che prospetta sul fiume: le erbette che coltiva gli insegnano il giusto irrorare e il non violento sfoltire; e i profumi, di cui sente la necessità, per essere un prete bastante. Non ha grandi ambizioni, don Aurelio, fors’anche per una certa pigrizia che dicono scritta nel suo segno zodiacale. Però presiede, con dedizione, quella grande comunità, invidiato da quei colleghi che presumevano di averne diritto per meriti pastorali. Sta dunque in una vasta canonica, ed è orgoglioso d’esserne il titolare, seppure ad tempus: un attraente parco con alberi secolari, un orto in cui cresce di tutto, dai cavoli alle varietà delle uve – bianca rosata nera – che fanno gola ai ragazzi della parrocchia. Fosse per lui, si volterebbe dall’altra parte quando scavalcano i muretti per venire a godersela, l’uva. Ma c’è la Barbarina, tanto imponente quanto lui è smilzo: custode oculata, giustamente gelosa del suo lavoro. Lei, la perpetua più dedita all’agricoltura che alla cucina, diventa la regina settembrina nella capiente cantina: ai lavoranti di torchio e tini mesce gioiosa il succo dell’anno precedente: ed è persino generosa. Vino familiare, ma doc. Vino che don Aurelio usa per la messa, mettendoci di suo il sigillo ecclesiastico: ne conosce la provenienza e la lavorazione. Ed usa vino bianco. Al proposito: ci tiene alla congruità dei segni; se si deve aspergere, si asperga con acqua, e non con  aspersorio secco; e se si deve incensare, che sia con un turibolo fumigante. (Chiaro; anche se non altrettanto chiaro in alcune celebrazioni cui partecipa in molte chiese, ancora). Ma, si dice don Aurelio, che restino sempre segni di Altro, e non figurazioni didattiche. Gli vien da sorridere (e caccia il resto come tentazioni non caritatevoli) quando sente preti che usano esclusivamente il vino rosso perché rappresenterebbe meglio il sangue eucaristico. E, lasciando perdere dissertazioni su quale tonalità di rosso dovrebbe essere quel vino-sangue (rosso rubino, rosso granato, rosso aranciato?) si chiede (con una certa compiaciuta maliziosità piegato sulle sue erbe che sembrano fargli un occhiolino d’intesa) quando arriveranno, quelli, a fabbricare ostie color carne. “Non siamo qui ad asciugare gli scogli, a smacchiare i giaguari, a cambiare gli infissi al Colosseo, a mettere i pannelli fotovoltaici alle lucciole, a pettinar le bambole” esorcizzava fino a qualche tempo fa un politico di tramontate speranze, ma di sicuro umorismo. Il parroco Aurelio, sull’onda, prega così: Signore, facci liberi, non stupidi.


5. Voce del verbo percepire /

acquarelli estivi

Si sa, quando meno sei accalappiato dalle cose da fare, tanto meglio i pensieri vengono a galla. E se poi ti cerchi anche un luogo che favorisce… Sulle rive dell’Adda, sotto quel salice imponente che struscia i suoi rami sull’acqua, don Santino il posto l’ha trovato. E alcuni tardi pomeriggi se li è presi, in quest’estate torrida che tutti descrivono con il verbo “percepire”. La percezione della realtà che non è la realtà: “sentono” tutti, uomini e donne, più caldo di quanto faccia. Così di dice, e si scrive. Con quale fondamento scientifico, don Santino non se lo spiega: se il termometro è a trentacinque, perché dovremmo soffrire a quaranta? Ma neanche tanto ci mette la testa. Che dicano e scrivano, al primo grosso temporale d’agosto si sarebbe tutto dissolto! Quello che gli rimbalza, è che su tanta parte della vita si usa ormai la percezione come strumento di interpretazione della realtà. (Molto parente, ma meno nobile, di quando si dice: “io la penso così” – con quella ostinazione che rivela l’assenza determinata di un ascolto delle ragioni opposte!). Fino a snaturarla, la realtà, o a caricarla di significati altri rispetto a sé. E’ successo a lui (ma a quanti altri?) di soffrire per un fatto colto in maniera esattamente contraria; e solo perché qualcuno ha deciso di credere più a una versione percependola come più attinente a sé, in barba alla verità dell’accadimento: usando filtri che lasciano scorrere solo ciò che si vuole per sé. L’accanimento terapeutico nell’uso della psicologia ha condotto a stravolgimenti dei propri vissuti in forza di soluzioni che accomodassero i sensi di colpa; qualcosa che quel nostro prete abduano ha sperimentato in certi colloqui con persone intente a cercare una via d’uscita da un passato da cui ricavavano solo frammenti negativi. Impedendosi il bene e la bellezza che pure si erano vissuti. Convincere che quel che è stato del proprio “improprio” passato è tutto cancellato per chi si abbandona alla misericordia del Signore, è da sempre  il suo punto forza; non esiste peccato, dice, che ci si debba trascinare per tutta la vita. Forse dovremmo tutti, e dice a se stesso don Santino, lasciarci accarezzare più spesso dalla brezza che scende dallo stormire di questo salice che ora mi mette in ombra. E che si descrive piangente: ma è la sua forza e la sua verità nel panorama della terra. E dunque occorre reagire, quando percepire è negarsi alla verità delle cose, dei fatti, delle occasioni. E delle relazioni: dell’amicizia e dell’amore. E della inseparabilità della felicità e del dolore. Accanirsi a vivere dentro la fatica della debolezza – senza lasciarsi liberare verso una gratitudine, sia pure segnata da imperfezioni – non è il Vangelo dei cristiani. Non è quello che tento di predicare, e che ho sperimentato personalmente come libertà. Se lo dice, don Santino, in questo tardo pomeriggio d’agosto, mentre l’ultima luce del sole ancora scavalca le sponde di questa valle del fiume.


4. Quando pensare è difficile, si smette di pensare? /

acquarelli estivi

Che il parroco succedutogli snellisse cose secondo se stesso; e portasse segni nuovi, e chiamate anche più risonanti, non gli è dispiaciuto: è saggio a sufficienza (anche se non lo direbbe mai di se stesso) per riconoscere che ogni uomo, anche il migliore, non sfugge a un certo irrigidimento sui propri schemi. Anzi, don Sandro è contento per il rinnovato brio che si era un po’ spento nei suoi ultimi anni di servizio diretto. Quando è stato colpito da un infarto, ha anticipato le sue dimissioni da parroco. Troppo serio per poter condizionare una comunità alle paure che quella botta gli ha portato, paure sconosciute prima, ma ormai annidate: normale reazione psicologica, gli hanno detto i medici. Ma lui non ci sta. Non che sia un prete poco coraggioso; anzi, ha superato se stesso in quella decisione: dopo dieci anni di condivisione di storie e di avventure evangeliche, in un popolo molto anticlericale e tuttavia disponibile a una sincerità della vita che aiutasse le verità dei giorni. Lasciare è stata una passione dolorosa. Lui, attivo e orante nelle misure giuste; lui, che si è fatto negli anni caldi della contestazione, leggendo molto, e osservando altrettanto: accogliendo e stimolando sempre i suoi collaboratori, preti e no, catechisti e no, a farsi luce, a darsi conoscenze. Ed essi glielo riconoscono: sono grati per le letture suggerite, e rimpiangono soprattutto Evangelizzare – irresponsabilmente fatta morire dagli editori -tra gli strumenti caldeggiati nei loro percorsi, preziosi per la crescita non solo spirituale ma culturale, e non solo per il compito di catechisti. Perciò, raccontano a don Sandro, non riescono a darsi pace. In parrocchia è stato fatto l’abbonamento ad una nuova rivista ritenuta più accessibile ai catechisti, quell’altra giudicata troppo difficile: dal nuovo parroco, naturalmente. Si è preso una balda schiera di giovincelli non ancor giovani (“è oggi l’imperativo categorico della nostra parrocchia”), e va bene; ma invece di insegnare loro leggendo insieme pagine di spessore, preparandoli nella fatica del deserto e dei pozzi da scovare, gli propina quelle schede precotte da cui ciascun sedicenne ricava l’impressione di essere capace subito, e di sapere tutto già: da solo. L’esatto opposto di chi si mette in ascolto: della Parola che si traduce in parole vive, con la fatica di chi si piega al discepolato del giorno e della notte. Quella cosa proprio don Sandro non la capisce. E ne soffre, per quei post-adolescenti non accompagnati, per quegli apprendimenti senza criticità. Per quella aridità che, non è difficile prevedere, intaccherà ogni pur desiderabile brio. E molto più a breve di quel che pensi il suo successore.