Il mondo è altro da quello che si vive nel recinto della propria geografia. Si sa. Ci si mette in cammino per conoscere altri luoghi, altre culture, altri paesaggi: e dunque altra bellezza. E si scopre e si arricchisce. Ma c’è un viaggio che in questi giorni di Ognissanti i cristiani non si lasciano mancare. Ed è la visita ai camposanti. Ed è un viaggio. Una lapide, una storia. Qui, nel cimitero di Fontanella, piccolo e adagiato sulla collina – trattenuto da una muraglia che gli impedisca di scivolare a valle, ma alcune crepe impensieriscono – si trovano almeno una decina di sepolture di preti, qui nati o qui sepolti dopo una vita spesa per questo grappolo di case; e di seminaristi morti in giovane età, strappati alla loro vocazione e all’affetto dei genitori “da un morbo crudele nell’età dell’innocenza”. E così nel cimitero del mio paese, quello affacciato sull’Adda, così disturbato ora nel suo silenzio dal mugghìo del nuovo ponte in ferro della vicina autostrada: storie che rileggi, là e qui, nelle pietre sepolcrali ormai affisse ai muri, a ricordare la tragedia di padri e figli ”che tragico destino ha insieme stroncato per l’immane massa di una frana”. Ma sono lapidi di un altro tempo: ora, data di nascita e di morte, e nient’altro; solo un passaggio di cui non avresti alcuna memoria, se non fosse per le foto che ti rimandano alla conoscenza che se ne è avuta. Ma serve una conoscenza: la storia che più o meno direttamente, si è comunque vissuta con quei trapassati. Per chi è giovane, e cammina lì dentro, sono pietre senza un passato, un viaggio senza contorni, senza quei paesaggi del cuore e della mente che l’antologia di Spoon River ha fatto sperare, a quelli della mia età, di avere anche per l’oggi in un cantastorie come Edgar Lee Masters. Che non si è lasciato frenare su amori e virtù: ma raccontando una vita, ne ha svelato pure vizi e carenze. Solo esigenze di spazio per cui il sessanta per sessanta dei colombari – e già il nome dice un disagio – non permette scritte diffuse? O qualcosa di più? Una deficienza di memorie, che viene forse da una timidezza nell’esprimere sentimenti? o in una indifferenza essa stessa mortifera? Già negli annunci funerari che appaiono sulla stampa o nei manifesti che ancora si trovano sui muri dei paesi, stereotipi che dicono la stessa cosa di chi è morto giovane o vecchio; e con quegli stampini che l’impresario funebre sottopone ai familiari dolenti: e così si va dal “tuo sorriso” a citazioni più o meno altisonanti. Ma la loro storia mai. Eppure è lì che si impara sempre di più di se stessi: su una vita finita qui in terra, per una proiezione che ha condotto più o meno pacificamente all’aldilà. Magari piccole storie, le piccole storie dei nostri morti: ma che dicano che ora sono i santi, senza un nome nei canoni ecclesiastici, ma con il nome nelle nostre vite. Che è quel che più conta. Dunque viaggiare nel regno dei morti, per farli rivivere dentro noi. E così prolungarne, nella nostra vita, quanto di incompiuto è stato nella loro. Perché – a nessuno sfugga – anche al migliore dei santi è inevitabilmente successo di non aver compiuto tutto, anche se qualche lapide può recitare “pieno di anni e di virtù”. La pienezza di desideri e di opere non sta da questa parte del mondo. E camminare nella terra dei defunti, almeno una cosa la si impara: che il limite ci appartiene. E non può mai essere vissuto come un dramma. Né nei giorni, né alla soglia della morte. Perché è porta di bellezza senza fine.