Ho avuto un’estate piuttosto impegnata. Ma qualche giorno di vacanza me li son presi, anche solo per ubbidire ai precetti di chi ti vuol ricordare che nessuno è indispensabile. Ma anche alla buona ragione che qualche distacco ravvicina meglio. E così mi son fatto le cinque giornate di Napoli. Cinque giorni su e giù per una città che è molte città. Una bellezza che sfianca e qualche disarmonia che respinge. Mescolate, neppure messe le une accanto alle altre. L’opprimente ponte della Sanità, che è il luogo più frequentato dai suicidi: e per cascare, con sofferenze racchiuse in attimi di disperazione, accanto alla chiesa di san Vincenzo, che è invece diventata luogo di un riscatto dei ragazzi del quartiere. Quando appunto alzi lo sguardo. Ma quando lo alzi, lo sguardo, t’accorgi che Dio ha visitato questo popolo. E scopri che non solo san Gennaro dice la sua presenza due volte l’anno, ma anche santa Patrizia, che ogni martedì fa sciogliere il suo sangue in quella stupenda chiesa di san Gregorio Armeno: un poco in disparte, servita da una scalinata che la separa dalla frenesia della Spaccanapoli. Con tutti gli interrogativi che rimangono, per un credente abituato più alla sobrietà di una fede che vive invisibile; ma incalzato dalla diversità di un credere che esige la presenza del divino: la speranza non può rimanere negli anfratti inaccessibili, per chi abita una rude terrestrità. Un viaggio dopo molti anni dalla prima volta. Con una consapevolezza diversa, devo riconoscere; e con una voglia di ritornare per capire di più allacci che sembrano così distanti, tra il silenzio del Vomero e l’improponibile rumore di clacson nella bassa città; o tra i miserabili “bassi” che pure palpitano di vita e il vuoto della nuova città che svanisce dopo le ore degli affari. Per ascoltare più avvertitamente la lingua fatta di suoni oltre le parole. Le risate in un piccolo bar, dove il caffè è sublime: il barista parla, non ne capisco un acca, gli dico che sta parlando russo, e lui che si scusa in un italiano ritrovato: ah, lei è russo? Per cogliere una gioia di vivere dentro urla che si rincorrono da una finestra all’altra. Per superare la differenza che inevitabilmente c’è tra chi abita e chi visita. Ritornare. Non amando lo spaparanzarmi su una spiaggia – pur rincorrendo coste dove il mare s’infrange bianco di onde su alte falesie rocciose – molti dei miei giorni di vacanza fatti solo di viaggi sono stati un ritorno. Aperitivi in successione. Per rivedere e ricordare. Perché ogni ritorno è un immergersi. Che affranca e che rilancia. Vi sono ritorni anche dentro i viaggi della vita: ritorni necessari, e tuttavia non si fanno. La Rundinella è una canzone napoletana, su un amore tradito, un’attesa che forse non farà primavera: ma Io lascio la porta aperta quando è sera sperando di trovarti vicino a me. La speranza di quel popolo è una porta aperta. La porta aperta che ciascuno vive, quando allontanamenti o abbandoni non hanno le ragioni del cuore di chi è lasciato. Confessate o meno, sono le sofferenze di tutti prima o poi nella vita. Perciò ci si attacca a qualsiasi cosa quando ci sente abbandonati da Dio: fosse il sangue di martiri, o la vaghezza della memoria. Ma con una voglia di ritornare là dove si è vissuto – seppure per qualche tempo, benché talvolta poco – per sapere il ritorno che conta.