acquarelli estivi
Abita nella vasta parrocchia che ha ereditato dal vescovo ormai defunto. Ereditata come la dote per un figlio; tanto era per lui quel suo vescovo: un figlio; e si sa che ai figli si dà indipendentemente dai loro meriti. E infatti don Aurelio non è di quei parroci che si impongono per la forte personalità, costruttori di cemento e di piani pastorali; ma uno che si affida all’intuito, e la cui virtù principale di apostolato è la provvisorietà che si nutre della occasionalità. Sul pezzo, come dicono, forse non linguisticamente corretto, i suoi colleghi giornalisti; e dunque sul punto dell’oggi, e non di futuribili che finiscono per trascurare le domande quotidiane. Legge molto, e ascolta tanto, lui che si dedica alle erbe officinali, nella grande terrazza che prospetta sul fiume: le erbette che coltiva gli insegnano il giusto irrorare e il non violento sfoltire; e i profumi, di cui sente la necessità, per essere un prete bastante. Non ha grandi ambizioni, don Aurelio, fors’anche per una certa pigrizia che dicono scritta nel suo segno zodiacale. Però presiede, con dedizione, quella grande comunità, invidiato da quei colleghi che presumevano di averne diritto per meriti pastorali. Sta dunque in una vasta canonica, ed è orgoglioso d’esserne il titolare, seppure ad tempus: un attraente parco con alberi secolari, un orto in cui cresce di tutto, dai cavoli alle varietà delle uve – bianca rosata nera – che fanno gola ai ragazzi della parrocchia. Fosse per lui, si volterebbe dall’altra parte quando scavalcano i muretti per venire a godersela, l’uva. Ma c’è la Barbarina, tanto imponente quanto lui è smilzo: custode oculata, giustamente gelosa del suo lavoro. Lei, la perpetua più dedita all’agricoltura che alla cucina, diventa la regina settembrina nella capiente cantina: ai lavoranti di torchio e tini mesce gioiosa il succo dell’anno precedente: ed è persino generosa. Vino familiare, ma doc. Vino che don Aurelio usa per la messa, mettendoci di suo il sigillo ecclesiastico: ne conosce la provenienza e la lavorazione. Ed usa vino bianco. Al proposito: ci tiene alla congruità dei segni; se si deve aspergere, si asperga con acqua, e non con aspersorio secco; e se si deve incensare, che sia con un turibolo fumigante. (Chiaro; anche se non altrettanto chiaro in alcune celebrazioni cui partecipa in molte chiese, ancora). Ma, si dice don Aurelio, che restino sempre segni di Altro, e non figurazioni didattiche. Gli vien da sorridere (e caccia il resto come tentazioni non caritatevoli) quando sente preti che usano esclusivamente il vino rosso perché rappresenterebbe meglio il sangue eucaristico. E, lasciando perdere dissertazioni su quale tonalità di rosso dovrebbe essere quel vino-sangue (rosso rubino, rosso granato, rosso aranciato?) si chiede (con una certa compiaciuta maliziosità piegato sulle sue erbe che sembrano fargli un occhiolino d’intesa) quando arriveranno, quelli, a fabbricare ostie color carne. “Non siamo qui ad asciugare gli scogli, a smacchiare i giaguari, a cambiare gli infissi al Colosseo, a mettere i pannelli fotovoltaici alle lucciole, a pettinar le bambole” esorcizzava fino a qualche tempo fa un politico di tramontate speranze, ma di sicuro umorismo. Il parroco Aurelio, sull’onda, prega così: Signore, facci liberi, non stupidi.