Come per tanti vocaboli del dizionario, c’è un senso proprio e un senso figurato. Frangente definisce “l’onda del mare che, per effetto del vento, piega in avanti la cresta rompendosi e spumeggiando”. Una immagine che ai poeti serve. Ma sarà per quel rompersi, che questo vocabolo in modo figurato si usa per una situazione particolare, per lo più grave. E l’inquinamento lo è, quello che sta patendo la pianura padana. Una cappa che nessuna pioggia per quanto invocata, e nessun vento ad oggi riescono a spazzar via. Ma sarà un frangente, o una realtà cui ci si dovrà assuefare? C’è anche chi di fronte all’invito a tener chiuse porte e finestre riesce a sorridere: a Torino sono usi a tener le porte aperte? Un sorriso sdrammatizza. Ma il dramma c’è, con profeti di sventura che calcano la mano predicando che il clima sarebbe ormai entrato in una fase irreversibile, che non farà che peggiorare da qui in avanti. Sono tra quelli che avvertono di guardare alla lunghezza del mondo, ai millenni, alle epoche: mai come in questa situazione vale il vivere il tempo presente, lo scorrere dei nostri decenni, senza apocalittiche previsioni che non stanno nel recinto della durata delle nostre vite. Certo, il tempo presente è senz’altro poco piacevole: per un verso si tenta con G7 di darsi delle regole sullo sviluppo, per contro ci stanno quelli che remano contro. Il nuovo rinascimento cinese, come è stato definito, si propone di sconfiggere in trent’anni la povertà di trenta milioni di abitanti di quel continente. Ma fra trent’anni quanti saranno spariti perché asfissiati? La cappa della Valpadana ancora non è gran che rispetto a quella nebbia giallognola che imperversa su tutto il territorio industriale che fu degli antichi mandarini. Ci spaventa certo, se il nostro futuro sarà quello: sperare che sia solo un frangente, una situazione scavalcabile, è necessario, purché la speranza si traduca concretamente e da subito nella sconfitta della stoltezza che pretende il sempre di più. Fermare le auto, ora; ma fermare da ora quello stile di vita che non sa vivere il bene della sobrietà, e che non può che condurre al limite di un baratro – supposto che su quel ciglio non ci siamo già. Frangenti, situazioni difficili. Non è forse anche nella Chiesa, cattolica e romana, che si vive un cambio che da un po’ avvolge il Vangelo in una cappa asfissiante? Si vive di esempi, lo dettava già sant’Agostino, più che di sermoni. Si vive di immagini che si danno. La rottura che oggi viviamo tra chi s’attacca a una definizione inderogabile di natura che impedisce uno sguardo sull’uomo quale è; tra chi vuole mettere paletti alla misericordia in forza delle leggi ecclesiastiche (ma perché non anche a quelle ecclesiali?): che tipo di richiamo può essere alla notizia buona che il Vangelo è per ciascuno? Ripiegati su trine e merletti, su un passato che ha inevitabilmente preso la muffa del tempo, come si può evangelizzare? Nei momenti difficili occorre il coraggio di smuoversi da sé, da abitudini che sono sfociate lungo i secoli in imperialismi religiosi, che nulla hanno in comune con il Gesù che non ha una pietra su cui posare il capo. E non per un pauperismo che sarebbe esso stesso datato. Ma per un ritorno a quella leggerezza senza della quale nessun triennio di attenzione ai giovani da parte delle nostre comunità potrà aver buon esito. In questo frangente, dove forze vetero cattoliche di nuova marca, la Chiesa ha bisogno di rappresentarsi con una immagine vera: ripulita ed essenziale. La Chiesa che siamo noi, i credenti, per quanto peccatori. E la Chiesa che sono loro, i resistenti a un magistero fatto di gesti e di coerenza, quelli che che la fede nel Signore traducono in un’eretica rigidità.