pregiudizio
Voi pensate che quanti hanno costruito la loro fortuna editoriale e giornalistica sulla antitesi tra Benedetto e Francesco, adesso non si poggeranno ancor più su quel santo di Giovanni Paolo che per essere tirato da parte è stato (ed è) un campione per loro? Voi pensate che dopo lo “stolto pregiudizio” con cui Benedetto ha bollato quanti si schierano per un sedevacantismo si fermeranno? Permettetemi: vi sbagliate. Il soccisottopensiero ha talmente intriso personaggi lontani dalla predicazione evangelica di Francesco da impedir loro di esserne toccati. Papa Bergoglio non è un liberale, secondo le assurde accuse di quelli, ma un radicale, uno che va alla radice del Vangelo. Di lui, di Francesco, si può dire, che piaccia o no, ciò che Hanna Arendt disse del santo papa Giovanni: “un cristiano sul trono di Pietro”. Per individui che si sono immiseriti dentro l’idea di una Chiesa che o vive dentro i fasti mondani o non è, la sacrosanta desacralizzazione del papato in atto non è altro che un ritorno a quel comandamento del Signore, che chiedeva ai discepoli di mettersi in cammino leggeri, senza più di una tunica, e tanto meno di metri e metri di porpora con cui alcuni ancora oggi pensano di essere solo così degli stimabili cardinali. Si potrebbe pensare che sono irrimedibili, quelli che soprattutto dentro la chiesa ostinatamente ogni giorno criticano il Papa e il suo modo di guidare la Chiesa: se non fosse che è lo stesso vangelo a dirci che su nessuno occorre perdere la speranza di una conversione; e il crocifisso con Gesù è lì ad avvertire (se non fosse per quell’altro crocifisso con Lui…). Tra gli attacchi più plateali che sono stati mossi in questi cinque anni di servizio papale, ricorderete quei manifesti apparsi sui muri di Roma: “A France’ hai commissariato congregazioni, rimossi sacerdoti,decapitato l’Ordine di Malta e i francescani dell’Immacolata, ignorato cardinali … ma n’do sta la tua misericordia?”. Aver combattuto la corruzione dei soldi e delle carriere, e la vanità di preti che si specchiano con tricorni di seta o cotte plissettate, è questa la sua eresia? Seppur in modi e stili diversi, e anche con linguaggio diverso, non è forse quanto lo stesso Benedetto ha messo in guardia più volte? Contrapporre il magistero dei due papi è oltraggioso soprattutto per Benedetto: non se ne accorgono? sono così stolti? (stupidi sarebbe la parola giusta se non fosse che Gesù ci ha proibito di dare dello stupido agli stupidi – ma Gesù che dà dei sepolcri imbiancati agli sbiancati sepolcri…?). Stupirsi perché Francesco ha rifiutato di abitare nel palazzo regale, oltretutto portando ragioni così umane, così vicine alla nostra fragilità – quale il non sopportare la solitudine di una casa senza il sano trambusto della quotidianità di tanti che l’abitano; l’aver simbolicamente realizzato la profezia di un papa a Zagarolo (come, me lo si passi, e citando il romanzo di Morselli, mi ero augurato alla vigilia del nuovo pontificato): è dunque questo che alimenta le furbate di chi vive ormai su diritti d’autore? E’ vero che il tempo è buon giudice: ma se il presente lo si lascia in mano ai farabutti (scusami, Gesù, ma insomma…)? Non è misericordia vera non lasciar perdere coloro che stanno perdendosi? Anche perché, e lo insegna la storia, ma anche la cronaca: se nella piazza san Carlo di Torino tutti si mettono a correre, e tu no, resti travolto. Nella politica nazionale stiamo assistendo a demagoghi che dominano la scena: e per il momento sembra che non si possa far niente. Ma lasciare che nella Chiesa dominino demagoghi di segno contrario al vangelo, che si avvalgono di siti internet per diffondere l’antievangelo, questo è peccato, questa è l’eresia.
il-giorno-dopo
Finalmente è l’avverbio di chi si è trovato sul carro dei vincitori. A parte che ci si presume vincitori non essendolo comunque, che piaccia o no. Finalmente tocca a noi: ma se lo dicono gli uni e anche gli altri, dove è il vincitore? Si scrive, e si dice, che per vincere occorre pescare nelle file dei nemici: ma, gli uni e gli altri, fino al giorno prima, a proclamare che nessuno osi cambiare casacca; evidentemente rivolto ai propri, ma se lo fanno gli altri, ben venga, dato che noi i numeri non li abbiamo. Eccetera, eccetera. Questi i risvolti in cui si rifugia chi deve elaborare il lutto di star camminando accanto al carro dei vincitori (ma chi sono quelli che qua e là rompono le file e stanno saltando sul carro? giornalisti? imprenditori? prelati?). Eppure non sono pochi – il quasi 19 per cento di 76 fa 14, che sui 46 milioni di chiamati fa oltre 6 milioni e mezzo; e checché sfottano quelli che si sentono accusati di scegliere dalla pancia e per la pancia, sono quelli che un po’ di testa in più ce la mettono. A rischio di essere accusati di votati all’autoannientamento. Perché, una delle due: o si avvalgono, pur di vincere del tutto, di quelli che hanno massacrati fino alla vigilia, o si imparentano tra loro, gli pseudo vincitori del ventre. Componendo una massa di populisti sconosciuti fin’ora alle istituzioni europee. Ma certo: il loro bersaglio comune non è quello di star dentro l’Europa come pretendono di starci quei paesi dell’est, vogliosi di diritti e noncuranti dei doveri? Non li hanno forse frequentati, e non hanno forse condiviso con viaggi in Russia e nelle Corea del nord? Trumpiani di vocazione, o putiniani, che è poi lo stesso? Con dazi che richiamano sovranismi nazionali: proprio ciò che ci ha salvato da guerre finanziarie che in passato sono sfociate in conflitti armati. Cassandra docet. E poi: lo zero virgola che hanno raccolto quelli che si sono presentati fieri di essere fascisti non può distrarre dal fascismo sotterraneo che è fatto di odio razziale, e di disuguaglianze pratiche, che nutre i panciaroli. Non si può recitare che non c’è più destra e sinistra, così annullando quel sano conflitto che fa nascere una vera democrazia, e non una popolocrazia: dove chi comanda non è il bene comune ma l’individualismo più sfrenato. Dove uno vale uno si rinnega il noi. E così si pensa di riandare al voto? Se con la stessa legge elettorale, sarà inevitabile che si alleino in coalizione i due mezzi vincitori di oggi. E vinceranno a larghe mani. A meno che nel frattempo quelli che si sono illusi che cambiare è comunque una panacea, si ravvedano; e turandosi il naso di montanelliana memoria, ma ben aprendo la bocca ad avvertire di non accettare più, nel presente per il futuro, cerchi magici, gigliati o no, ridiano finalmente forza a chi può traghettare verso un popolo che fa delle diversità una ricchezza. (Anche nella Chiesa si è detto a buona ragione che si deve cambiare in un mondo che cambia. E si è pensato che cambiare volesse dire riformare le istituzioni! E non riformare le persone, e le loro relazioni: laici con preti, e preti con vescovi. Ascoltare le vibrazioni di quella che un tempo era chiamata la chiesa che ascolta rispetto alla chiesa che insegna: così accorgendosi che si usano gli stessi criteri pur avendo cambiato il linguaggio. Se non si fanno sbattere i fedeli – laici, preti e vescovi – in faccia al Vangelo, si avranno cattolici che votano contro il Vangelo. Come è successo. Ma allora, scusate, che cosa stiamo predicando?).
Vigilia
Di una festa? di un anniversario? No, di un voto. Anzi di milioni di voti che si rovesceranno su un futuro prossimo. Qualcuno ha scritto – o declamato dalla tv – che nessuna campagna elettorale è stata brutta come quella che si chiude oggi. Forse. E qualcuno non lascia lì senza spiegazioni, bontà sua. Ragioni del brutto che tuttavia si possono travolgere dal contrario: è brutto dire che l’avversario mente? o dire che le spara grosse? o accusarlo di essere troppo vago per essere vero? Mai come in questa vigilia il cielo si presenta scuro: non certo per la benefica neve che sta impoetando questi nostri giorni qui in collina; ma un cielo foriero di instabilità – nonostante qualche parte stia cantando vittoria ancor prima di sapere se da casa al seggio qualcuno non finisca per cambiare parere per l’imbarazzo dei sondaggi. Ci si accorda, dopo mesi di trattative come in Germania? o si ritorna a votare a settembre? e per tre volte come in Spagna, dato che, almeno nell’immediato, il cittadino europeo non sa correggere gli errori? Ma – e qui nessun ma è più sottolineabile di questo – allora il silenzio dei vescovi? (e finalmente!, dirà qualche acattolico che negli anni ha macinato bile per l’intrusione della Chiesa nei fatti italiani). I vescovi si preoccupano di mantenersi equidistanti da ogni schieramento politico? Giusto: è richiesto dalla natura religiosa della loro missione, ma anche per evitare che il pluralismo dei cattolici, legittimo in politica, produca lacerazioni e divisioni nella vita della comunità ecclesiale. Tuttavia, la necessaria equidistanza dagli schieramenti partitici non significa neutralità di fronte alle implicazioni etiche e sociali dei diversi programmi politici. Ed oggi si può permettere che non avvenga un discernimento tra proposte che in forza di un egoismo nazionale, si impalcano con rosari e testi del vangelo a difensori di una civiltà che è incivile e dunque anticristiana? C’è un tempo per tacere e un tempo per parlare, disse nel lontano 1995 il cardinal Martini: “La Chiesa non deve tacere perché in Italia è in gioco la sopravvivenza dell’ethos politico. Non è la Chiesa come tale a essere in pericolo; è la natura stessa della politica e quindi della democrazia”. E il cardinale –siamo a ventitré anni fa ma risuona il suo allarme quanto mai attuale – esemplificò così, nel discorso di sant’Ambrogio rivolto alla città: la Chiesa non può rimanere neutrale o muta nei confronti di una cultura politica che contesta la funzione dello Stato nella tutela dei più deboli; nei confronti di una logica decisionistica che cerca di estorcere il consenso per via plebiscitaria; dinanzi al diffondersi di un liberismo utilitaristico che fa del profitto, della efficienza e della competitività un fine, a cui subordina le ragioni della solidarietà; in presenza di una politica che si rifà a una logica conflittuale inaccettabile. Dai pulpiti delle mille chiese italiane è scesa qualche parola di discernimento? O si lasciato che ciascuno sbandasse secondo se stesso? Una predicazione del Vangelo può finalmente attingere alla libertà di tradurre nei fatti che si vivono e secondo le persone che sono date. Non solo può, ma deve. A costo di far storcere il naso a chi si sentiva ormai rassicurato da preti rinchiusi in sacrestia.
Cittadini
Il proverbio è non è virale come dovrebbe, in tempi che viviamo: se per virale intendiamo il diffondersi particolarmente veloce e capillare, come invece avviene per ben altre cose molto meno sapienziali. Come, ad esempio, è rilevato dai dati drammatici che evidenziano il diffondersi di una dialettica della violenza che viaggia soprattutto online. Eppure, se c’è una certezza in questa vigilia incerta di elezioni, dovrebbe finalmente disturbare, e per tempo, l’antico proverbio che risale sino a una rivisitazione di un verso dantesco: chi è causa del suo mal, pianga se stesso. C’è stata la Brexit, per dire. E l’elezione del nuovo capo della Casa Bianca. Lì molti giovani non sono andati a votare. Gli stessi che, il giorno dopo, si sono messi in piazza a contestare l’una cosa e l’altro. Il doveroso “dove eravate” nel momento della decisione non è l’eco del “ve l’avevamo detto”, o almeno non solo. Persino il vangelo potrebbe avvertire: vi suonavamo il flauto e non avete ballato, vi chiamavano a decidere e vi siete sottratti. Colpa di Internet, che dà a tutti la possibilità di esserci senza esserci? Qualcuno, tanti, credono non sia più possibile fare a meno di internet; ma proprio per questo “bisogna capire che non ci può più essere distinzione tra un comportamento online e offline”, tra lo stare alla finestra e lo scendere in piazza. Le conseguenze sono sempre reali: instabilità, avventurose voglie del proviamo anche questa, incapacità di un realismo che tenga conto di una democrazia che per quanto ammalata, non può essere abbandonata nel suo letto di insufficienze. A fronte di richieste impossibili, e di promesse inattuabili occorre sapersi determinare verso chi riesce a stare dentro schemi possibili, per quanto insoddisfacenti. Tutti vorremmo la perfezione, ma ce la vogliamo riconoscere l’imperfezione come connaturale all’essere umani? E dunque la gradualità, e dunque la progressione: che non è il progresso così come lo intendiamo da troppi decenni – sempre avanti, sempre di più – ma un processo, che è avanzamento e soste. Che è giudizio. Scegliere la solidarietà, e chi meglio la propone, è l’agire responsabile di un cristiano che sia un cittadino affidabile. Perché la solidarietà è il comandamento primo e riassuntivo di ogni altro: da quando il Figlio di Dio si è fatto solidale, nell’Incarnazione, con l’umanità, fino a dare se stesso. Una solidarietà che prepara l’aprire le porte a chi viene da fuori, ma nell’allenamento all’accoglienza di chi sta vicino. E il buon vicinato è misura di scelte della politica: correggere gli egocentrici sta nella solidarietà; e opporsi ai fomentatori delle paure è carità. Pronti a crearsi avversari e nemici, incuranti di generare facili consensi, e impassibili – della impassibilità generativa insegnata dal Rosmini – di fronte a critiche ingenerose. Così, questo primo scorcio di quaresima diventa il momento giusto per interrogarsi su come, da cristiani, vogliamo vivere da cittadini. Piangere dopo è da sepolcri imbiancati. Avvertirsi – e avvertire – prima, è da persone adulte. Tornare a sorridere può essere difficilissimo. Superare fatica e dolore, vincere diffidenze, togliere il superfluo che ci spegne, cambiare: niente di tutto questo è semplice o immediato. Ma doveroso. E, alla fine, appagante già in questo mondo, e non solo in paradiso.
Notizie
Dunque si può usare Gesù per vendere qualsiasi cosa. Lo stabilisce la Corte suprema d’Europa. Dicendo che quel Gesù – un giovanotto anni sessanta, un po’ sdilinquito, naturalmente biondo ma anche di rose tatuato, mani nelle tasche di un pantalone azzurrino, sguardo languido rivolto al cielo: insomma uno di quei santini che aborrisco, e così lontano dall’uomo della Sindone, quanto il cielo sovrasta la terra!; dunque affermando che quel Gesù non offende nessuno. Che può essere vero: ci sono bestemmie peggiori. E contemporaneamente falso: perché sicuramente offende almeno il buon gusto; e il rispetto verso chi non vorrebbe contaminato da manifesti stradali quel sentire che è intimo ad alcuni uomini. Come e non meno di una relazione amorosa. E soprattutto, e ancora una volta, per vendere, vendere, vendere. Che è il paradigma del consumismo capitalistico, nelle cui spirali ormai si è presi fino a un inevitabile stritolamento: e tuttavia lo chiamano progresso, quelli che arricchiscono sé impoverendo il mondo (chiamare invidia dei poveri verso i ricchi, quando si accusano le ricchezze dei pochi contro i molti, è solo lo slogan, quanto miserabile!, di chi non si smuove da un egoismo pervicace). E oltretutto usando di quel Gesù contro se stesso, e contro la sua buona notizia: guardate i gigli del campo e gli uccelli del cielo, e immaginate un guardaroba più green, tanto per usare un dialetto estero per dire sobrietà. È vero: è cosa vecchia; vent’anni fa si è dato il nome di Jesus ad un jeans. Perché prendersela, per una cosa così quando nel mondo vi sono altre notizie: ad esempio, non si legge nulla più dell’intifada che sta svolgendosi in Palestina. Ho ancora nelle orecchie l’agghiacciante grido delle donne palestinesi sulla spianata delle moschee, quasi l’unico ricordo indelebile del mio ultimo viaggio a Gerusalemme. Non le pietre della Terrasanta, ma le voci di chi non ha voce, per l’insipienza di chi detiene un potere di ingiustizia. E dunque si può certo sorridere per la notizia di un Gesù usato per vendere: non fosse che una Corte suprema motiva la sua sentenza scrivendo che quei manifesti “non incitano all’odio”. Ma se incitano alla indifferenza? Se aiutano la china di chi scivola verso l’imperturbabilità per ogni cosa che pure dovrebbe valere per una convivenza umana? Noi cristiani, dove siamo? I responsabili della Chiesa “alta”, silenti per tanto tempo, stanno da un po’ di tempo allarmando le genti: e siano rese grazie a Dio. Ma gli altri? i pastori della quotidianità, afflitti da attenzioni al territorio, ma senza la vocazione dell’Incarnazione che è la povertà di Betlemme e lo stare ai piedi delle croci degli uomini? Tra pizzate e tavoli di pensiero, tra adunate e riorganizzazioni di strutture, da quale vangelo si stanno allontanando? Che stile di vita incoraggiano? Non, forse, un individualismo personale o anche di gruppo, ma dove le relazioni non sono mai al di fuori di sé – fuori dalla Chiesa – se non solo a parole? Il monito della Gaudium et spes risuona o si è spento? “Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore”. È proprio così, ancora? e fermamente? e per i “poveri soprattutto”?
Dialetto
Se non fosse che bisogna pure tenersi un poco in contatto con il mondo, scollegherei il tv di casa mia. E non solo perché il canone che paghi è dato solo per il riciclaggio continuo di cose viste e riviste almeno cinque volte (parlo dei telefilm gialli che sono l’unico mio divertissement); e non solo perché i telegiornali hanno la fattura di pastoni, dove la cosiddetta par condicio li infila l’uno sull’altro – i politici, intendo – senza alcun discernimento. Così provocando quegli accumulati popoli dell’ignoranza che siamo diventati, pur nei diversi dialetti, che – ora disimparati – ci potrebbero salvare. Quel che sta avvenendo in questi primi giorni dell’anno, mi ricorda quel proverbio che avverte di stare attenti al piede di partenza: Arda come i va i dé dal du al dùdes de Zenér: anno buono o cattivo? vero o ipocrita? Dal due gennaio a oggi se ne sono sentite di tutte: prima dentro poi fuori l’euro; quattrocento – o quattromila? – leggi da cancellare (operazione che già fu slogan di un ministro bergamasco, cui, pur capace a proprio dire di porcate, non riuscì neppur per una); basta tasse universitarie per tutti – e detto dalla sinistra che si mette a sinistra fa arricciare i capelli anche ai calvi, per il principio di non contraddizione che vorrebbe contributi diversi a secondo dei redditi: e su tutte le tasse; riesumare vecchie leggi sulle pensioni, che (all’erta giovani che state votandoli!) metterebbe nel baratro un intero futuro. Insomma, direbbe sempre l’antica saggezza popolare, töcc i cà i fa ‘ndà la cua; töcc i coiò i völ dì la sò. Il problema è, più volte sottolineato, che politici non si nasce: si diventa. E si diventa imparando: le sane scuole di formazione che gli antichi partiti avevano, sono soppiantate da internet, dove tutti diventano bravi ascoltando i ribollimenti del proprio ventre. E diffondendoli. Dimentichi di quel proverbio milanese che sulla sponda di dirimpetto al mio paese risuonava severo: offelee, fa el tò mestee. La competenza, ecco cosa sembra mancare in questi primi giorni di gennaio, ma non solo da ora. Il sapere che conduce al discernimento: discernimento che si acquista con fatica, con studio, e non certo nei prati di quei mascherati nuovi celti che dei celti non sanno nulla; o di quelle piazze virtuali, finto-democratiche, che di fatto impongono un liderismo senza confronto. Parlando a dei giovani, ieri il ministro dell’economia avvertiva: “Diffidate di chi vi propone delle scorciatoie, da chi vi dice che i problemi sono semplici e che le soluzioni sono a portata di mano. La verità è tutt’altra: i problemi sono complessi perché complessa è la società. Se fate una scelta che produce benefici per alcuni, probabilmente dovrete finanziarla con risorse da sottrarre a qualcun altro. Che non sarà contento. La politica economica è fatta di scelte che allocano risorse, magari spostandole da una funzione economica a un’altra. Ogni partito cercherà di conquistare la fetta di consenso la più ampia possibile, ma attenzione, non tutte le promesse sono realizzabili”. A questa buonsenso fa eco il vescovo Galantino: “Occorre un sussulto di onestà, realismo e umiltà da parte di coloro che chiedono il nostro voto”. Una intromissione del potere ecclesiastico, o una saggezza minima comune a chiunque ragioni? Un tempo i preti erano anche maestri nei paesi: insegnavano il Vangelo partendo dall’abc della scrittura per innestare l’abc della vita: saranno i pulpiti odierni capaci di coniugare Vangelo e città?
Presepe
La tradizione vuole che lo abbia inventato san Francesco. E invece si scopre, come per tante altre cose man mano si dipana la storia, che anch’esso, il presepe, fosse presente ancor prima dell’anno mille. E non poteva essere diversamente. L’incarnazione è il centro della storia, non solo cristiana: se crediamo ad unico Dio; se non lo vogliamo monolite solitario; se nell’imbastimento dell’amore che si traduce dalla Trinità all’uomo avviene quell’atto tanto incomprensibile quanto necessario che è la sua discesa tra noi, nel Figlio. Rappresentazioni diverse, secondo i secoli e secondo le culture: da grafie murali primitive agli affreschi di Giotto; dalla paglia di Greggio ai suntuosi scenari dei presepi napoletani. Certo anche per me il presepio era il muschio da strappare al ceppo d’argine dell’Adda; e il grande camino della casa del nonno dove comporre le prime – primitive – architetture di un paesaggio; e le statuine da spolverare, e la cartapesta e il cielo stellato. (Avrei avuto da adulto quell’altro presepe senza Bambino: indispensabile da chi ha saputo apprezzare la provocazione contro l’ipocrisia di chi voleva allontanare disarmati africani dal quartiere; ma molto più indispensabile per chi, in Internet e no, ha lamentato di un sacrilegio, volendo essi celebrarsi da cristiani, non essendolo. L’indispensabilità di un segno finalmente caricato di un significato non meccanicistico, non piegato alle logiche di un 25 dicembre ormai senz’anima. Un presepio vuoto, quell’anno, in quella parrocchia, ma – nelle case e nelle chiese di tanta Italia – che ha finalmente parlato. E ha fatto parlare di quel Gesù che è venuto “per qualcosa” di irrinunciabile, ed è venuto “per tutti”.). Ma il presepe ha una valenza rappresentativa pure secondo ciascuno. Per me natale è un’antica immagine che mi porto dentro da poco dopo la nascita: tra favola e realtà, direte – ma il Natale sta appunto tra favola e oggettività, tra rappresentazione e realtà. Una finestra, una donna con un bambino abbracciato, una luna piena e tonda, grande e rossiccia. Qualcosa che dagli occhi si fissa nella mente: e dalla mente passa all’incontenibile senso della vita che accompagna quel bambino per sempre. Una sorgente di meraviglia che è bellezza e abbraccio. È una memoria che ha fissato tanta parte della mia vita: e ricavata da quell’affaccio che si è fatto consapevole man mano scorrevano i giorni. Una bellezza e un abbraccio. Di una mamma e di suo figlio, di un uomo e il suo Dio. Un presepe o è mio o finisce non essere di nessuno. Per quanto inadeguato, ho vissuto di quell’inconscio stabilirsi in me di quel momento. Ora mi vedo ancora a quella finestra, a quella luna sopra i tetti, a quello splendore di luce riflessa. Ora ancora ringrazio di quella grazia.
Cassandra
Per quei due miei lettori che sentono questo nome per la prima volta: è una che aveva il dono della profezia. Ma, si sa, non tutte le profezie sono gradevoli. Dunque quando predisse che la sua città sarebbe stata distrutta, non fu presa a sassate, ma quasi. Anzi peggio, perché i contemporanei pensarono bene di passare a noi il suo nome come foriero di sventure. Chi vede sentieri storti, e avverte, non solo anche oggi non è ringraziato, ma si sente dire: non fare la Cassandra. Cui si dovrebbe rispondere: e tu non fare lo struzzo; immergendo gli occhi nella sabbia o voltandoli da un’altra parte, non ti salvi. Così può sembrare a qualcuno fuori luogo usare in tempo d’avvento parole che apparentemente non sono di speranza. Apparentemente: perché vivere di speranza vuol soprattutto dire accorgersi. Di quel che avviene, che diventa segno di quel che verrà. Stolti!, capaci ormai di leggere nel cielo delle matematiche meteorologiche quando nevicherà oppure no, e del tutto incapaci di lasciarsi cogliere da fremiti di ragionevole timore di fronte a una umanità che sta scivolando. Chi ancora pensasse che non tocchi ai pulpiti cristiani occuparsi delle cose della terra – ma soprattutto di quelle che vanno sotto il nome di politica – non solo è fermo a quella cantina di pregiudizi che han fatto fiorire le cose peggiori nei decenni scorsi sulla responsabilità personale; ma, e principalmente, si prepara a scartare le possibili voci che facciano da corno di richiamo alla vigilia di tempi bui. Lo sapete: dire dai pulpiti la parola comunismo – contro, naturalmente!? – non solo è possibile, ma desiderabile. Dire la parola fascismo, no. Non capendo che già è fascismo non poterla pronunciare. Predicare che il fascismo è l’esatto opposto del fatto cristiano: perché – nazionalista autoritario e totalitario – nega ogni premessa di quella fraternità senza la quale non si fa Vangelo; e dunque avvertire che le fobie contro la libertà degli individui e l’ospitalità allo straniero necessariamente sconfinano da una appartenenza verace alla Chiesa: questo non può essere taciuto, o rimosso nel panorama che il nostro mondo sta vivendo. Non è enfasi esagerata oggi l’avvertenza di persone attente sulle orde nere che avanzano nelle menti di troppi nostri connazionali, di troppi che frequentano le nostre chiese (la storia è maestra? macché!). Essere costretti a marciare contro le marce di individui che già han scelto la divisa, e che già si sono posizionati di fronte agli avversari, giornali o sedi di volontariato, è il segnale di un pezzo di terreno già perso. Siamo in una vigilia: e in vigilia le sentinelle ancor più debbono scrutare. Perché non si finisca in quei tanti natali che sprofondano in un clima festoso dimentico del dolore che non vien mai meno. Natali sordi e muti: se non sono la festa dei poveri betlemiti dell’oggi, se non si sottraggono alla ipocrisia di chi si inscrive nella massa di chi chiude le porte della città, sottraendosi all’arte del “buon vicinato” che prepara ogni pace. Specialmente se credenti, occorre osare, per fare di questo Natale una qualche rinascita. E se per arrivarci occorrerà prenderci il fardello di cassandre, sarà un prezzo giustificato della fede che ci rende liberi. Di fronte ai potenti del mondo. E agli arroganti.
Rancore
Cresce. E cresce in quella parte d’Italia che si sente abbandonata. È la notizia di questi giorni: e ce la dà il Censis: “Il Paese riparte, la produzione industriale vola anche più di quella tedesca, e corrono i consumi, anche quelli accantonati per tanti anni come i viaggi e la cultura. Ma buona parte del Paese rimane indietro, crescono il rancore e la paura”. Un sentimento covato nell’animo, il rancore. Fatto di sdegno, di invidia, di odio. Che può esplodere. E quando esplode, che succede? Pagine di storia sono lì a dirci che cosa è successo. E la paura di molti, che il rancore non abita, si domanda che cosa potrà succedere. Giorni fa, ci si chiedeva se – pur in un democrazia consolidata come pare essere la nostra (ma è proprio così consolidata? e il frazionamento in infiniti partitelli ciascuno chino sul proprio laboratorio di potere?) – ci si chiedeva se non fossimo alla vigilia di rivolte con sbocchi autoritari. Scrivono che un italiano su quattro vorrebbe l’uomo forte, quello capace di mettere tutto a posto: col manganello? O cominciando con la violenza di chi entra in una assemblea di volontariato, imponendo i propri proclami demenziali? Con la violenza di parole e di presenza che stordisce ancor più delle randellate? Solo un gruppetto di neofascisti in perfetto stile squadrista – stessa mise e stessa testa rasata – che legge “democraticamente” (dicono di sé) un volantino contro l’immigrazione, irrompendo su volontari increduli e impauriti? O l’avanguardia di un fascismo disorganico ma già diffuso nella nostra società? (non vi pare strano che siano naziskin veneti ad arrivare a una riunione a Como? quale rete ormai collega questi nuovi rivendicatori di una razza pura? Quella veneta? O comasca? O bergamasca?). Che cosa è il fascismo l’han detto bene quei tipi: “Ora potete riprendere a discutere di come rovinare la nostra patria e la nostra città. Nessun rispetto per voi”. Sta infatti lì l’evidenza di un convincimento rischioso: la rivendicazione di una diversità privilegiata da chi non la pensa come loro, ponendosi al di sopra delle leggi in nome della pretesa superiorità della loro etica politica: chi si oppone al fascismo è considerato un nemico della nazione, contro il quale è lecita qualsiasi forma di violenza. È troppo pensare di essere nella stessa vigilia degli anni venti del secolo scorso? Nasce la paura, che non è solo quella di non farcela alla fine del mese, alimentata da chi verrebbe qui da oltremare a portar via posti di stradino o di becchino, così contesi da giovani italiani! È la paura di una coscienza collettiva che possa ergersi a giudice della storia: quella che si fa andando, e dunque quella dei giorni che viviamo. Mi ha lietamente colpito un servizio televisivo sulle Filippine: un prete che dal pulpito chiede quando si dimetterà quel loro dittatore, che proclama di voler sterminare “tre milioni di drogati come Hitler ha saputo sterminare tre milioni di Ebrei”. Per uno che sta in un paese dove battaglioni della morte ti entrano in casa e uccidono tuo fratello, tuo figlio solo perché drogato, beh converrete che è un bel coraggio. Certo avviene mentre quegli omicidi di massa sono in corso. E prevenirli, almeno là dove si è ancora in tempo? Qui da noi? Prendere le distanze, da quanti fanno da acquario con le loro politiche ambigue a quei piranha, è compito cristiano. Dei cristiani. In particolare di chi ha il dovere di accompagnare nella fede della Chiesa, dai pulpito o dalle sale di convocazione di quanti non disperano ancora sul futuro. Qui gli alberi si stanno spogliando nell’imminenza dell’inverno. E rivelano così l’architettura più o meno sagomata dei tronchi e dei rami. È tempo di scoprire l’architettura contorta di chi ci circonda, predisponendo selve abitate da belve.
pietas
Il termine latino meglio di pietà: nel mondo greco-romano indicava un atto di sottomissione: anzitutto la devozione dovuta agli dei, poi il rispetto dei figli verso i genitori. Oggi, traducendolo con pietà, lo si identifica con quel pietismo, piuttosto diffuso, che è solo un’emozione superficiale e offende la dignità dell’altro. In quell’altro mondo, da cui pure facciamo provenire tanta parte della nostra cultura, il rispetto di chi sta davanti formava un ammonimento a lasciarsi prendere per mano. E dunque, caro Cristiano, quanto mi scrivi riguardo al DaQui ultimo merita una risposta: “L’arrabbiatura con il prete di Bologna non era per le sue parole di condanna di un atteggiamento “a rischio”, quanto per la sua (apparente, a quanto pare) mancanza di pietà. Sbaglio? In compenso, oggi, un altro prete, sempre di quelle zone, ne ha fatta un’altra… Cosa sta succedendo?”. Appunto, cosa sta succedendo? La prima cosa che mi viene in mente è che i preti sono stanchi di essere confinati in sacrestia, dove stare bonini bonini a farsi le cose loro, non venendoci addosso con i loro disturbi celibatari. E sono stanchi di non essere riconosciuti nei loro sentimenti: che talvolta, come succede ad ogni altra persona, possono esplodere anche in un linguaggio non soave, o non misurato. Che vadano a confessarsi, certo, per i loro sbagli: ma gli vogliamo permettere di essere peccatori, e non solo per il sesto o il settimo comandamento? Saltargli subito addosso, con il libertinaggio favorito da Internet, senza aver ascoltato il tono, senza aver visto a chi stavano parlando? L’incriminata “se l’è andata a cercare” fuori dal contesto è certamente irricevibile: ma quanto pietismo ipocrita c’è, solo perché questo è mio figlio? Non è forse un genitore l’ultimo che vuol accorgersi dell’abisso di devianze verso cui si sta incamminando proprio il suo di figlio? La pietas è ammonire: e questa azione ha talvolta bisogno di uno scandalo apparente, per svegliare dal sonno; ha bisogno di quel pugno che papa Francesco ha detto di essere indotto a dare a chi parla male della propria madre. E molti a commentare allora (molti di quelli che Francesco proprio non se lo fanno digerire) che un papa certe cose non le deve dire. O le deve dire? E le deve dire un prete accorto? E non può non dirle qualsiasi adulto cui stia a cuore che certi esempi siano bollati, con forza, perché finalmente ci si scuoti? Dire poverina è rispettare la sua dignità, quella che ogni pietà vera esige? Ed anche: stento a credere che il secondo prete di Bologna abbia voluto assolvere il capo dei capi siciliano contrapponendogli la capo dei radicali. Semplicemente ha voluto richiamare un precetto del Signore, che racconta a chi vuol ascoltare che la vita è vita per tutti, e a nessuno è lecito violentarla, né nel grembo materno, né nel lungo arco di una esistenza. E magari (e spero che quel bolognese prete abbia aggiunto) non violentarla neppure impedendo alla vita di morire con dignità: che è poi l’ultimo atto di pietas chiesto a un uomo, che sia o no cristiano. So, per quanto ti conosco, che condividi tutto questo. Ma ti dirò che talvolta – guardando a destra e a sinistra e in su e in giù – mi sento come Ovidio esiliato tra i barbari di Tomi sul Mar Nero: diceva di sentirsi lui un barbaro, perché non ne capiva la lingua. Ecco: oggi il gorgoglio di pancia che parlano in moltissimi, non lo capisco proprio. E, ti dirò, preferisco essere un barbaro, uno straniero.