Cresce. E cresce in quella parte d’Italia che si sente abbandonata. È la notizia di questi giorni: e ce la dà il Censis: “Il Paese riparte, la produzione industriale vola anche più di quella tedesca, e corrono i consumi, anche quelli accantonati per tanti anni come i viaggi e la cultura. Ma buona parte del Paese rimane indietro, crescono il rancore e la paura”. Un sentimento covato nell’animo, il rancore. Fatto di sdegno, di invidia, di odio. Che può esplodere. E quando esplode, che succede? Pagine di storia sono lì a dirci che cosa è successo. E la paura di molti, che il rancore non abita, si domanda che cosa potrà succedere. Giorni fa, ci si chiedeva se – pur in un democrazia consolidata come pare essere la nostra (ma è proprio così consolidata? e il frazionamento in infiniti partitelli ciascuno chino sul proprio laboratorio di potere?) – ci si chiedeva se non fossimo alla vigilia di rivolte con sbocchi autoritari. Scrivono che un italiano su quattro vorrebbe l’uomo forte, quello capace di mettere tutto a posto: col manganello? O cominciando con la violenza di chi entra in una assemblea di volontariato, imponendo i propri proclami demenziali? Con la violenza di parole e di presenza che stordisce ancor più delle randellate? Solo un gruppetto di neofascisti in perfetto stile squadrista – stessa mise e stessa testa rasata – che legge “democraticamente” (dicono di sé) un volantino contro l’immigrazione, irrompendo su volontari increduli e impauriti? O l’avanguardia di un fascismo disorganico ma già diffuso nella nostra società? (non vi pare strano che siano naziskin veneti ad arrivare a una riunione a Como? quale rete ormai collega questi nuovi rivendicatori di una razza pura? Quella veneta? O comasca? O bergamasca?). Che cosa è il fascismo l’han detto bene quei tipi: “Ora potete riprendere a discutere di come rovinare la nostra patria e la nostra città. Nessun rispetto per voi”. Sta infatti lì l’evidenza di un convincimento rischioso: la rivendicazione di una diversità privilegiata da chi non la pensa come loro, ponendosi al di sopra delle leggi in nome della pretesa superiorità della loro etica politica: chi si oppone al fascismo è considerato un nemico della nazione, contro il quale è lecita qualsiasi forma di violenza. È troppo pensare di essere nella stessa vigilia degli anni venti del secolo scorso? Nasce la paura, che non è solo quella di non farcela alla fine del mese, alimentata da chi verrebbe qui da oltremare a portar via posti di stradino o di becchino, così contesi da giovani italiani! È la paura di una coscienza collettiva che possa ergersi a giudice della storia: quella che si fa andando, e dunque quella dei giorni che viviamo. Mi ha lietamente colpito un servizio televisivo sulle Filippine: un prete che dal pulpito chiede quando si dimetterà quel loro dittatore, che proclama di voler sterminare “tre milioni di drogati come Hitler ha saputo sterminare tre milioni di Ebrei”. Per uno che sta in un paese dove battaglioni della morte ti entrano in casa e uccidono tuo fratello, tuo figlio solo perché drogato, beh converrete che è un bel coraggio. Certo avviene mentre quegli omicidi di massa sono in corso. E prevenirli, almeno là dove si è ancora in tempo? Qui da noi? Prendere le distanze, da quanti fanno da acquario con le loro politiche ambigue a quei piranha, è compito cristiano. Dei cristiani. In particolare di chi ha il dovere di accompagnare nella fede della Chiesa, dai pulpito o dalle sale di convocazione di quanti non disperano ancora sul futuro. Qui gli alberi si stanno spogliando nell’imminenza dell’inverno. E rivelano così l’architettura più o meno sagomata dei tronchi e dei rami. È tempo di scoprire l’architettura contorta di chi ci circonda, predisponendo selve abitate da belve.