Dunque si può usare Gesù per vendere qualsiasi cosa. Lo stabilisce la Corte suprema d’Europa. Dicendo che quel Gesù – un giovanotto anni sessanta, un po’ sdilinquito, naturalmente biondo ma anche di rose tatuato, mani nelle tasche di un pantalone azzurrino, sguardo languido rivolto al cielo: insomma uno di quei santini che aborrisco, e così lontano dall’uomo della Sindone, quanto il cielo sovrasta la terra!; dunque affermando che quel Gesù non offende nessuno. Che può essere vero: ci sono bestemmie peggiori. E contemporaneamente falso: perché sicuramente offende almeno il buon gusto; e il rispetto verso chi non vorrebbe contaminato da manifesti stradali quel sentire che è intimo ad alcuni uomini. Come e non meno di una relazione amorosa. E soprattutto, e ancora una volta, per vendere, vendere, vendere. Che è il paradigma del consumismo capitalistico, nelle cui spirali ormai si è presi fino a un inevitabile stritolamento: e tuttavia lo chiamano progresso, quelli che arricchiscono sé impoverendo il mondo (chiamare invidia dei poveri verso i ricchi, quando si accusano le ricchezze dei pochi contro i molti, è solo lo slogan, quanto miserabile!, di chi non si smuove da un egoismo pervicace). E oltretutto usando di quel Gesù contro se stesso, e contro la sua buona notizia: guardate i gigli del campo e gli uccelli del cielo, e immaginate un guardaroba più green, tanto per usare un dialetto estero per dire sobrietà. È vero: è cosa vecchia; vent’anni fa si è dato il nome di Jesus ad un jeans. Perché prendersela, per una cosa così quando nel mondo vi sono altre notizie: ad esempio, non si legge nulla più dell’intifada che sta svolgendosi in Palestina. Ho ancora nelle orecchie l’agghiacciante grido delle donne palestinesi sulla spianata delle moschee, quasi l’unico ricordo indelebile del mio ultimo viaggio a Gerusalemme. Non le pietre della Terrasanta, ma le voci di chi non ha voce, per l’insipienza di chi detiene un potere di ingiustizia. E dunque si può certo sorridere per la notizia di un Gesù usato per vendere: non fosse che una Corte suprema motiva la sua sentenza scrivendo che quei manifesti “non incitano all’odio”. Ma se incitano alla indifferenza? Se aiutano la china di chi scivola verso l’imperturbabilità per ogni cosa che pure dovrebbe valere per una convivenza umana? Noi cristiani, dove siamo? I responsabili della Chiesa “alta”, silenti per tanto tempo, stanno da un po’ di tempo allarmando le genti: e siano rese grazie a Dio. Ma gli altri? i pastori della quotidianità, afflitti da attenzioni al territorio, ma senza la vocazione dell’Incarnazione che è la povertà di Betlemme e lo stare ai piedi delle croci degli uomini? Tra pizzate e tavoli di pensiero, tra adunate e riorganizzazioni di strutture, da quale vangelo si stanno allontanando? Che stile di vita incoraggiano? Non, forse, un individualismo personale o anche di gruppo, ma dove le relazioni non sono mai al di fuori di sé – fuori dalla Chiesa – se non solo a parole? Il monito della Gaudium et spes risuona o si è spento? “Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore”. È proprio così, ancora? e fermamente? e per i “poveri soprattutto”?