La tradizione vuole che lo abbia inventato san Francesco. E invece si scopre, come per tante altre cose man mano si dipana la storia, che anch’esso, il presepe, fosse presente ancor prima dell’anno mille. E non poteva essere diversamente. L’incarnazione è il centro della storia, non solo cristiana: se crediamo ad unico Dio; se non lo vogliamo monolite solitario; se nell’imbastimento dell’amore che si traduce dalla Trinità all’uomo avviene quell’atto tanto incomprensibile quanto necessario che è la sua discesa tra noi, nel Figlio. Rappresentazioni diverse, secondo i secoli e secondo le culture: da grafie murali primitive agli affreschi di Giotto; dalla paglia di Greggio ai suntuosi scenari dei presepi napoletani. Certo anche per me il presepio era il muschio da strappare al ceppo d’argine dell’Adda; e il grande camino della casa del nonno dove comporre le prime – primitive – architetture di un paesaggio; e le statuine da spolverare, e la cartapesta e il cielo stellato. (Avrei avuto da adulto quell’altro presepe senza Bambino: indispensabile da chi ha saputo apprezzare la provocazione contro l’ipocrisia di chi voleva allontanare disarmati africani dal quartiere; ma molto più indispensabile per chi, in Internet e no, ha lamentato di un sacrilegio, volendo essi celebrarsi da cristiani, non essendolo. L’indispensabilità di un segno finalmente caricato di un significato non meccanicistico, non piegato alle logiche di un 25 dicembre ormai senz’anima. Un presepio vuoto, quell’anno, in quella parrocchia, ma – nelle case e nelle chiese di tanta Italia – che ha finalmente parlato. E ha fatto parlare di quel Gesù che è venuto “per qualcosa” di irrinunciabile, ed è venuto “per tutti”.). Ma il presepe ha una valenza rappresentativa pure secondo ciascuno. Per me natale è un’antica immagine che mi porto dentro da poco dopo la nascita: tra favola e realtà, direte – ma il Natale sta appunto tra favola e oggettività, tra rappresentazione e realtà. Una finestra, una donna con un bambino abbracciato, una luna piena e tonda, grande e rossiccia. Qualcosa che dagli occhi si fissa nella mente: e dalla mente passa all’incontenibile senso della vita che accompagna quel bambino per sempre. Una sorgente di meraviglia che è bellezza e abbraccio. È una memoria che ha fissato tanta parte della mia vita: e ricavata da quell’affaccio che si è fatto consapevole man mano scorrevano i giorni. Una bellezza e un abbraccio. Di una mamma e di suo figlio, di un uomo e il suo Dio. Un presepe o è mio o finisce non essere di nessuno. Per quanto inadeguato, ho vissuto di quell’inconscio stabilirsi in me di quel momento. Ora mi vedo ancora a quella finestra, a quella luna sopra i tetti, a quello splendore di luce riflessa. Ora ancora ringrazio di quella grazia.