Una volta era l’orgoglioso modo di sentirsi appartenente alla schiera di chi il mondo lo leggeva con occhi di giustizia; o come appartenenza sociale: compagno di scuola, del servizio militare, di squadra sportiva, e che si prolungava ben oltre gli anni. Ora è cambiato l’uso. Adesso ha preso il posto di quelle definizioni che stavano a segnare un cammino d’amore: fidanzato/a, sposo/a. A sentir dire, oggi non ci sono più mogli e mariti. Ci sono compagni. Però a me sembra che manchi l’orgoglio nella pronuncia, quell’orgoglio che era frutto di una scelta condivisa, di un offrirsi al mondo insieme. Certo, un tempo non c’erano i divorzi: e dai molti lo si racconta come fosse una disgrazia. Mentre disgrazia è questo condursi di fiore in fiore, neppure si fosse dei calabroni. So che è un parlare nel deserto, al deserto. E mi rintronano le orecchie di accuse di passatista, eppure so di non essere per genetica un conservatore. Non mi intristisco per l’accusa. Mi intristisco per la sordità del tempo arrivato a un punto zero della storia. Ben inteso, uno dei tanti punti zero che la storia ha registrato: ma gli altri non li ho vissuti, e questo non avrei voluto viverlo. Passato attraverso le speranze del Concilio; e poi in quel sessantotto così vituperato dagli inetti, e che tuttavia penetrò persino tra le mura del Seminario a chiamarci a una vocazione rinnovata; passato attraverso l’euforia della pace che fu la caduta del muro di Berlino; e attraversato da quell’epoca tragica che trovò le parole migliori sul terrorismo in Paolo VI, il papa che osò rimproverare Dio: Tu non hai esaudito la preghiera per il nostro amico. È questione di fede? È questione di fede. Le nostre preghiere inascoltate, sulla vita nostra e di quanti ci stanno a cuore: che sono molti di più della tribù biologica cui apparteniamo. Sono gli uomini e le donne che stanno condividendo questi anni: vicino a noi o lontani da noi. È questione di fede sapere – ed è il sapere della grazia non prodotto umano – che finché non si accettano le sconfitte per ripartire da esse, resisteranno compagni e compagne mai trasformati in una scelta. Non esemplificando più alle giovani generazioni la possibilità della resistenza dentro le cadute. Anche della caduta di un ponte: la rassegnazione, la fatalità di chi vive l’emozione di un momento e poi la scavalca, neppure fosse un qualsiasi sasso sull’asfalto: questo il punto zero che stiamo tramandando a chi avrebbe diritto ad essere forgiato in ben altro modo. Il punto zero delle emozioni senza ragione: implica la fede, la ragionevolezza di chi sa la scienza non più superba detentrice del sapere: ma attenta a indicare i propri confini. Ogni spazio ha le sue frontiere. Consegnare un oggi senza proiezione sul futuro, è questo che fa il vissuto di emozioni senza il vaglio della ragione. Ho bisogno, dunque prendo. Naturalmente scrivo partendo dai miei sbagli: persino Abramo non fu una persona perfetta, immagina me! Ma scrivo come chi non vi si rassegna a veder ripetere gli stessi errori: perché i tempi del punto zero non hanno barriere. La fedeltà è un dono che si può ricomporre anche dopo un fallimento: ma la si deve chiamare con il nome giusto, per non stare in quel limbo dove si tengono aperte tutte le porte, all’insegna del Non-si-sa-mai. Come calabroni, appunto.