Il post- come caratteristica dell’ultimo secolo. E così si è raccontato di aver attraversato, in successione, una società post-illuminista, post-fascista, post-comunista. Dando la tara: perché di illuminismo e fascismo e comunismo restano intrisi molti animi, seppur in quantità e qualità diverse, ma non tanto da incidere sulla figura della società in cui viviamo. (Senza naturalmente disconoscere i ritorni: quelli che avvengono all’est dell’Europa, o in confini tra loro estremi della geografia politica). Ora, se non ci siamo ancora, poco ci manca a definirci una società post-cristiana: qui da noi, in cui Roma è caput mundi per la sua storia millenaria e per la sede cattolica che ne ha preso il peso, e anche la zavorra. Naturalmente, i post- nella misurazione ideologica: un pensiero che non si fonderebbe più su … san Paolo, tanto quanto si era fondato su Voltaire, Evola o Marx. (Dico su san Paolo, e non su Gesù; per raccogliere il pensiero di chi, appunto ideologicamente, indica nel cittadino di Tarso il vero fondatore del cristianesimo: in quanto sistema dottrinale e morale, se non anche organizzativo.). Ma pensare una società post- cristiana è pensare alle catacombe dei cristiani? Di primo impulso direi: perché no? Se non è un ritiro nelle sacrestie, ma uno stare in disparte rispetto alle logiche di potere del mondo; e poi uscire a mostrare la faccia di chi crede nel Risorto, fino a sfidare i colossei del nostro tempo – i colossei dell’indifferenza, dove si può essere sbranati più di tanti leoni affamati – non ve la sentireste, miei venticinque lettori, di unirvi a me in quel perché no? Messi di fronte a una radicalità evangelica di un Francesco che vive oggi in Roma come fosse nelle piane di Assisi, a ricostruire pietra su pietra una chiesuola diroccata; frustati da quella incomprensibile opposizione dal di dentro di questa Chiesa cui apparteniamo, chiamata a convertire oggi la mente prima ancora che le azioni (frustati ma non frustrati): più che mai oggi a ridire che il cristianesimo non si limita al culto ma al coinvolgimento di tutta la vita nella sua totalità. Un post- dunque che può rigenerare. Che è, alla fin fine, poter gridare il Risorto come l’uscita da una irresponsabilità per la felicità di ogni uomo. Un cristianesimo finalmente potato da rivincite di forza, e ridefinito in quella purezza dei cuori che è Vangelo. Vescovi e preti (e diaconi) finalmente ricollocati dentro il popolo di Dio, e non sopra, in quell’accezione del servizio che non può sfuggire all’esempio del Signore che si china – il suo ultimo testamento – perché si impari a chinarsi: alle sporcizie che ci accompagnano nei giorni, alle fragilità che non devono intristire ma solo immetterci ancor più nella misericordia che salva. È tempo della Pasqua che continua: qui, in Fontanella, il mattino è abitato dal canto degli uccelli. Quelli che se ne intendono, mi dicono che il primo mattino corrisponde al momento in cui sono più deboli, dopo il digiuno della notte; e gli uccelli maschi, cantando all’alba, vorrebbero dimostrare di essere pieni di energia; e di chiamare a quella compagnia che aiuta a difendere il nido per chi si è generato; e, in genere – sempre al dire di chi se ne intende – i migliori cantori sarebbero scarsamente colorati: non potendo attirare con i colori del piumaggio, utilizzano la voce. Debolezza e energia. E compagnia. E ciascuno secondo le proprie possibilità, nelle proprie diversità. Il canto degli uccelli, qui, stamane, pur in questo cielo plumbeo, foriero di tempesta, intona la promessa tramandataci dall’evangelista Matteo: Ecco io sono con voi tutti giorni, fino alla fine del mondo. È la Sua compagnia, la compagnia del Risorto. Che si nutre della compagnia di quanti sono resurrecturi: già da questa vita risorgono, si rigenerano e così rigenerano quel corpo testimoniale che è la Chiesa di Cristo. Lo crediate o no, qui sulla finestra del mio studio che dà sui tetti si è ora posato un minuscolo uccello, e dà qualche piccolo trillo. Mi conforta allietandomi.