Quando si ha un po’ più di tempo a disposizione – e l’estate è questo tempo, quando si rallentano gli impegni dell’anno – ci si può dare a riprendere i libri del liceo. E uno in particolare che mi aveva allietato, sottobanco, durante lezioni noiose, era sull’etimologia delle parole italiane derivate dal latino. Quelle che hanno la stessa radice ma significati diversi: ad esempio, le due parole tradizione e tradimento. Due parole che non potrebbero essere così distanti. All’apparenza. Perché derivano entrambi dal consegnare: nel primo caso la consegna riguarda tutto ciò che viene passato dalle mani di una generazione a quelle di un’altra, per salvaguardarlo dallo scorrere nel tempo; nel secondo caso, invece, la consegna riguarda qualcosa che dovrebbe essere protetto, e invece viene svenduto. Ed è il tradimento, che si conosce nelle sue svariate sfumature, a principi cui pure ci si è votati: l’infedeltà coniugale, che si esprime in una doppia vita, senza più remore, all’insegna dell’autorealizzazione che giustifica ormai ogni comportamento; e c’è il fenomeno dei voltagabbana, di chi si consegna superficialmente a una ideologia contraria, e lo si è sperimentato massicciamente nelle ultime scelte elettorali; ma si tradisce con l’apostasia: e pare che tradire la propria fede a favore di soluzioni più immediatamente appaganti stia dilagando molto tra il popolo cristiano. Più semplicemente, ma non meno pericolosamente, è un tradimento il falsare le cose, il travisare con menzogne, di cui si è ben consci, i fatti della vita: e sempre a proprio vantaggio, personale o politico. Ma c’è un tradimento che tocca la Chiesa, e proprio nella sua Tradizione: lungo i secoli, per alleggerire il giogo che il Vangelo comporta – è un giogo leggero, ma lo si vuole più leggero – ci si è piegati alle tradizioni, che hanno impelagato fino ai nostri giorni l’essere discepoli evangelici. Da lì l’incapacità che si sperimenta nell’accettare il vento nuovo dello Spirito. Si giunge a sospettare della novità che appartiene al Vento che spira in tempi diversi in modi diversi, per non lasciarsi sgusciare da ingessature che sono lontane da quanto il Nazzareno è venuto a dare. Si è detto che Gesù non è venuto a fondare una religione, ma a chiamare a una fede. In sede di dibattiti lo si accetta, così come si accetta che un modo religioso è indispensabile alla fragilità dei discepoli. Ma quando il modo religioso si sovrappone alla fede, tanto da renderla insignificante? Allora non conta più essere beati perché si accoglie lo straniero, invece che lasciarlo alle porte della città. E non conta quanto ci è stato detto, e sarà tema di giudizio: forse Matteo 25 dovrebbe essere predicato più incisivamente e opportune et importune, come ha detto san Paolo. E così, non per condannare, ma si darebbe la possibilità di vedersi in anticipo schierati se da una parte o dall’altra del Figlio dell’uomo quando tornerà nella sua gloria. Fin da qui; per scegliere di spostarsi finalmente dalla parte giusta. Per liberarsi dagli orpelli che impediranno di entrare dalla porta stretta. Per riconsegnare la Chiesa alla sua verità, che non è quella di una perfetta organizzazione mondana, ma di una trasparenza che conduce al Salvatore. Forse gli scismi che sono avvenuti lungo i secoli, meriterebbero miglior pregio, se sono serviti a una purificazione. Non per condannare a una marginalità, lo ripeto, ma per avvertire di una pienezza che è ben lontana dagli apparati che soffocano, che rimandano, che attardano. Una Chiesa comunità di fratelli che condividono il bene tra loro e con chi bussa alle porte delle loro chiese. Occorre esercitarsi al saper consegnare, senza consegnarsi al Maligno. È così che le nuove generazioni non resteranno tradite. Altra via non c’è: solo nella spogliazione si renderà evidente la brillantezza del Vangelo.