A metà degli anni sessanta spirava il vento kennediano delle nuove frontiere: e una folata incantevole di quel vento arrivò pure nella nostra città. Aveva la faccia pulita (così ci sembrò) di aitanti giovani americani, europeidi e afro, ipernutriti e palestrati al punto giusto, dotati di un dentrificio – per noi ristretti tra i Binaca e i Chlorodont – dall’insolito sapore. Americano, appunto: e cioè il meglio, il massimo dell’aspirazione per gente di provincia come noi (i chewingum erano già stati lanciati vent’anni prima ai meridionali). Giovanotti che sarebbero finiti in Vietnam – ma questa, come dicono i grandi scrittori, è un’altra storia. L’ottimismo era la loro cifra; e lo cantavano con entusiasmo sui palchi improvvisati dei palazzetti o delle piazze: se più gente guardasse alla gente con favor / avremo meno gente difficile / e più gente di cuor. Musica e testi lontani dai pur contemporanei De André e Guccini: questi, dotati di un iperrealismo che sfociava in una sorta di pessimismo cosmico – fino all’affermazione interrogativa della morte di Dio – hanno attraversato tre generazioni; quei giovanotti d’Oltreoceano, invece, impazzarono solo per un decennio. Ma le loro ballate ogni tanto riemergono: forse perché di utopia si ha sempre gran fame. E la speranza era quella mischia di gente di colore che dava per sconfitto il razzismo, quella loro falla irrisolta. Sconfitta non ancora, quell’orribile falla, seppur arginata nell’America di oggi. Ma che fosse solo loro, di questo eravamo convinti, fino a quando non sono arrivati qua, quelli che la pelle non ce l’hanno come noi: nelle gialle strade dei cinesi o nei neri mercatini degli africani non si rivela solo disagio, c’è disprezzo e rifiuto. Non sarebbe utile – e che arriccino pure il naso tutti i musici liturgisti che vivono di chiacchiere e distintivo – che all’inizio di ogni eucarestia (o alla fine, è lo stesso) si canti il Di che colore è la pelle di Dio? per ricordarcelo, quando siamo tentati da un rifiuto immotivato, viscerale? Che gente è quella che allo stadio grida a un giocatore di pelle nera vai a mangiare le banane? Sono figli nostri, quei figli di Caino. E non è un mistero, se non per quelli usi a voltar la faccia per negare l’evidenza, che è dagli spalti degli stadi del settentrione che sono partiti i movimenti prima contro i meridionali (si guardino attorno quegli amici venuti dal sud e che parlano in politica l’abatantuonismo) e poi contro gli extracomunitari. Da giovani, non è un’operazione facile la sottrazione: e a quel ragazzo di pelle nera che gioca e segna, ed è italiano a tutti gli effetti, non sarà certo facile sottrarre quel manipolo di fascisti dalla schiera degli sportivi che affollano uno stadio. Quali cicatrici gli fanno rivoltare l’anima, tanto da renderlo già discutibile nelle sue reazioni? È lui che istiga con linguacce e gestacci, o è lui che si difende da orribili e inaccettabili provocazioni? Mentre scrivo, non so come finirà la Conferenza sul razzismo che si sta tenendo a Ginevra: può impunemente prendere la parola un signore che ritiene la Shoah un’invenzione? E che gli facciano da claque regimi politici che fanno quotidianamente strage di diritti umani a casa loro, e che non hanno carte in regola neppure in materia di razzismo essendo noti campioni di propaganda antisemita? Poi certo: chi è attaccato attacca, e sbaglia a sua volta, a volte atrocemente come ultimamente a Gaza. Ma che differenza c’è – so di scompigliarvi l’anima – tra questi personaggi ufficiali dell’antisemitismo, e quei pochi orrendi figli nostri che stanno sugli spalti a urlare a un ragazzo diciottenne negro, nell’accezione americana che quei giovanotti dell’America sana volevano quarant’anni fa finalmente debellare? Mentre leggete, sono in Terrasanta per scoprire che pelle avesse Gesù, l’ebreo di Nazareth; ma da subito scarterei che avesse quella bianco-rosa delle immaginette dei nostri sacro-cuori.