A natale si racconta. La propria vita, i propri rimpianti e le gioie, accanto ad un camino. Il mio racconto è questo. Voi trovate il vostro, per chi vi starà accanto al fuoco di Natale: quello con la maiuscola.        

Dal mio paese passava il tram di Monza. Lo chiamavano il Gambadilegno: avanzava zoppicante, e molto pigramente. Poteva fermarsi senza tremori sindacali, se un tranviere incrociava sui binari una bella contadina carica di gerle:

che poi uno capisce che non erano le gerle, ma la ragazza che il tranviere accompagnava a casa; e vi dirò che così, il mio paese, si è ritrovato un nugolo di tranvieri provenienti dalla bassa Brianza più o meno felicemente sposati con le ragazze del posto. Il tram di Monza è sparito con la mia nascita. Ma vi assicuro che non ne ho colpa, anche se porto il nome di quell’Unno che è passato alla storia con l’epiteto di Flagello di Dio.

Monza era il gran paesone, allora, da attraversare; o, se volete, la porta di Milano, la grande città. Così era per la gente di qua dell’Adda: Bergamo, il capoluogo, lo frequentava quando proprio non poteva farne a meno; ed erano pochissime volte in una vita. Era Milano la nostra America: certo diversa per i sogni di ciascuno. La mia Milano era invernale, quella delle vacanze di natale. Me l’hanno lasciata raggiungere da solo fin dai dodici anni: allora, e mica adesso, che arrivano fino a Cuneo i tredicenni impastati di discoteca! e magari su quegli autobus che hanno inventato contro gli alberi del sabato notte, tragicamente centrati dagli impasticcati – e pazienza se poi è un autista ubriaco a guidare il bus: è successo, e può convincere adolescenti scafati che non ci si deve fidare di nessuno, e tanto meno di genitori che su quel bus li hanno fatti salire di prepotenza. Dicono. Ma non fatemi divagare.

Dal mio paese passava l’autostrada, allora a due sole carreggiate, ma più che scorrevole per il pullman autostradale che ti portava direttamente in piazza Castello: un ragazzino in quel vasto spiazzo, che per fortuna la nebbia sapeva ricondurre a misure accettabili. Perché, la prima cosa che si incontrava, ancora sul predellino, era la nebbia: quella d’allora, fitta fitta, e spessa, con quel suo effluvio fatto di terra e di nubi. Un odore che mi richiamava le piante, e i fiori in coltivo, avvolti dall’umidità delle serre: in quel varesotto dove si era sfollati per la guerra, da zii fioristi, io appena nato con nelle narici per sempre il profumo tenue e inconfondibile del garofano. Ma non fatemi divagare.

Dunque la nebbia; e poi i tram, che con lo sferragliare stridente sulle rotaie davano a quella nebbia un accento diverso rispetto alla mia: intriso di ferro, una acutezza dolcemente asprigna. Non c’erano le grandi luci di natale che oggi invadono la nostra Città: a volte discrete, come sarebbe nello spirito del giorno; ma a volte del tutto improprie: luci da luna park, sincopate, e da Las Vegas, abbaglianti. Che si vogliano oscurare i tempi delle vacche magre? Anch’equi, non fatemi divagare.

Il mio natale era un viaggio. Ed una meta. Tutta roba terrena, se volete proprio giudicare. Ma, in un certo senso un andare verso qualcosa che chiamava. La stessa spinta dei pastori verso una meraviglia annunciata. Che poi era un Bambino. E vederci il Salvatore non dev’essere stato facile neppure per loro. Né per i magi: che, tuttavia, per non essere poi complici di un disegno subdolo, presero un’altra via. Quella che ciascuno sarebbe chiamato a percorrere, per quanto possa risultare misteriosa.