Non è che lo stare a letto sia sinonimo assoluto di riposo. Ci sono giornate in cui ti puoi permettere di restare fuori dal mondo, se il cielo è grigio di pioggia e gli impegni possono essere sospesi. Sono giornate che rendono molto a uno svago libresco, soprattutto se hai un ottimo e corposo giallo da scalare. Ma se a letto ci devi stare per un malanno, il dono della lettura, anche al più appassionato, si sottrae quasi del tutto. Sbocconcelli i libri che ti portano
gli amici: qua e là, senza continuità, tra una medicazione e un’altra, tra un tè che non ami e la recita dei salmi che devi; il tutto dentro l’acquario di pause noiose, seppure accompagnate da qualche guizzo doloroso.
Di questi giorni, un pezzo di garza a segnare una pagina: “Il vedere di Dio non è il vedere dell’uomo. L’uomo vede solo tra i battiti delle palpebre. Non sa com’è il mondo durante i battiti. Vede il mondo a pezzi, a frammenti. Ma il Padrone dell’universo vede il mondo intero, integro. Quel mondo è buono. Noi vediamo in modo frammentario, Asher Lev. Possiamo riuscire a vedere come Dio? È possibile?”. È la storia di un conflitto, tra un ebreo osservante e una comunità che lo respinge per le scelte difformi che fa. Una storia, che a tutt’oggi non so come va a finire. Il libro è lì, fermo, e non mi chiama. Forse mi bastano, per ora, quelle parole del Reb, la guida spirituale che usa insieme comprensione e discernimento; e che spalanca tutte le finestre di questo mondo su quell’espressione che sembra così impropria in certe fasi della vita: “e vide che ogni cosa era buona”. Il vedere di Dio che rassicura sulla bontà anche di ciò che appare distorto: distorto perché discontinuo per degli occhi che vedono tra un battito e l’altro delle palpebre. Ma non per gli occhi di Dio.
Per me che ho dormito sempre ai piani bassi nei quarant’anni di prete – anzi a filo di strada qui a S. Lucia – l’essermi trovato per più giorni in una stanzetta al quinto piano, è stata una sorpresa. Non che non sia stato anche più su di un quinto piano, altrove. Ma qui nel quartiere, l’alzare la tapparella il mattino al primo baluginare del sole che fa emergere pallide le sagome dei condomini ancora spenti; e la sera, per quella linea rosseggiante che segna la collina trapuntata di cipressi, corona di una protezione che si spera – beh, è un mondo nuovo. Lo stesso, e tuttavia nuovo: nuovi sono i pensieri, nuove le proiezioni. Nuove le emozioni. Nuova la misericordia. Nuova la vicinanza alla gioia o allo smarrimento. Quel pugno di luce del mattino che si apre o della sera che chiude, chiarisce un universo altrimenti nascosto dalla intensità abbagliante del giorno o dalla profondità buia della notte. E tuttavia ridesta chiara l’intelligenza che riconosce del tutto affidata a ben Altri, che non alle mani pur operose dei suoi ministri, questa umanità che cammina talvolta senza capire la meta.
È possibile vedere come Dio? Dove e quando? Tra quale intervallo di palpebre nello scorrere dei giorni? E per quale tavola che si imbandisca, senza che alcuno dei tuoi si chiami altrove, per buoi o tesori che hanno la fragilità della morte? E per quale presenza di cristiani, che rimangano fedeli nonostante? Pane e Parola in una Casa spalancata, ci stiamo dicendo: ma senza queste domande, il mondo sarà sempre in sospetto, e dunque non varcherà la soglia.