Ero stato ordinato da poco meno di un mese, quando l’uomo raggiunse la luna. Per la prima e unica volta. Ma allora eravamo – quelli di noi che c’erano – sospesi nello stesso vuoto dei tre che stavano per realizzare“il gigantesco balzo dell’umanità”. Perché il bello e l’incantevole era che ci si stava davvero buttando sull’inconoscibile: un conto sono gli studi a tavolino, e un conto è toccare il suolo con i propri piedi. Un conto è fotografare a distanza – come
aveva potuto fare un razzo che l’aveva circumnavigata – e un conto appoggiare i piedi su qualcosa di cui non si sapeva la consistenza. Raccontavano, le cronache del tempo, di possibili sabbie mobili che avrebbero inghiottito macchine e uomini. E invece, in quella notte tra il 20 e il 21 luglio del 1969, tutti assiepati attorno ai televisori, abbiamo visto l’irripetuto fino ad oggi. La precauzione con cui per primo Armstrong appoggia il piede sulla luna e muove qualche passo; la rassicurazione che fa scendere anche Aldrin – che dal mettere come secondo il piede sulla luna non si sarebbe più rimesso, dicono sempre le cronache maliziose del tempo – e il compito ingrato di Collins, rimasto sulla nave spaziale a ruotare, in attesa: i tre americani della navicella Apollo si erano preparati a quel momento, ma tutto era da inventare nella relazione con quella superficie fine e polverosa. Una cosa colpirà, della documentazione fatta scendere da quel satellite appeso sui sogni dei bambini e sulle paure dei lupi mannari: si stampano orme su quel velo sottile, orme che non si cancelleranno più; non c’è vento e non c’è pioggia che possano cancellarle. Come avviene invece qui da noi, per la sabbia del deserto o per la neve dell’inverno; o per le spiagge pareggiate dallo sciacquio del mare. Era un’epoca entusiasmante: dallo sbarco lunare si aspettavano notizie sull’origine e lo sviluppo dell’Universo.
E quell’evento fu una parabola aggiuntasi a quelle evangeliche, per me che sbarcavo da prete dentro una storia che ancora aspettava il vangelo. Con tutte le illusioni giovani. E con tutta la distanza tra ciò che mi avevano passato nei lunghi anni di seminario, infanzia e adolescenza e prima giovinezza, e le passioni degli uomini – quel pianeta che si sarebbe rivelato tanto sconosciuto. Eppure non ero del tutto sprovveduto: almeno non di quel rischio che mi aveva affidato alla novità dello Spirito, e a quella Sua orma che si era impressa, ormai indelebile, sulla mia vita. Un’orma che avrebbe richiesto le mie. Dentro la piccola storia di ogni persona che avessi incontrato, e dentro il cammino di ogni comunità che avessi accompagnato. Orme sul soffice e sul coriaceo, sulla neve e sul fango; orme come lasciano gli aerei che solcano il cielo, evaporanti nel giro di uno sguardo. Orme non sempre visibili; ormai facilmente cancellabili. Orme volutamente lasciate al mistero dell’acqua che vi si rinchiude sopra: e portate lontano, come rimiravo dalle rive del gran fiume del mio paese. Orme cancellabili alla vista, ma lasciando che la grazia le stampasse indelebilmente tra le cose visibili solo a Lui.
Un bell’inizio di storia, per il mio presbiterato. Anche se due avvertimenti segnavano quell’anno: a gennaio a Praga il rogo suicida di Jan Palach, martire di libertà, a dicembre l’eccidio di piazza Fontana a Milano. Due richiami per capire tra quali lacerazioni si compie il bene del mondo; e per convertire le illusioni giovani in incontri veri.
Da quarant’anni, con qualche fatica e molte liete sorprese, metto il mio piede. Sempre con trepidazione.