Non si potrà dire, quest’anno, che le stagioni non ci sono più: a farci minacciare, a giorni alterni, o dalla desertificazione o da imminenti glaciazioni, a seconda delle scuole di pensiero, grette come la durata su cui misurano i loro dati: e a richiamare finalmente che le ere di mutazione sono ben più ampie delle ipotesi calcolate su brevi decenni. L’inverno ha avuto il suo corso, freddo e neve nella giusta misura, a riscaldare la terra di sotto;

e la primavera – che, ci è stato ricordato, è astronomicamente cominciata il primo marzo – ha debuttato come le si addice: un poco caldo e un po’ freddo, piogge e sole, e vento che spazza cielo e terra. E prime germinazioni che assicurano una volta di più che il mondo per il momento non finisce. Che è pur sempre una buona notizia. E noi, in questi mesi, abbiamo vissuto notizie che hanno il risvolto delle stagioni: qualcosa a cui non può sfuggire il dipanarsi di una storia di intimità e di partecipazione, un coinvolgimento che segna passaggi e novità.

Abbiamo salutato, in dimissione dal suo incarico episcopale, il vescovo Roberto. Checché se ne dica – “rimarrai sempre con noi” – è un’assenza di paternità che si giustifica in termini canonici, ma non in termini esistenziali. C’è una sofferenza che solo la neutralità misticheggiante di alcuni riesce a sublimare. Le paternità si interrompono solo davanti a Dio. Si aiutino nel declinare delle forze con la presenza di un vescovo coadiutore – così richiedendo loro l’umiltà del farsi sostenere; ma non dovrebbero essere tolte. Perché a un papa, indubbiamente sofferente come l’ultimo, si sono trovate ragioni – giuste – di testimonianza pur in una grave impotenza fisica, e non si dovrebbero far valere per vescovi e parroci? Certo che esiste la possibilità di inadeguatezze: ma sono le norme o l’obbedienza a presiedere l’etica della responsabilità spirituale? È così cominciato per te, Roberto, l’autunno: che se vede il cadere delle foglie, tuttavia porta in sé il profumo di quei frutti che solo d’autunno si danno.

Abbiamo accompagnato al camposanto il vescovo Cesare. Qui a S. Lucia ha imparato a fare il vescovo: prima per la piccola diocesi di San Severo, che ne ha avuto la primizie, e poi a Parma, dove ha dispiegato il meglio della sua maturità sacerdotale. Con quelle attenzioni che si sono affinate nei tredici anni di operosità nella nostra comunità, e con quella semina che continua tuttora a dare frutto. In quella sua cattedrale millenaria, quei preti – e non sempre è scontato – , quella gente incalcolabile che si è stretta attorno a lui si possono ben definire un trionfo in morte. Occorre che il chicco di grano cada in terra e muoia, perché porti frutto? Sì: è l’inverno della fecondità nascosta, pur sapendo nella fede che tu, Cesare, vivi in Cristo, ormai. Ma certo per chi ti ha avuto compagno di viaggio è un vuoto: lo si dice di ogni familiare, lo si dica di un vescovo.

Abbiamo accolto il nuovo vescovo. Sarà per lui primavera, la stagione che connota la vita: con i suoi giorni alterni di bellezza e di fatica, senza ancora la pienezza dei frutti ma con il lavorio della natura e degli uomini che prepara l’estate. Ci è chiesto di raccogliere la sfida di una collaborazione cordiale, perché il vangelo sia servito al meglio, e sempre di più, in questa Chiesa bergamasca. Con te, Francesco, sulle strade dell’annuncio, dunque: senza nostalgie, ma con riguardo a storie che le cicatrici distillano.