3. Le messe degli altri /
acquarelli estivi
«Quella messa è la migliore di tutte; cambio chiesa per andarci». Con qualche excusatio non petita, e qualche sfumatura di linguaggio, don Luisito se lo è sentito dire più di una volta, nella sua visita alle case. A parte l’orgoglio ferito; e a parte le scusanti peggiorative – una per tutte: “sa, non la tengono tanto lunga, e a me va bene perché non posso perdere troppo tempo”; o quell’altra per tutte: “lasciano fuori la politica, là, mentre voi siete un po’ schierati”. Don Luisito non è uno che li manda a quel paese, e buona notte a chi non ci sta; non ci dorme la notte, e – per quanto gli compete, dunque senza prevaricazioni sulle opere dello Spirito Santo – si chiede dove sta sbagliando. Un’ora o poco più di celebrazione domenicale gli pare il minimo di serietà, sul totale di una settimana; e il Vangelo letto dentro la storia gli sembra l’unica possibilità di non tradire l’incarnazione. Che possa essere stato qualche volta umorale, esige che lo si consenta alla sua umanità; o che le celebrazioni non sempre riescano con il buco di una ciambella riuscita, tra canti e gioiosità reciproche, lo si può tenere in conto nell’arco di un anno. C’è una cosa che gli riesce difficile accettare, anche se gli salta addosso come la spiegazione per eccellenza: la divaricazione tra domanda e offerta, tra appartenenza nella fede e gestualità religiosa senza interrogazioni. Lo vede nel conto del droghiere con cui ci si presenta a confessarsi nello stretto tempo prima della messa, ben lontano da un orizzonte che tocchi i confini dell’eternità. Lo legge nella riluttanza ad abbandonarsi alla Comunità nelle proposte che sono lì a rendere autentico il celebrare: l’avvertirsi, il formarsi, l’istruire una coscienza sull’oggi. Ma lo sente soprattutto sulla pelle nella giustificazione delle mediocrità riguardo all’umano, prima ancora che alla vita cristiana. E si sente spaventato: sono questi i discepoli? Non sarà che la parrocchia, nella sua pretesa di una compagnia per tutti, finisce per rassicurare i pigri e per scoraggiare gli alacri? Qualcuno, con cui si confida, lo conforta sui non pochi che vivono in modo bello, accanto a lui, il fatto cristiano; gli ricorda che le categorie di una parrocchia – compagnia di tutti – restano il poco lievito, il piccolo seme, e il chicco di grano; e non le adunate di piazza, e non il consenso acritico. Chi si allontana dalla tua messa, don Luisito, per trovare, dice, la misura giusta per sé, si interroghi su quale verità vuole per sé. Digli questo, e dormi la notte. Tanto, veglia lo Spirito su quel tuo parrocchiano, pigro o arrogante che sia; o, perché in ricerca sincera di sé, possa avere davvero bisogno di altra fonte.
2. Quando si dice vocazione /
acquarelli estivi
Da bambino faceva il lattaio. Nel senso che portava il latte ai clienti dei nonni contadini. Appena munto, ancora caldo, le sue labbra segnate da lattei baffi traditori. Latte buonissimo perché non pastorizzato, di mucche sane, che passavano il loro periodico check- up veterinario. Dal secchio direttamente in bottiglia o in secchielli di latta: che fa storcere oggigiorno il naso, al solo sentirne parlare, ai fissati delle date in scadenza e delle confezioni sotto vuoto. Le famiglie normali se lo andavano a prendere, quelle influenti (!) se lo facevano portare. E così, verso il tardo pomeriggio, dopo il giornaliero rito della mungitura, partiva verso tre destinazioni. Prima dalla levatrice: abitava nella casa comunale, al quarto piano, praticamente in un sottotetto; poi dal prevosto: attraverso il grande parco, alla porta di servizio dove l’aspettava la Lucia, dolce ma senza parole; e infine alla villotta del dottore. Neanche tanto dopo quegli anni, si sarebbe chiesto quale immaginario, quelle giornaliere incursioni in vite così diverse, potevano aver scosso la sua preparazione al futuro. Ricordava di essersi chiesto, per le successive conoscenze, in che modo gran parte delle levatrici, come quella, fossero madri senza un marito. O perché un prete se ne stesse solo in una grande casa, che non poteva certo essere colmata dalla presenza di una domestica, per quanto discreta (o forse proprio per quello?). O perché, tra le tre, ciò che più lo attraesse, fosse la casa del dottore: certo per l’eleganza; o forse perché ci stava quella sua compagna di scuola, biondina, che sapeva invaghita di lui – ma lui le avrebbe presto preferita un tipo di ragazza del tutto diversa: non diafana come lei, ma bruna, del colore del frumento maturo, e, diversamente da lei, che metteva una distanza che ancor più allettava. Adolescenza! No, il dottore rappresentava quel sapere che in lui era una voglia: inspiegabile in un figlio di operai? o seminata dai bambingesù e dalle santelucia che fin dai sei anni erano libri? Ma il sapere era anche del prete; ma del prevosto era l’invisibilità proposta, l’angelo con cui allora parlava, custode dei suoi sogni e delle sue birbonate: ed era dunque cosa credibile. E proprio non fosse la levatrice a dare un segno di futuro? perché senza un uomo, lei che si prendeva tra le mani, per prima, la vita che pure nasceva per iniziativa di un uomo? Ancora oggi, don Lorenzo non saprebbe dirvi perché si è ritrovato prete. Perché c’è una eleganza del vivere, e un sapere che si nutre di visibilità per arrampicarsi sull’invisibile? O perché si vive la vita anche con un amore che non ha convivenza? Non sa. E tuttavia sa che dal fare il lattaio è venuto il qualcosa del suo oggi. Della serie: sono gli incontri che fabbricano la vita.
1. La fatica di chi si rimette a piantare /
acquarelli estivi
Alla fine gli tolse anche il saluto. Dopo avere in tutti i modi cercato di far prevalere la propria opposizione. Dopo essere stata persino in Curia, e aver scritto alla Soprintendenza, che si erano chiamate fuori per incompetenza rispetto all’oggetto. Dopo aver piazzato ragioni paraecologiche in tutti i vicoli del pettegolezzo. Dopo che il progetto di sostituzione era ormai divenuto realtà. Tra le sue ragioni non aveva certo lasciato posto a quelle vere: la sua casa prospiciente gli spazi interessati, e i dieci metri quadri altrui di cui si era impossessata per il proprio posteggio, come qualcuno le aveva rimproverato. Voleva che la grande ombra ancora continuasse per sé, nonostante le diagnosi di malattia che gli specialisti avevano ufficialmente decretato per quegli alberi. Diceva che ci si doveva pensare quando sarebbero caduti: sulla testa tua, ridacchiavano senza indulgenza i compaesani suoi. Ma può talvolta aver ragione la non-indulgenza? Don Enrico aveva capito che le ragioni dell’Ubolda non erano solo quelle meschine, dette o taciute. Erano uno stato d’animo che la questione delle piante confinanti rivelava solo in parte: la paura di vedere cambiati gli orizzonti. La paura di ricominciare da capo, ad aspettare che l’albero nuovo prendesse la forma del desiderio, la vastità delle fronde e l’ombra nuova. Inutile ribadire che questo era già avvenuto nelle generazioni precedenti: che sempre qualcuno che pianta accetta lo svolgersi delle cose. Uno stato d’animo che non era solo dell’Ubolda: più drammaticamente, investiva i campi più conformi al suo apostolato. Lo sentiva, don Enrico, in libri dotti, in articoli sempre più ossessivi nel difendere il passato liturgico, catechistico. Lo percepiva in certe sorde resistenze di alcuni parrocchiani all’individuazione di una nuova evangelizzazione. Quante sere aveva speso a convincere che la “nuova evangelizzazione” – che i papi venuti dopo Paolo VI hanno raccolto e rilanciato – non voleva dire nuovo Vangelo, ma nuovo modo di predicarlo a chi riteneva di conoscerlo, ma di fatto lo identificava con le formulazioni che i tempi passati si erano dati. Quante volte aveva ripetuto che la Tradizione della Chiesa non ha una data oltre la quale ci si stabilisce in uno stare, in un dire, e in un fare, ma che anche l’oggi è Tradizione. Certo che non si butta nulla degli edifici costruiti dalle summae teologiche: ma guai a chi rinuncia a riconsiderare i vani di abitabilità, ad aprire nuove finestre che immettano a nuove prospettive, ad abbattere steccati per fare di due un solo spazio. Quante volte l’avrebbe dovuto ancora ripetere?
mammona
Così, tanto per concludere le note sulla immagine di Chiesa che si rappresenta al mondo (ma è cosa concludibile? per adesso …). O immagine che il mondo rappresenta in una sua parzialità, certo riprovevole, ma non toccando l’essenziale. Anche perché l’essenziale è comune all’una e all’altro: ed è il peccato del potere. Il peccato che Gesù ha descritto come alternativo a Dio. O l’uno o l’Altro. O mammona o Dio. E mammona non è solo traducibile con denaro. Anche: e nella Chiesa e per il mondo sembra essere uno dei tanti traguardi di una vita. Molto più: per la Chiesa è appunto il tesoro nascosto, quello che sta nel cuore dell’uomo, non rassegnato alla sua creaturalità, ma sempre alla ricerca del competere con Dio; e proprio nell’apparire del potere – che si veste sontuosamente ed opera scorrettamente per difendere privilegi non scritti nel Vangelo. Li avrete sentiti certi liturgisti sospetti e alcuni giovani preti dire che le casule da duemila euro sono a gloria di Dio? o che poter duellare con uguali stampi con i governi è per difendere il regno di Dio? o che riconoscersi gerarchicamente attraverso titoli è assimilare sulla terra troni dominazioni principati e potestà (!), e così prepararsi alle grandi sorprese angeliche del paradiso? Un potere sulle anime, che nei secoli ha prodotto guasti teologici che hanno condotto a scismi e a dichiarazioni di eresie. E un potere che si è avvalso di strumenti umani, usati nella finanza con le stesse scorrettezze del mondo. Per una immagine così, che riempie riviste e schermi televisivi, come pensate che si possa ancora mostrare il vero volto della Chiesa? Che è un volto di peccatori, innanzitutto. E da dire senza vergogna: non nascondendo su piedistalli la pochezza degli uomini che sono stati chiamati a custodire l’integrità evangelica, in se stessi prima ancora che predicando agli altri? E poi è una comunità che nel suo piccolo (non è forse il piccolo resto, e sue immagini non sono forse il granello di senape e il pizzico di sale?) sta a fare da trasparenza al Salvatore del mondo. Ma, appunto, senza la sobrietà, Lui non lo si fa intravedere. I due preti che il papa ha finalmente riconosciuto come veri, sono stati mazzolati proprio perché ribelli (ma sempre ubbidientissimi) a una Chiesa che non si sentiva attratta dai lontani o non si teneva lontano dai mezzucci per attirare i figli dei poveri. E con don Mazzolari e don Milani ha riconosciuto anche quei preti che hanno imparato da loro a vivere il Vangelo: restando peccatori, ma credendo fermamente che senza una rivoluzione dell’immagine ecclesiale, il Vangelo sarebbe stato sotterrato sotto bar d’oratorio, e incoerenze varie. Nel loro piccolo, i preti di dopo hanno anche loro pagato in diffidenza: anche se il vento del Concilio ha spazzato via almeno l’apparenza dell’aperto rifiuto. Ma non la sostanza. So di preti che non sono stati ammessi all’episcopato per quelle diffidenze. E di altri che vescovi sono diventati, dopo una accurato esame di fedeltà alle gerarchie, esame cui si sono per tutta una vita ben preparati: poi, come si dice tra gli ecclesiastici, ciò che lo Spirito santo non fa nelle nomine, lo recupera dopo. Che non so se, a cose fatte, non sia un tentativo di consolarsi, come la pioggia che inzuppa una sposa. Perché poi, in un mediocre circolo vizioso, saranno vescovi, magari puri della purezza angelica – e dunque di chi non ha corpo, ma essendo terrestri, non sarà che gli mancherà con il corpo anche una certa anima? – vescovi che non sapranno dire parole nuove al proprio popolo e a coloro che hanno sacramentalmente designato a guidarne le varie porzioni. Vescovi che non san dire che l’immagine di sobrietà è essenziale per i preti: non ho né oro né argento … ma per poter continuare con quel ma che segue, occorre davvero aver rinunciato a oro e argento. A qualsiasi mammona che abbia radici nel potere. Voi non siete principi: lo ha detto il vescovo di Roma, papa di carità universale, ai cinque nuovi eletti nel concistoro dell’altro ieri. Ma l’avranno ascoltato quei venerandi che li hanno preceduti, e a cui è stato detto sicuramente – perché è scritto nel rito – che la porpora di cui si sarebbero vestiti era il segno di una disposizione al martirio? O si saranno turbati, perché si davano certamente disposti al martirio, ma sempre pensando che il loro sarebbe stato un martirio da principi? Dunque spogliazione. Dunque sempre più Zagarolo. Sempre più le periferie di Bozzolo e di Barbiana. (E anche voi pensate che a una vera immagine di Chiesa occorra portare qui la salma di un papa? Io no. Anzi.)
spogliazione
Una Chiesa che ha bisogno di divise, è quella di Cristo? Scrivo per le perplessità suscitate dall’ultimo DaQui. Tanti preti (e diaconi e vescovi) pensano che la spogliazione sia un pericoloso avvicinamento al protestantesimo. Quelli che – delle schiere sparse uscite dalle grida di Lutero – hanno soprattutto sofferto per l’iconoclastia che si è soprattutto, per loro, identificata con l’assenza di stendardi, piviali, e palandrane dei vari ordini equestri, oltre che dai bottoni rossi degli ecclesiastici insigni, da esibire nelle processioni. Quello che rimpicciolito per mancanza di fedeli, ormai, potete vedete nelle celebrazioni del Corpus Domini che si svolgano in città o nelle parrocchie di provincia, dove non siano state sostituite da un diverso e intelligente nuovo modo di intendere la presenza del Signore. (Ancora non rimpicciolito a Gandino? Ma lì è folclore e orgoglio di un passato, quando la ricchezza di panni che uscivano verso terre non globalizzate ancora non era un ricordo). Processioni in piccolo: perché a onta di chi vuol far sopravvivere manifestazioni astoriche, mette in strada un drappello di devoti che vanno dai bambini di prima comunione – comandati – al piccolo resto di suore e di già figlie di Maria, oltre ai nostalgici incanutiti che, chissà perché, non richiamano i più giovani. Un passaggio che nasconde il Signore eucaristico dentro le apparenze di un potere che riesuma i cortei principeschi. E che suscita tenerezza, che è la cifra di bambini e di vecchi. Ma è questa la Chiesa nata dalla Pentecoste? E se qualcuno si scandalizza ancor più per queste righe, e ce ne sono, non è perché a cinquecento anni dal ribelle agostiniano non se ne è imparata la lezione, certo distinguendola dalle deviazioni? Che consisteva in un richiamo alla essenzialità dell’annuncio evangelico? Dietrich Bonhoeffer, il grande martire cristiano di professione luterana, in una delle sue lettere dalla prigione scriveva che povertà, spogliazione, nudità sono indispensabili per poter accogliere l’Altro, il Signore. Noi abbiamo una concezione diversa? Eppure nell’esercizio della Via Crucis Gesù spogliato delle sue vesti non è lì accidentalmente: è Cristo reso visibile dalla comunità in spogliazione. L’esatto opposto dell’immagine che si dà della Chiesa: che non è quella vestita di oro e di stoffe preziose, e non può assimilarsi alle sfilate di passerella alla Pitti (per quanto la moda ecclesiastica che si vorrebbe mantenere, e che rimprovera Francesco papa di non apprezzare, è ferma a pizzi e merletti di cui vestivano appunto i maschi dei tempi di Versailles; se non a “nuove” casule, che s’avvicinano molto ai pareo di origine esotica, in barba al simbolismo dei quattro colori liturgici). Deporre le vesti: era un atto penitenziale, un riconoscere che altro è richiesto ai discepoli di Cristo. Chiedere dunque che si depongano tutti i rossi non liturgici; quelle cappe magne che qualche cardinale si ostina ad indossare nonostante siano state abolite già dagli anni settanta del secolo scorso; e quei titoli di eccellenza ed eminenza che stridono alle orecchie di chi non vi vede né paternità né fraternità; e una abolizione di quel promoveatur ut amoveatur – che è chiaramente un segno di disistima, ma che ha portato alcuni a diventare persino cardinali: tutto questo (e altro) potrebbe finalmente contribuire a dare alla Chiesa l’immagine non di una organizzazione terrena, ma di una profezia. Poiché la spogliazione che si chiede non tocca, chiaramente, il vestire a festa per incontrare il Signore, la domenica e pure nella festa del Corpus Domini: ma è vestire nella sobrietà che essa sola rende solennemente provocatorio il passo sulle strade di un mondo indifferente. Un mondo ripiegato su di sé, un mondo senza Dio perché si è fatto dio a se stesso. È questa la buona stagione per non ripiegare sul passato: vivere il presente è riconoscere la storia che si fa oggi, gli uomini che oggi chiedono di potere distinguere i rumori dai suoni. Anch’io, quando tutto un paese era dentro quello snodarsi tra le case, mi sentivo spinto dal Noi vogliam Dio suonato dalla banda municipale. Ma oggi potrebbe essere il rumore che copre il suono delle parole evangeliche: un suono non enfatico, e dunque vero, della verità che ogni cuore di uomo cerca. Zaccheo, per vedere Gesù, è salito su un albero: alla ricerca di un senso per la sua vita. Qualcuno gli deve aver detto che Gesù passava di là. Per cercare il Signore, bisogna averne sentito parlare e avere un’idea di dove lo si possa trovare. Queste processioni infiocchettate, e così poco partecipate, se non sono precedute da altro, che contro-testimonianza potrebbero dare agli zaccheo di oggi?
lento, svelto
“Lo ha costretto al passo lento, a ridurre la velocità. Ne ha imbrigliato la leadership vorace, che stritola tutto. Le immagini di The Donald, l’uomo dal passo svelto, dagli scatti in pubblico, il presidente precipitoso che tutto ritiene una zavorra da cui liberarsi, che lentamente percorre i saloni del Palazzo apostolico fino alla Sala del Tronetto e la soglia della biblioteca privata dove lo attende Francesco, sono un messaggio esplicito. L’antichissimo protocollo vaticano previsto per le visite ufficiali ha dominato Trump: i gentiluomini di Sua Santità in frac lo hanno stretto nel loro passo contemplativo e la camminata è diventata metafora, allegoria allusiva, parabola della pazienza che la Chiesa insegna come virtù cardinale e alla quale neppure uno come Trump può sottrarsi. Il suo macchinone nero e superblindato ha perso l’abbrivio con il quale ha attraversato la mattina romana, appena varcato «il Perugino»: motore al minimo, attento alle strettoie e agli angoli aguzzi e angusti dei palazzi vaticani fino al cortile di San Damaso. Lui, lesto e zelante smanettatore della politica fulminea gestita via social con tweet roventi che rottamano cose e persone in un baleno, avrà capito la lezione che gli ha riservato, inconsapevolmente beffardo, il protocollo vaticano e la sua millenaria regìa? Dentro vi è nascosto un valore pedagogico, secondo il quale la pura frenesia, soprattutto in politica e ancor più in quella estera, spesso rischia di portare a risultati disastrosi ( … )”. Nel bell’elzeviro di Alberto Bobbio, che è il vaticanista per il giornale bergamasco, uno spunto che è più di un avviso per naviganti: una lettura che sa partire da quel che avviene in un certo momento e in un certo luogo per prolungarsi su quel che il futuro potrebbe essere in quel luogo ampio che è il mondo: se non si innesca il passo giusto. Così la cosa che lui e noi abbiamo visto il mattino dell’incontro di Francesco con il presidente statunitense, è diventato uno sguardo per molto più di quel che la tv ha trasmesso. Ed è bello che, il giorno dopo, si siano potute leggere parole che nella trasmissione non si sono ascoltate: perché non dette. E dunque grazie al vaticanista nostrano, che è buono come il salame bergamasco: nostrano appunto. Perché se un appunto gli si può fare, nella piccola enfasi che non poteva mancare alla sua penna per quell’avvenimento, è sull’aggettivo contemplativo attribuito al passo dei cosiddetti “gentiluomini di Sua Santità”. A me, mentre aspettavo impaziente che quella processione si risolvesse in una corsetta (o almeno in un passo “umano”) è venuto in mente tutt’altro che una contemplazione (ma si sa, io son poco ecclesial-romantico, al dire dei più che mi conoscono): ricordate il marchese del Grillo di Alberto Sordi? E il suo saltello che fa inclinare pericolosamente la sedia gestatoria? Così, tanto per fare un dispetto a quel papa che non gliene passava una? Un corteo di Sediari pontifici con il loro frac viola, e i Gentiluomini in frac nero, tutti con diversi collari d’oro, a segnare il passo di una Chiesa che non c’entra nulla con il mondo. Perché non c’entra nulla con il passo del Vangelo. Finché il Vaticano sarà uno stato, dovrà anche seguire le regole di rappresentanza proprie degli stati? Ma chi l’ha detto? Il cambiamento – che i sani di coscienza evangelica si augurano, in sintonia con Francesco papa – nasce dall’immagine nuova che ci si dà. E da un nuovo linguaggio. E la Chiesa che si insedia nelle periferie non può essere segnata dal passo di quei signori (arrivati lì per benemerenze che non sono, tra l’altro, sempre trasparenti – per non ricordare la destra che non deve contare sul bene della propria sinistra). Se per Trump vale la lezione della lentezza, per la Chiesa occorre ormai un passo sollecito: perché i poveri d’anima si stanno moltiplicando; e perché il Vangelo non può e non deve seguire le regole fatue del mondo. Già in Santa Marta si è in gran parte metaforicamente creato quel Zagarolo che da sempre auspico. Ma si potesse fare un saltello decisivo!: i monsignori per carriera depongano le vesti che non siano quelle dell’innocenza meritataci giorno per giorno dal Salvatore; e non più vescovi che non abbiano un popolo di cui condividere profumi e miasmi; e il popolo di Dio, quello minuto, abiti le celebrazioni in San Pietro al posto di nobilume di varia estrazione. Un Vaticano trasformato in Zagarolo: sii benedetto Morselli, tu agnostico, per averci indicato la possibile via di una purificazione.
vecchiaia
“Gira in zona da qualche giorno, pioggia o sole. E siccome piove spesso, perché aprile è il più crudele dei mesi, ma anche questo maggio non scherza, è spesso zuppo e fangoso. … Sembra che guardi nel vuoto. Fa così da quattro giorni. E smette di piovere. No, ricomincia. Beh, è uguale”. Riprendere questo pezzo di un bel romanzo giallo, potrà sembrare fuori luogo; e un po’ lo è. Perché lì il soggetto è un barbone, che non è un anziano, ma potrebbe esserlo. E perché qui non si parla di chi ha una scarpa da cui occhieggia un dito, né è inavvicinabile per un odore malefico. È un uomo degno: pulito e in ordine, come sono tutti i pensionati italiani. O quasi. Ma, pensione vuol dire vecchiaia. E non tutti la vivono allo stesso modo. La pena di certi giovanilisti, la conoscete, no? Non hanno i pantaloni alle ascelle (ma ormai neppure gli altri), ma poco manca che vestano con il cavallo sulle ginocchia. Se – mettendola in battuta, ma non tanto – ti scusi di certe dimenticanze e dici che è l’età, ne hai reazioni diverse: condiscendenti di chi qualche anno in più di te ce l’ha, indispettite di chi è solo un po’ meno vecchio di te. Perché? Perché oggi la vecchiaia non è la benedizione che la Bibbia augura: è uno spettro da tenere fuori casa, fuori dalla vita. Perché vecchiaia è solitudine? un po’ lo è, soprattutto per chi non ha una figliolanza, o, se ce l’ha, si è dileguata dentro le proprie preoccupazioni. Perché vecchiaia è fragilità? e dunque uno scarto?: sì, rispetto all’andare e al fare frenetico di questo mondo che ci siamo fabbricati, dal boom economico del secolo scorso ad oggi, in una frenesia sempre più aggressiva. Perché non è social? pur avendo imparato molto della tecnologia, dal ciclostile ad alcool della sua giovinezza all’uso intelligente dell’online, il su di età si rifiuta di cascare nei meandri virtuali delle relazioni: è convinto che nulla si comunica con Facebook o WhatsApp. Se comunicare è qualcosa di diverso dall’informare su cose materiali; se scende dal principio di comunione – eucaristica, perché no? – relazione che appunto va a toccare l’anima e non solo orecchi od occhi. Solo così di un vecchio sano, benché messo nell’angolo, si può dire che sembra guardare nel vuoto, ma vede. È vero:con l’avanzare del tempo si perde qualcosina. Ma, se egli si accetta, vede dal profondo dei suoi anni: che sanno di profezia se appena appena, nell’attraversare la vita, ha conservato una libertà dal sentire di massa. Questo toccare l’anima che è relazione di corpo e di spirito, la tecnologia non potrà mai realizzarlo. E chi crede a questa favola, si confonde, e si svia dalla realtà: che è l’incontro. Di persona. E lì, davanti a te. L’amicizia, di qualunque tonalità, si sfigura nella lontananza. E non può prendere figura sul più sofisticato smartphone. E ora vengo alla vostra prevedibile obiezione: c’è vecchiaia e vecchiaia. E l’imbarazzo di certa vecchiaia. Non nascondo la testa sotto la sabbia: quelle sedie in circolo nelle Rsa, quegli sguardi assenti, quelle movenze incontrollate… e il giusto timore che ti possa toccare. È questa forse la spiegazione di quel voler rallentare il pensiero di ciò che sta avvenendo a chi supera la soglia dell’ormai diversamente adulto? Un timore giustificato: ogni volta è una lite tremenda col Padreterno, che da questa parte del mondo non confesserò mai come un peccato: glielo confesserò faccia a faccia, quando sarò al suo cospetto (e già mi aspetto un suo sorrisino ironico di fonte alla mia fede presbite). E non ci litigo solo ora, ma da sempre: perché non gli anticipi l’incontro con Te? perché li lasci qui a turbarci? Appunto. A turbarci: a richiamarci che non si vive da giovani tutta la vita, come se la vita fosse tale perché giovane. Ma si vive tracciando sguardo su quel che la vita, qui, non può dare: Lui. per desiderarlo, anche dal profondo di una infermità sgradevole.
diritti
Andare a scuola con una pistola nello zaino? Con la Georgia, salgono ad una decina gli Stati degli usa in cui gli studenti possono portare pistole negli zaini. Tra questi, Texas, Colorado, Idaho, Kansas, Mississippi, Utah, Wisconsin e Oregon. Insieme ai luoghi di lavoro, nel corso degli anni licei, college, università, se non quando le scuole elementari, sono stati il teatro di stragi, uccisioni di massa, o anche singoli omicidi, compiuti per lo più da ragazzi. Alcuni di questi massacri sono diventati tristemente famosi. E nonostante il loro impatto emotivo sull’intero paese, non sono riusciti a modificare le leggi sul possesso delle armi. Dal 1990, sono state più di 250 le vittime di sparatorie nelle scuole americane, quasi 180 dal 2000. Le vittime devono essere moltiplicate: decine di morti, centinaia di feriti, migliaia di parenti, compresi quelli dei killer, le cui vite vengono devastate. Nonostante, il nuovo presidente assicura alla lobby americana delle armi da fuoco che questo diritto non sarà mai toccato. E dunque: di che si parla, da noi, della facoltà di sparare di notte sì e di giorno no? purché ci sia un evidente pericolo di restarci secchi? Legittima difesa: da sempre, e non solo nelle leggi costituzionali degli Stati, ma anche nei manuali di teologia morale è inteso come principio. Appunto come principio. Ma il tema dovrebbe essere: armarsi tutti per l’eventualità di una aggressione, sconfigge o amplia il pericolo di soccombere? E poi: già che il principio è riconosciuto negli ordinamenti legislativi, per che cosa questa nuova legge? Per accontentare una destra che in ogni menù mette più di un pizzico di paura misto a odio? E dunque per una manciata di voti, che assicuri il posto fisso a politicanti di molta bassa lega? Ed eccola qui la pancia del popolo bue – come altri scrittori osano sfidare il politically incorrect, chiamando per nome il clima che prepara i venti fascisti. La concorrente al soglio presidenziale francese, dicendosi cattolica (alla santanché, per intenderci) difende il suo diritto di criticare il Papa “che fa bene a chiamare alla compassione”, ma essendo egli stesso un sovrano, non deve intromettersi negli affari degli altri stati. Ha o non ha un diritto? Per dei sovranisti dovrebbe essere facile la soluzione, se non peccassero all’origine (il loro peccato originale) della sovranità che si nutre di opposizione, e non di condivisione. Ma a proposito di diritti, il cardinal Hummer racconta: “quando io, sul sagrato di San Pietro, quattro volte ho visto, ai funerali di due Papi e all’insediamento di altri due, che da una parte eravamo noi (cardinali e vescovi), dall’altra i rappresentanti dei governi (parecchi notoriamente atei e alcuni che si professano cristiani ma che forse sarebbe meglio se si professassero atei), mi domandavo che tipo di religiosità è questa. E sognavo il giorno in cui, per una manifestazione di questo genere, vedremmo là il popolo delle borgate romane, che hanno diritto di trovarsi col loro vescovo alla fine o all’inizio della sua missione”. Il diritto del popolo romano, contro l’immagine del sovrano papale a triregno: una bella scossa, forse quella che definitivamente riconsegnerebbe Pietro al suo mandato evangelico. Un diritto che insedierebbe il servizio, e non la potenza, e la carità come risposta a tutte le violenze del mondo, contro ogni presunto diritto alla violenza per rispondere all’aggressione. Perché armarsi prepara la guerra: sui posti di lavoro, nelle scuole, nelle chiese: i fatti di cronaca ormai quotidiana son lì ad avvertirci. Noi, i cristiani – come quelli vessati dall’Egitto alla Siria – si risponde con la frusta della parola, la stessa di Gesù, per ridare all’altro una primaria percezione della sua dignità: “Perché mi percuoti?”. E non con un colpo di pistola, che ne annienterebbe la possibilità di quel pentimento che gli spalancherebbe le porte del Dio crocifisso.
lievito
S’aveva ragione. Questo modo toscaneggiante sta danzando da alcune ore, dentro. Che forse non sarà bello, secondo un ascetico-correct. Ma se ne prenda atto. Qualche scritto fa, citavo don Milani a cinquant’anni dalla morte. Ora è un papa che dice cose che hanno segnato il mio essere prete, dalla lettura clandestina di quelle Esperienze Pastorali che capovolgevano fin dagli anni cinquant’anni il modo di essere chiesa in Italia. Un modo subito bersagliato dai Gesuiti della Civiltà Cattolica, la rivista papale per eccellenza; ma poi guardato sempre con sospetto da preti del recinto e dai loro contubernali, in chi ha tentato negli anni un essere prete che non passasse da biliardini e salamelle varie: cose che illudono ancora oggi, accanto alle adunate oceaniche così distanti dall’attenzione piccola ma personale della canonica di Barbiana. S’aveva ragione: e non perché adesso anche un papa lo dice. S’aveva ragione per quella essenzialità del vissuto evangelico che esce dagli schemi mondani: gli schemi del numero, del voler contare, del proselitismo religioso senza fede. La fede, che è cosa più grande di una aderenza che “s’accontenta”; e che alla fine nulla spartisce con dettami di contenimento morale sui quali si giocava un trattenere nel recinto, e non quella libertà dalla legge che ammazza l’uomo. Ma, si sa, la vita della chiesa va avanti per secchiate. A questa rivalutazione – sempre più vero il detto che prima l’istituzione ecclesiastica fa martiri e poi li mette sugli altari – fa da contraltare quella “apertura” del quotidiano Avvenire al movimento del vaffanday che è il trionfo dell’antipolitica, del populismo, del giustizialismo e del qualunquismo. Esattamente l’opposto dell’accoglienza, della razionalità, e della corresponsabilità. Ora, linciare il direttore di quel giornale per una scivolata non è lecito (anche se, caro direttore, ha scandalizzato parecchi di noi, e si è reagito buttandola in ironia): ha scritto e detto cose egregie negli anni, e ha dato al suo lavoro un indirizzo sicuramente onesto. Fino ad ora. Ma adesso? Ancora si rifanno gli errori di appoggiare i possibili vincitori del momento? Già successo nel recente passato, con il conductor delle olgettine. Possibile che sia così difficile accettare di essere il piccolo resto, quel lievito e quel pizzico di sale che dà sapore? Insomma, è così difficile accettare di essere diversi? Secchiate calde e fredde: dicono, non so, sia il metodo svedese per la buona salute. Beh, i cristiani – quelli che tentano di esserlo con coerenza rispetto alla fede nel Risorto, e perciò non stanno rigidi dentro regole che hanno fatto il loro tempo, tempo pur buono s’intende, ma tempo che deve lasciar posto all’oggi della vita – i cristiani possono ben sperare: di queste secchiate son pieni i loro giorni. Vengono da destra e da sinistra, dall’alto e dal basso. Ecco perché si sta comunque nella chiesa, anche quando è evidente che non sa cavalcare la vita, quando si trincera dietro una legge naturale che per essere assoluta dovrebbe essere ormai del tutto conosciuta: e non è così, dato che ogni giorno e ogni uomo svela qualcosa di nuovo di sé, continuamente. Ci si sta – per usare un’espressione di don Milani – non solo perché si ha bisogno del perdono dei peccati, che solamente la Chiesa assicura attraverso gesti e parole che si conficcano nella persona; ma perché il cambiamento lo realizzano solo quelli che stanno dentro, e non quelli che fuggono da porte di servizio. Dentro questa Chiesa delle contraddizioni resistono in molti, e senza poi tanto affanno. Sperano comunque che le uniche contraddizioni da inseguire siano quelle evangeliche, e non quelle ecclesiastiche. Perché è già fatica accettare, nella propria fragilità, il Vangelo sine glossa del Signore.
Pasqua
È oggi il 14 di Nisan, aprile per noi: un pomeriggio dal sole ammalato, con un foschia che impedisce di arrivare con lo sguardo alla corona degli Appennini che in giornate terse conforta chi sta qui, su questa collina coltivata a vigneto fin dall’anno mille. È il giorno di quella Pasqua ebraica che si è vista rivoluzionare la sua unicità. Da allora, il racconto non sarebbe più stato, per molti, il ricordo della liberazione dalla schiavitù per un popolo che desiderava una propria terra, e una propria storia. Per molti da allora si sarebbe ricordata un’altra liberazione; e da allora, per molti, si sarebbe avviata un’altra storia. Su un mostriciattolo appena fuori Gerusalemme, viene inchiodato Dio: nella complicità del potere religioso e del potere civile, si proclama che non c’è posto per chi pretende una visione del mondo fondata sulla dignità delle persone, e non della legge. Si crocifigge l’immagine di un Dio del tutto irregolare rispetto alle proprie accomodate costruzioni. Ci si libera di un Dio che ha preteso di essere uomo. Sanno quelli della mia generazione a che cosa si era ammaestrati fin da piccoli sulla forma di Dio: un essere perfettissimo, onnipotente e onnisciente… Tanto perfettissimo da essere irraggiungibile. Per questo mi è successo tra gli anni ottanta e novanta del secolo scorso – a giovani preti, che appena usciti dal Seminario erano convocati mensilmente per un accompagnamento in una novità non facile per la loro nuova vita – di avvertire per quella tentazione di ridurre a un “gesuismo” la loro catechesi. Un Gesù senza un Dio in lui: certo di più facile accesso a chiamate religiose, ma pericolosamente lontano dalla fede. È sempre stato difficile, e lo è tutt’ora, coniugare un Dio di misericordia con un mondo d’inferno: dove il male sembra avere la meglio. Perché l’onnipotenza di Dio si è consegnata sulla croce, in Gesù. Annientandosi di fronte alla libertà dell’uomo. Bonhoffer, un cristiano impiccato nei lager nazisti, ci avrebbe ricordato che la croce è “la misura della distanza che c’è tra Dio quale è e il dio che ci vogliamo immaginare”. E dunque “solo un Dio debole può salvarci”. Che non è una cosa tanto digeribile. Eppure sapere di un Dio che si consegna a noi, che piange con noi, che chiede di essere consolato, Lui, come vogliamo noi essere consolati, è il Dio di quella compagnia che già nella sua forma trinitaria dice una condivisione di tutto se stesso. Chiamandoci allo stesso stile di condivisione. Quel 14 di Nisan la liberazione prendeva una strada nuova, non più in fuga da carri e faraoni. Con un Dio che finalmente si accosta a noi, che non vive perfettissimo, altrove dalla nostra connaturata imperfezione. Un Dio che si consegna, il nostro, senza nulla toglierci del nostro scegliere la vita. Pagando con noi il prezzo di fallimenti; esultando con noi quando finalmente l’amore ci afferra e ci slancia. Nella notte in cui fu tradito, proprio quella notte avviene l’irreversibilità della memoria: prende un calice di vino, e dice che sarà ormai il suo sangue la nostra salvezza. Dello stesso vino che sgorgherà da queste viti in sboccio, in questo aprile pasquale; vino, che con il pane – frutti di terra e delle fatiche umane – ogni giorno del Signore deponiamo tra le antiche pietre di questa abbazia: per esserci restituito in umanità e divinità inscindibili, per la certezza che la nostra speranza non sarà delusa.