S’aveva ragione. Questo modo toscaneggiante sta danzando da alcune ore, dentro. Che forse non sarà bello, secondo un ascetico-correct. Ma se ne prenda atto. Qualche scritto fa, citavo don Milani a cinquant’anni dalla morte. Ora è un papa che dice cose che hanno segnato il mio essere prete, dalla lettura clandestina di quelle Esperienze Pastorali che capovolgevano fin dagli anni cinquant’anni il modo di essere chiesa in Italia. Un modo subito bersagliato dai Gesuiti della Civiltà Cattolica, la rivista papale per eccellenza; ma poi guardato sempre con sospetto da preti del recinto e dai loro contubernali, in chi ha tentato negli anni un essere prete che non passasse da biliardini e salamelle varie: cose che illudono ancora oggi, accanto alle adunate oceaniche così distanti dall’attenzione piccola ma personale della canonica di Barbiana. S’aveva ragione: e non perché adesso anche un papa lo dice. S’aveva ragione per quella essenzialità del vissuto evangelico che esce dagli schemi mondani: gli schemi del numero, del voler contare, del proselitismo religioso senza fede. La fede, che è cosa più grande di una aderenza che “s’accontenta”; e che alla fine nulla spartisce con dettami di contenimento morale sui quali si giocava un trattenere nel recinto, e non quella libertà dalla legge che ammazza l’uomo. Ma, si sa, la vita della chiesa va avanti per secchiate. A questa rivalutazione – sempre più vero il detto che prima l’istituzione ecclesiastica fa martiri e poi li mette sugli altari – fa da contraltare quella “apertura” del quotidiano Avvenire al movimento del vaffanday che è il trionfo dell’antipolitica, del populismo, del giustizialismo e del qualunquismo. Esattamente l’opposto dell’accoglienza, della razionalità, e della corresponsabilità. Ora, linciare il direttore di quel giornale per una scivolata non è lecito (anche se, caro direttore, ha scandalizzato parecchi di noi, e si è reagito buttandola in ironia): ha scritto e detto cose egregie negli anni, e ha dato al suo lavoro un indirizzo sicuramente onesto. Fino ad ora. Ma adesso? Ancora si rifanno gli errori di appoggiare i possibili vincitori del momento? Già successo nel recente passato, con il conductor delle olgettine. Possibile che sia così difficile accettare di essere il piccolo resto, quel lievito e quel pizzico di sale che dà sapore? Insomma, è così difficile accettare di essere diversi?  Secchiate calde e fredde: dicono, non so, sia il metodo svedese per la buona salute. Beh, i cristiani – quelli che tentano di esserlo con coerenza rispetto alla fede nel Risorto, e perciò non stanno rigidi dentro regole che hanno fatto il loro tempo, tempo pur buono s’intende, ma tempo che deve lasciar posto all’oggi della vita – i cristiani possono ben sperare: di queste secchiate son pieni i loro giorni. Vengono da destra e da sinistra, dall’alto e dal basso. Ecco perché si sta comunque nella chiesa, anche quando è evidente che non sa cavalcare la vita, quando si trincera dietro una legge naturale che per essere assoluta dovrebbe essere ormai del tutto conosciuta: e non è così, dato che ogni giorno e ogni uomo svela qualcosa di nuovo di sé, continuamente. Ci si sta – per usare un’espressione di don Milani – non solo perché si ha bisogno del perdono dei peccati, che solamente la Chiesa assicura attraverso gesti e parole che si conficcano nella persona; ma perché il cambiamento lo realizzano solo quelli che stanno dentro, e non quelli che fuggono da porte di servizio. Dentro questa Chiesa delle contraddizioni resistono in molti, e senza poi tanto affanno. Sperano comunque che le uniche contraddizioni da inseguire siano quelle evangeliche, e non quelle ecclesiastiche. Perché è già fatica accettare, nella propria fragilità, il Vangelo sine glossa del Signore.