“Gira in zona da qualche giorno, pioggia o sole. E siccome piove spesso, perché aprile è il più crudele dei mesi, ma anche questo maggio non scherza, è spesso zuppo e fangoso. …  Sembra che guardi nel vuoto. Fa così da quattro giorni. E smette di piovere. No, ricomincia. Beh, è uguale”.  Riprendere questo pezzo di un bel romanzo giallo, potrà sembrare fuori luogo; e un po’ lo è. Perché lì il soggetto è un barbone, che non è un anziano, ma potrebbe esserlo. E perché qui non si parla di chi ha una scarpa da cui occhieggia un dito, né è inavvicinabile per un odore malefico. È un uomo degno: pulito e in ordine, come sono tutti i pensionati italiani. O quasi. Ma, pensione vuol dire vecchiaia. E non tutti la vivono allo stesso modo. La pena di certi giovanilisti, la conoscete, no? Non hanno i pantaloni alle ascelle (ma ormai neppure gli altri), ma poco manca che vestano con il cavallo sulle ginocchia. Se – mettendola in battuta, ma non tanto – ti scusi di certe dimenticanze e dici che è l’età, ne hai reazioni diverse: condiscendenti di chi qualche anno in più di te ce l’ha, indispettite di chi è solo un po’ meno vecchio di te. Perché? Perché oggi la vecchiaia non è la benedizione che la Bibbia augura: è uno spettro da tenere fuori casa, fuori dalla vita. Perché vecchiaia è solitudine? un po’ lo è, soprattutto per chi non ha una figliolanza, o, se ce l’ha, si è dileguata dentro le proprie preoccupazioni. Perché vecchiaia è fragilità? e dunque uno scarto?: sì, rispetto all’andare e al fare frenetico di questo mondo che ci siamo fabbricati, dal boom economico del secolo scorso ad oggi, in una frenesia sempre più aggressiva. Perché non è social? pur avendo imparato molto della tecnologia, dal ciclostile ad alcool della sua giovinezza all’uso intelligente dell’online, il su di età si rifiuta di cascare nei meandri virtuali delle relazioni: è convinto che nulla si comunica con Facebook  o WhatsApp. Se comunicare è qualcosa di diverso dall’informare su cose materiali; se scende dal principio di comunione – eucaristica, perché no? – relazione che appunto va a toccare l’anima e non solo orecchi od occhi. Solo così di un vecchio sano, benché messo nell’angolo, si può dire che sembra guardare nel vuoto, ma vede. È vero:con l’avanzare del tempo si perde qualcosina. Ma, se egli si accetta, vede dal profondo dei suoi anni: che sanno di profezia se appena appena, nell’attraversare la vita, ha conservato una libertà dal sentire di massa. Questo toccare l’anima che è relazione di corpo e di spirito, la tecnologia non potrà mai realizzarlo. E chi crede a questa favola, si confonde, e si svia dalla realtà: che è l’incontro. Di persona. E lì, davanti a te. L’amicizia, di qualunque tonalità, si sfigura nella lontananza. E non può prendere figura sul più sofisticato smartphone. E ora vengo alla vostra prevedibile obiezione: c’è vecchiaia e vecchiaia. E l’imbarazzo di certa vecchiaia. Non nascondo la testa sotto la sabbia: quelle sedie in circolo nelle Rsa, quegli sguardi assenti, quelle movenze incontrollate… e il giusto timore che ti possa toccare. È questa forse la spiegazione di quel voler rallentare il pensiero di ciò che sta avvenendo a chi supera la soglia dell’ormai diversamente adulto? Un timore giustificato: ogni volta è una lite tremenda col Padreterno, che da questa parte del mondo non confesserò mai come un peccato: glielo confesserò faccia a faccia, quando sarò al suo cospetto (e già mi aspetto un suo sorrisino ironico di fonte alla mia fede presbite). E non ci litigo solo ora, ma da sempre: perché non gli anticipi l’incontro con Te? perché li lasci qui a turbarci? Appunto. A turbarci: a richiamarci che non si vive da giovani tutta la vita, come se la vita fosse tale perché giovane. Ma si vive tracciando sguardo su quel che la vita, qui, non può dare: Lui. per desiderarlo, anche dal profondo di una infermità sgradevole.