acquarelli estivi

Alla fine gli tolse anche il saluto. Dopo avere in tutti i modi cercato di far prevalere la propria opposizione. Dopo essere stata persino in Curia, e aver scritto alla Soprintendenza, che si erano chiamate fuori per incompetenza rispetto all’oggetto. Dopo aver piazzato ragioni paraecologiche in tutti i vicoli del pettegolezzo. Dopo che il progetto di sostituzione era ormai divenuto realtà. Tra le sue ragioni non aveva certo lasciato posto a quelle vere: la sua casa prospiciente gli spazi interessati, e i dieci metri quadri altrui di cui si era impossessata per il proprio posteggio, come qualcuno le aveva rimproverato. Voleva che la grande ombra ancora continuasse per sé, nonostante le diagnosi di malattia che gli specialisti avevano ufficialmente decretato per quegli alberi. Diceva che ci si doveva pensare quando sarebbero caduti: sulla testa tua, ridacchiavano senza indulgenza i compaesani suoi. Ma può talvolta aver ragione la non-indulgenza? Don Enrico aveva capito che le ragioni dell’Ubolda non erano solo quelle meschine, dette o taciute. Erano uno stato d’animo che la questione delle piante confinanti rivelava solo in parte: la paura di vedere cambiati gli orizzonti. La paura di ricominciare da capo, ad aspettare che l’albero nuovo prendesse la forma del desiderio, la vastità delle fronde e l’ombra nuova. Inutile ribadire che questo era già avvenuto nelle generazioni precedenti: che sempre qualcuno che pianta accetta lo svolgersi delle cose. Uno stato d’animo che non era solo dell’Ubolda: più drammaticamente, investiva i campi più conformi al suo apostolato. Lo sentiva, don Enrico, in libri dotti, in articoli sempre più ossessivi nel difendere il passato liturgico, catechistico. Lo percepiva in certe sorde resistenze di alcuni parrocchiani all’individuazione di una nuova evangelizzazione. Quante sere aveva speso a convincere che la “nuova evangelizzazione” – che i papi venuti dopo Paolo VI hanno raccolto e rilanciato – non voleva dire nuovo Vangelo, ma nuovo modo di predicarlo a chi riteneva di conoscerlo, ma di fatto lo identificava con le formulazioni che i tempi passati si erano dati. Quante volte aveva ripetuto che la Tradizione della Chiesa non ha una data oltre la quale ci si stabilisce in uno stare, in un dire, e in un fare, ma che anche l’oggi è Tradizione. Certo che non si butta nulla degli edifici costruiti dalle summae teologiche: ma guai a chi rinuncia a riconsiderare i vani di abitabilità, ad aprire nuove finestre che immettano a nuove prospettive, ad abbattere steccati per fare di due un solo spazio. Quante volte l’avrebbe dovuto ancora ripetere?