adotta! bambini? no, cani

Sta partendo una campagna Rai per il non abbandono dei cani in estate. Ottima. Ma il problema sta da un’altra parte. Quando i cani sono meglio dei bambini. Mai viste coppie fresche di matrimonio che passeggiano mano nella mano di un guinzaglio? Qualche tempo fa, una intervista sul Corriere della Sera raccoglieva l’indignazione di una suora che da 18 anni lavora in Etiopia: e cioè immersa in ciò che è essenziale per la vita. C’è l’aspetto consumistico: ipermercati con intere corsie dedicate agli animali, dai biberon al paltoncino per l’inverno. E c’è l’aspetto sociale: cani dappertutto, in braccio accarezzati dalle loro maman, o tra i piedi di chi tenta l’avvicinamento al bancone di un bar per un caffè: e chi ci perde spazio, negli intenti dei padroncini, sono gli umani, naturalmente. Non è politically correct dirlo? E proprio per questo lo si dica ormai ad alta voce. Che qualche animale sia di buona compagnia per anziani, o per bambini, nessuno lo vuol negare a nessuno. Ma è questione di proporzioni. Mai visto due signore che s’incontrano e fanno salamelecchi alla creatura - ma che bello, che dolce, carino proprio, ma ti lascia dormire di notte?: e la creatura non è il nipotino ma un chihuahua. “Mi muoiono bambini perché non abbiamo cannule pediatriche e alla radio consigliano lo psicologo per i cani che si mordono le unghie!”. Chi sa se nel ritorno al sacramento della confessione (ma quanto durerà?) così come è sbandierato dai giornali, ci si accuserà di improprietà sulla vita: dietro l'amore per cani e gatti, si nasconde spesso l’incapacità di amare gli umani, uomini e donne che parlano, interloquiscono, confliggono, ma relazionano.

13 maggio 2013
 


mistero e pazzia

Uno va dal papa una, due volte; si fa sposare in casa sua; gli porta moglie e figlio. E poi spara: uccide sé dopo aver ucciso la donna che pure amava fino alla pazzia della gelosia. La pazzia c’è. Si è cercato di negarla; pur correttamente distinguendo malattie mentali curabili, si è negato l’inconoscibile: quella profondità dell’io, intoccabile da qualsiasi psichiatra, o da qualsiasi consulente psicologico. Da Freud in poi, si è rovistato dentro quel  lago (o quello stagno?): si riemerge, chi sa perché, il più delle volte, odiando padre e madre, dicendosi storti. Ma che lo si voglia o no, un seme di distinzione tra ciò che è bene e lo sbagliato, la differenza nel conflitto che li assume e li elabora e non li fa diventare una guerra, ci abita. Ma a Roma oggi, o altrove sempre, questo senso di sé e della vita, si rompe.  Perché? Non ci si rassegna al mistero; e al male che talvolta il mistero di questa nostra umanità racchiude. Si è tentato di negare la ferita: chiamala peccato originale, o con un altro nome se non ti riesce di accettare il nome dato dalla sapienza giudeocristiana, ma non negare la ferita. E’ esperienza del quotidiano che tocca ciascuno: quell’incapacità di far collimare desiderio e realtà, e voglie di vita e morte altrui e proprie. La pazzia esiste, purtroppo: ci resta solo di pregare di esserne liberati. 

(C’è un particolare che nella odierna vicenda di Roma colpisce: nelle foto che lo ritraggono fuori di S. Marta con il papa che benedice il bambino, lui non ha occhi puntati sull’evento, lui dà occhi al telefonino, a futura memoria: non lasciando che l’anima nutrisse gli occhi, e dunque la vita. Per una futura memoria si perde il presente che alimenta di bellezza il futuro. Ma questa è ricorrente pazzia di molti.)_


caro Rettore, ho letto con un po' di fatica l'ultimo "da Qui". Vediamo se  ho capito: accettare che ci sia un momento nella vita in cui non siamo più padroni di un giudizio di vita, è accettare la nostra creaturalità. Bisogna dunque riconoscere che non tutto ci appartiene: accettare il mistero vuol dire accettare che non siamo Dio. E' così?   Rispondo:  E' così_


fraternità, fiducia

 Ovvero, quando due sostantivi si illuminano a vicenda nelle vicende che attraversiamo. Alla chiesa di Bergamo il vescovo Francesco ha consegnato il motto fraternità perché ci si lavorasse, quest’anno: un programma pastorale appunto. Che qualcuno non ha saputo trasformare in virtù, non declinando quella parola in una delle altre che la compongono, ma prendendola come fosse essa stessa già una virtù. Eppure sono parroci per altro intelligenti – per altro – quelli che non hanno saputo distinguere tra fraternità come un metodo di vita cristiana, e le virtù che possono aiutare il farsi della fraternità. Così, nel consenso che un governo deve chiedere al Parlamento si parla difiducia: che è passaggio istituzionale, concordanza di intenti di alcune parti politiche a un programma. Ben diversamente da quella fiducia che si chiede al paese: fiducia che diventa pazienza, accettazione forse di passaggi difficili, certo supporto ai deputati che hanno pattuito con un esecutivo perché lavori per il bene comune. Anche nel patto civile dunque viene chiesta la virtù della fiducia, che è pure una delle componenti senza cui il progetto di comunità cristiane costruite sulla fraternità non si compone. E la fiducia è quel legame nel quale i cittadini non possono non riconoscersi: fermo restando il diritto a difendere le proprie diversità, inoltrandosi così nel difficile di comporre unità senza ridursi a uniformità. Certo, e lo si dice per la politica, non servono troppe promesse: deludono per la loro immediata impraticabilità, e spiazzerebbero quanti danno fiducia; e per le comunità cristiane non basta enucleare in catechesi il progetto fraternità, se non ci si chiama al rispetto delle storie dentro cui si sono fatte le comunità stesse. La fiducia è una costruzione faticosa, un arrembaggio dei singoli all'egoismo, non la si inventa, la si guadagna: per questo occorre prudenza nel dire che la fraternità i cristiani già sanno cos'è; e che la fiducia basta darla. Ma: fraternamente fiduciosi, nella Provvidenza, i cristiani, per non esaurirsi nel calcolare persino la carità; fiduciosamente fraterni, i cittadini di una nazione, per non sprecare il futuro.


finalmente Romero

 Una di quelle notizie che ci aspettiamo da tempo, a indicare finalmente una svolta. A cinquant’anni dal Concilio, che per tanti se e ma di opportunità talvolta meschine, non è stato lasciato fiorire, papa Francesco insegna: “Il Concilio è stato un’opera bella dello Spirito Santo. Pensate a Papa Giovanni: sembrava un parroco buono e lui è stato obbediente allo Spirito Santo e ha fatto quello. Ma dopo 50 anni, abbiamo fatto tutto quello che ci ha detto lo Spirito Santo nel Concilio? In quella continuità della crescita della Chiesa che è stato il Concilio? No. Festeggiamo questo anniversario, facciamo un monumento, ma che non dia fastidio. Non vogliamo cambiare. Di più: ci sono voci che vogliono andare indietro. Questo si chiama essere testardi, questo si chiama voler addomesticare lo Spirito Santo, questo si chiama diventare stolti e lenti di cuore”.  Uno, Francesco, che al Concilio ci crede davvero, e le sue omelie a S. Marta sono un quotidiano vademecum per i discepoli che si fanno docili al vento dello Spirito. Dice e fa: spolvera una pratica che era rimasta sotterrata per quella indiscutibile tendenza di pontificati e di vertici strabici: i nemici li vedono solo a sinistra del popolo di Dio. Seppellendo così una seconda volta il vescovo di San Salvador, ucciso nel cuore della celebrazione eucaristica da assassini che non volevano più che la sua voce gridasse a favore dei poveri di quella nazione. Un uomo ucciso per amore degli uomini. Come Massimiliano Kolbe, in altro contesto. O come il prete bergamasco Antonio Seghezzi, pure lui in altro contesto martire di carità. [ Se qualcuno vicino al papa legge queste note, gli chieda di far riesumare la pratica di beatificazione di don Seghezzi, rinchiuso e morto ad Auschwitz per aver aiutato e non denunciato i suoi giovani di Azione Cattolica ribelli al nazifascismo ].  Alcuni vengono esaltati, altri dimenticati nella polvere degli archivi. Alcuni godono di una devozione personale di pontefici e abitanti della corte: è umano, si dice. Ma non quando i propri pregiudizi impediscono la verità nella Chiesa. Finalmente Romero: e con lui uno scoperchiamento che allontani gli arrampicatori perfino delle nicchie degli altari. Una chiesa che finalmente dia al mondo se stessa, negli uomini migliori che sanno oggi insegnare la via.


il giorno che cambia

Da qui i tramonti non si vedono. Rivolti a sud, abbracciati dal monte Canto che si piega in due quinte quasi a contenere questa terra, ci è impedito il tramonto, e pure l’alba. Non che non sorga il sole, o qui non si spenga la sera: non lo si vede sorgere, né tuffarsi nell'altro mondo, con quei colori - carminio e giallo e acquamarina - che, venendo dalla città nella piana di Mapello, là sopra l'Adda ti incendiano il cuore. Qui si è quasi fissati nel pieno del giorno: di sole sono assetati i vitigni migliori, di sole le donne che un tempo cantavano sul respiro talvolta non limpido della pianura che si stende davanti. E la luce di questa primavera finalmente incominciata rende giustizia a un’attesa prolungata, fatta di piogge e di cieli grigi: ma ogni stagione prepara le seguenti, occorre la pazienza del giorno dopo giorno. Nella vita, malinconia per stagioni perdute e speranze incerte sul domani. E infatti, non avviene nella nostra nazione: già dire primavera che non c’è potrebbe essere auspicabile, visto come sono finite le primavere dei paesi che s’affacciano dall’Africa sul Mediterraneo; e visto come usa questa risonanza il capo di quel movimento che sta tenendo fermo il nostro paese al suo delirio di onnipotenza. Ma sta avvenendo nella Chiesa, pare di poter sperare, seppure con trepidazione: le enfasi degli uni e il naso arricciato di altri ricorda la molta cenere sulla brace, di cui ha scritto nel suo testamento il cardinal Martini. Se qualcosa altrove comincia, ben venga ad illuminare dove si sta. E se qualcosa finisce al di là dello sguardo possibile, sia un tramonto pieno di speranze per il domani. Quel che è certo, non ci si inventa da un giorno all’altro quello che non si è - e se non si spazza la cenere da un passato, anche recente, che ancora sta schermando quello che è essenziale agli occhi, l’Agnello in piedi immolato, come ricorda Apocalisse: il Cristo risorto che con le sue piaghe non ci permette di nasconderci le nostre. 


la mula del papa

Oggi, domenica in Albis, il papa entra in S. Giovanni in Laterano, sede del vescovo di Roma. Non è la basilica di san Pietro la sua chiesa, ma questa. E probabilmente dal prossimo papa, di correzione in correzione, qui verrà celebrata la prima messa dopo l'elezione. O almeno così si spera, se è vero che i segni a volte sono essi stessi sostanza. Vescovo di Roma, dunque qui: un tempo, lontano da noi, il papa arrivava con una cavalcata a dorso di mula; attraversava tutti i monumenti simboli del potere che gli era soprattutto riconosciuto nel triregno, il copricapo che dal 1300 lo segnalava come Padre dei principi e dei re, Rettore del mondo, Vicario di Cristo in Terra. Se sui due primi titoli è evidente il fuoritempo, sull'ultimo c'è ancora ambiguità, per altro prolungata anche dall'ultimo Concilio, che non ha allargato questo titolo dal papa a tutti i vescovi. Quale ambiguità? Solitamente vicario è chi fa le veci di un assente: ma Cristo si è detto presente con il suo Santo Spirito fino alla fine dei giorni. E papa Francesco dicendo che non il papa non i vescovi non i preti, nessun guru movimentista, nessuno può sostituire Il Signore Gesù, nessuna chiesa dunque, ha svoltato verso l'unica possibile accettazione della sua funzione - che viene dall'unzione di ciascun battezzato: essere l'immagine esemplare per vita e coerenza al vangelo di Colui che egli predica al mondo. Ma restando avvertito di non sentirsi suo sostituto. Sarebbe un lusso se da san Pietro arrivasse oggi a san Giovanni non su un auto scoperta, ma su una mula, la stessa di Gesù il giorno delle Palme? e non sarebbe arcaismo: ma una volta di più compiere gesti che diventano segni. So di chiedere troppo a questo papa,che è entrato con tanta urgenza nei desideri delle persone, e che è stato caricato di molta enfasi: lasciamolo essere il vescovo di Roma. Che già non è poco.


papafrancesco

con fiducia, senza illusioni

Ore 23 - vedo dal telegiornale che nella celebrazione imbraccia il pastorale di Paolo VI, abbandonando la croce dorata messa in mano al suo predecessore: che legga il nostro sito, e le nostre attese di alltri segni di sobrietà liturgica?!

 Gli osanna con i quali è cominciata la sua ultima settimana di vita, avranno impensierito Gesù? La determinazione con cui si è avviato verso Gerusalemme, con il suono delle parole di Tommaso "andiamo anche noi a morire con lui" sembra interrotta da quelle palme sventolanti e da quei mantelli stesi davanti al puledro che lo porta. Uomo del cui patire non c'è ombra, dice la Scittura. Uomo che vive di speranza, come noi, uomo che forse vede allontanarsi da sé l'odio dei nemici? O la percezione di una pausa, una volta di più segno di totale incomprensione di chi lui è? e di che cosa è chiamato a dare, fino al tutto della sua vita. Il giorno dello sventolio delle palme, è anche l'ultima illusione di Giuda: quel regno su cui ha scommesso la sua appartenenza al Nazareno, non è per nulla perduto, forse pensa. Ma gli bastano tre giorni per deludersi di nuovo, e lo vende a chi lo odia: forse con le lacrime negli occhi del cuore, chi lo può negare in assoluto, o forse con la segreta speranza che rendendolo un martire non tutto è perduto. --- Pensieri scaturiti dalla foto: giorni di gloria per Francesco, ma la palma che stringe non può fargli dimenticare la croce a cui è stato avviato. La croce che può essere resa più pesante da chi lo vorrebbe diverso: da chi teme una svolta verso una sobrietà che attaccasse le certezze di un potere consolidato da tronfi ritualismi che allontanano dal Risorto più di quanto non facciano i senzadio. Già c'è chi arriccia il naso, e la lingua. Aiutiamolo: in tutti i giovedì santo che celebrerà con noi, portandoci l'imperativo dolcissimo del servizio; e nei venerdì santo che vivrà appeso alle  incapacità della Chiesa nel seguirlo; e nei silenzi dei sabati santi che segneranno i dubbi della fede, nostra e sua. Aiutiamolo ad arrivare ogni giorno, nonostante, a quell'attimo pasquale che rigenera la vita: la sua per la nostra.


essere preti, di papa francesco

 «Il buon sacerdote si riconosce da come viene unto il suo popolo. Quando la nostra gente viene unta con olio di gioia lo si nota: per esempio, quando esce dalla Messa con il volto di chi ha ricevuto una buona notizia. La nostra gente gradisce il Vangelo predicato con l’unzione, gradisce quando il Vangelo che predichiamo giunge alla sua vita quotidiana, quando scende come l’olio di Aronne fino ai bordi della realtà, quando illumina le situazioni limite. Bisogna uscire a sperimentare la nostra unzione il suo potere e la sua efficacia redentrice: nelle “periferie” dove c’è sofferenza, c’è sangue versato, c’è cecità che desidera vedere, ci sono prigionieri di tanti cattivi padroni. Non è precisamente nelle autoesperienze o nelle introspezioni reiterate che incontriamo il Signore: i corsi di autoaiuto nella vita possono essere utili, però vivere passando da un corso all’altro, di metodo in metodo porta a diventare pelagiani, a minimizzare il potere della grazia che - si attiva e cresce nella misura in cui, con fede, usciamo a dare noi stessi e a dare il Vangelo agli altri, a dare la poca unzione che abbiamo a coloro che non hanno niente di niente. Il sacerdote che esce poco da sé, che unge poco - non dico “niente” perché la nostra gente ci ruba l’unzione, grazie a Dio - si perde il meglio del nostro popolo, quello che è capace di attivare la parte più profonda del suo cuore presbiterale. Chi non esce da sé invece di essere mediatore, diventa a poco a poco un intermediario, un gestore. Tutti conosciamo la differenza: l’intermediario e il gestore “hanno già la loro paga” e siccome non mettono in gioco la propria pelle e il proprio cuore, non ricevono un ringraziamento affettuoso, che nasce dal cuore. Da qui deriva precisamente l’insoddisfazione di alcuni, che finiscono per essere tristi e trasformati in una sorta di collezionisti di antichità oppure di novità, invece di essere pastori con “l’odore delle pecore”, pastori in mezzo al proprio gregge, e pescatori di uomini. È vero che la cosiddetta crisi di identità sacerdotale ci minaccia tutti e si somma ad una crisi di civiltà; però, se sappiamo infrangere la sua onda, noi potremo prendere il largo nel nome del Signore e gettare le reti. È bene che la realtà stessa ci porti ad andare là dove ciò che siamo per grazia appare chiaramente come pura grazia, in questo mare del mondo attuale dove vale solo l’unzione - e non la funzione -, e risultano feconde le reti gettate unicamente nel nome di Colui del quale noi ci siamo fidati: Gesù».  

 


sarà Francesco?

La novità è questa, e nessuno può pretendere di tirarsi addosso il lenzuolo per non vedere e per non sentire, con l’uffa proprio di chi si sente superiore a che il papa sia l’uno o l’altro, nella sua concretezza umana. Certo, a star dietro a tutte le paginate sul nuovo, ci si può perdere: spiato in ogni gesto, in ogni parola. Che lui sia un vento di novità, non c’è dubbio (ma - tra parentesi appunto - una bella novità sono anche le due facce nuove elette per il parlamento italiano: se le lasciano durare, sono segno finalmente di una rottura del recinto della casta_ e per noi che siamo cittadini responsabili del mondo in forza del fatto cristiano, è un sintomo desiderato). Non solo sembra il già citato Antony Quinn cinematografico nella voglia di star fuori da schemi e forme; ma soprattutto, a me che ho amato Roma senza papa fin dalla sua pubblicazione, papa Francesco potrebbe essere…. Intanto lì tutto cambia, perché la residenza papale è trasferita a Zagarolo, un paesotto dell’entroterra romano: con gran scorno dei romani, che fin che c’era, si lamentavano degli ingorghi, e ora sono alle prese con le erbacce che crescono tra i sanpietrini. E’ l’attenuarsi di una visione vaticano-centrica, con quello che comporta, nel sentire di questo Giovanni XXIV, nella successione a chi aveva spalancato la chiesa al mondo. Ma, al contrario di Giovanni XXIII e, per quello che già si può vedere, al contrario da papa Francesco, “lo dicono agorafobo, scarso di oratoria, timido”. Mentre Roma decade senza papa – san Pietro un museo in cui scorrono ologrammi dei papi precedenti - le udienze vengono fatte sul prato della residenza pontificia in quel di Zagarolo, appunto. Insomma lo sguardo conservatore del protagonista, un don Walter capitato a Roma dalla Svizzera dopo trent’anni di assenza, per chieder conto al nuovo papa di quello che nella Chiesa sta succedendo, potrebbe quello sguardo essere il nostro sguardo, barocco di alcuni, minimalista di altri. Che succede? Che succederà? Sia ben chiaro che non ci si aspetta un altro vangelo, ma finalmente il Vangelo vissuto nella semplicità della storia di un Uomo che si è presentato come Salvatore degli uomini. E qui giocano i segni che questo papa sta dando: nella liturgia celebrata come in tutte le chiese conciliari, senza casule e infule dedicate (cambiasse anche la croce dorata d’appoggio… e tornasse alle braccia cadenti in misericordia del crocifisso di Paolo VI!); nello sfondamento dell’accerchiamento delle guardie di sicurezza per fiondarsi sulle mani tese di piccoli e grandi, degli Abele di oggi e dei Zaccheo che nella mischia aspettano un segno. Che cosa in più potrebbe avvenire in quella piazza? Il figlio di Pietro Bernardone, sulla piazza d’Assisi « non sopportò indugi o esitazioni, non aspettò né fece parole; ma immediatamente, depose tutti i vestiti e li restituì al padre [...] e si denudò totalmente davanti a tutti dicendo al padre: "Finora ho chiamato te, mio padre sulla terra; d'ora in poi posso dire con tutta sicurezza: Padre nostro che sei nei cieli, perché in lui ho riposto ogni mio tesoro e ho collocato tutta la mia fiducia e la mia speranza"». Ci sarà, ne sono certo, chi lo condurrà a processo, in nome di un barocchismo di ritorno che offusca l’altare del Signore. Pregare perché non tema, perché non si lasci irretire, perché si senta rivestito dal pluviale della nostra vicinanza. Che sarà critica, come si conviene a fratelli sinceri, perché, per stanchezza o debolezza, non ceda a chi vorrà una regola di vita cristiana diversa. Perché non abbia la sofferenza di una divisione, la stessa di chi, ancora in vita, Francesco vide prodursi nei suoi compagni. 


un papa che si fa benedire

E lo fa prima di benedire lui la nostra vita. Con il nome di Francesco. Lui che è un gesuita, che da vescovo ha praticato la sobrietà del tratto e dei mezzi. E con un primo incontro da vescovo di Roma che trasforma in preghiera. Ce n'è a sufficienza per le attese talvolta pregne di sfiducia di molti cristiani in questi giorni di vigilia. Molti miei amici mi hanno sentito negli anni passati dire che sarebbe stata ora che lo Spirito Santo tornasse dall'America Latina. E' tornato. E immagino il sospiro di sollievo di molti padri cardinali: che si sia posato su di lui, Jorge Mario, e non su di loro. I tempi sono difficili, e certamente nessuno di loro è entrato in conclave con la segreta speranza di essere eletto. Lui ha detto di sì, e l'ha detto volendosi far chiamare con il nome del poverello d'Assisi. Potrebbe essere il nome di qualche suo familiare, del nonno che è emigrato alla fine dell'Ottocento in Argentina? Fosse pure. O se il riferimento fosse, certo azzardato, a quello che il crocifisso di san Damiano disse al giovane d'Assisi ripara la mia chiesa? una chiesuola cadente quella in cui quel Francesco pregava: e dirupata, tanto da indurlo nell'errore di sentirsi chiamato a fare il manovale, prima di accorgersi che nella fraternità era il segreto della rinascita. Molto più grande è la chiesa che papa Francesco trova, e forse nelle pietre poco rovinata. Anzi, piena di splendori e di ori, gli stessi con cui tenteranno di vestirlo (ho pregato, nel silenzio orante che ci ha chiesto, perché resistesse alla tentazione, perché la gloria mundi non lo sfiori). Ma trova una chiesa di spiriti che chiede un buon restauro, una riqualificazione di immagine che attinga al Vangelo sine glossa del santo d'Assisi: senza tutto quelle croste sotto cui l'abbiamo spesso seppellito. Sii dunque benedetto, e benedetto sia il cammino che incominci. Non senza di noi.