Da qui i tramonti non si vedono. Rivolti a sud, abbracciati dal monte Canto che si piega in due quinte quasi a contenere questa terra, ci è impedito il tramonto, e pure l’alba. Non che non sorga il sole, o qui non si spenga la sera: non lo si vede sorgere, né tuffarsi nell’altro mondo, con quei colori – carminio e giallo e acquamarina – che, venendo dalla città nella piana di Mapello, là sopra l’Adda ti incendiano il cuore. Qui si è quasi fissati nel pieno del giorno: di sole sono assetati i vitigni migliori, di sole le donne che un tempo cantavano sul respiro talvolta non limpido della pianura che si stende davanti. E la luce di questa primavera finalmente incominciata rende giustizia a un’attesa prolungata, fatta di piogge e di cieli grigi: ma ogni stagione prepara le seguenti, occorre la pazienza del giorno dopo giorno. Nella vita, malinconia per stagioni perdute e speranze incerte sul domani. E infatti, non avviene nella nostra nazione: già dire primavera che non c’è potrebbe essere auspicabile, visto come sono finite le primavere dei paesi che s’affacciano dall’Africa sul Mediterraneo; e visto come usa questa risonanza il capo di quel movimento che sta tenendo fermo il nostro paese al suo delirio di onnipotenza. Ma sta avvenendo nella Chiesa, pare di poter sperare, seppure con trepidazione: le enfasi degli uni e il naso arricciato di altri ricorda la molta cenere sulla brace, di cui ha scritto nel suo testamento il cardinal Martini. Se qualcosa altrove comincia, ben venga ad illuminare dove si sta. E se qualcosa finisce al di là dello sguardo possibile, sia un tramonto pieno di speranze per il domani. Quel che è certo, non ci si inventa da un giorno all’altro quello che non si è – e se non si spazza la cenere da un passato, anche recente, che ancora sta schermando quello che è essenziale agli occhi, l’Agnello in piedi immolato, come ricorda Apocalisse: il Cristo risorto che con le sue piaghe non ci permette di nasconderci le nostre.