E lo fa prima di benedire lui la nostra vita. Con il nome di Francesco. Lui che è un gesuita, che da vescovo ha praticato la sobrietà del tratto e dei mezzi. E con un primo incontro da vescovo di Roma che trasforma in preghiera. Ce n’è a sufficienza per le attese talvolta pregne di sfiducia di molti cristiani in questi giorni di vigilia. Molti miei amici mi hanno sentito negli anni passati dire che sarebbe stata ora che lo Spirito Santo tornasse dall’America Latina. E’ tornato. E immagino il sospiro di sollievo di molti padri cardinali: che si sia posato su di lui, Jorge Mario, e non su di loro. I tempi sono difficili, e certamente nessuno di loro è entrato in conclave con la segreta speranza di essere eletto. Lui ha detto di sì, e l’ha detto volendosi far chiamare con il nome del poverello d’Assisi. Potrebbe essere il nome di qualche suo familiare, del nonno che è emigrato alla fine dell’Ottocento in Argentina? Fosse pure. O se il riferimento fosse, certo azzardato, a quello che il crocifisso di san Damiano disse al giovane d’Assisi ripara la mia chiesa? una chiesuola cadente quella in cui quel Francesco pregava: e dirupata, tanto da indurlo nell’errore di sentirsi chiamato a fare il manovale, prima di accorgersi che nella fraternità era il segreto della rinascita. Molto più grande è la chiesa che papa Francesco trova, e forse nelle pietre poco rovinata. Anzi, piena di splendori e di ori, gli stessi con cui tenteranno di vestirlo (ho pregato, nel silenzio orante che ci ha chiesto, perché resistesse alla tentazione, perché la gloria mundi non lo sfiori). Ma trova una chiesa di spiriti che chiede un buon restauro, una riqualificazione di immagine che attinga al Vangelo sine glossa del santo d’Assisi: senza tutto quelle croste sotto cui l’abbiamo spesso seppellito. Sii dunque benedetto, e benedetto sia il cammino che incominci. Non senza di noi.