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Francesco

Mi si dice che va di moda in ambienti di sacrestia il socci-pensiero. Che è pensiero intollerante e partigiano. Non so quanto i suoi compagni di un tempo -  e di una fede che si fermava in alcuni al dito del don Gius invece che a ciò che esso indicava, il Cristo Signore obbediente non a sé – e quanti si riconoscono oggi in quel movimento, e che non si sono piegati a logiche economiche e di potere, quanti insomma si ritraggano oggi dal sopraddetto pensiero, e lo aiutino - lo curino - con l’evangelica correzione fraterna. Aveva cominciato il nostro denigrando il cardinal Martini, definendolo non cattolico: e solo perché avrebbe, a suo dire, in vita e in morte raccolto solo consensi, che non sono il quid del cristiano che o è perseguitato o non è. (Naturalmente omettendo, e questo almeno il socci-pensiero non può dimenticare, proprio l’opposizione feroce del suo movimento - che si espresse allora pubblicamente con una signorina comunion-liberazion-leghista che sarebbe diventata presidente della camera dei deputati, prima di trasformarsi in personaggio del trash televisivo, a look metallaro; oltre che in un penoso boicottaggio dei propri aderenti alle convocazioni in duomo presiedute dal cardinale). Malafede o cecità? disturbi psicologici? o calcoli di sopravvivenza narcisista? o meschini conti di chi tiene famiglia? (Domande lecite, e proprio nell’ambito della carità: personaggi così non vanno forse aiutati a guardarsi in uno specchio che non gli rimandi una falsa immagine di sé, che gli fa dunque produrre insensatezze?). E infatti da subito intenta una campagna contro papa Francesco fatta della stessa pasta, proclamandolo non papa. Perché? Perché, lui giornalista, nel conclave c’era: probabilmente nelle pieghe purpuree di quei quattro o cinque cardinali che gli stanno facendo da suggeritori e da stampella. E dunque (sentite, sentite) per una scheda non decifrata il Conclave sarebbe invalido e invalido il papa che ne è uscito. Ma è un antipapa soprattutto perché (e sono solo le ultime polveri): 1. “Con l' Esortazione apostolica Amoris laetitia Bergoglio ribalta il magistero della Chiesa, ponendosi al di sopra delle parole di Cristo e dei comandamenti di Dio”. 2. “Alla fine la Chiesa sarà spinta a sciogliersi in una sorta di Onu delle religioni con un tocco di Greenpeace e uno di Cgil”. 3. “Bergoglio istituisce i peccati sociali (o socialisti). Quindi, par di capire, dovrebbe guardarsi dal ricevere l'eucaristia chi non condivide le sue idee sull'immigrazione”. Dalla seconda e terza proposizione, si capisce l'ottusa sponda del socci-pensiero. Anche se lo scrivere su quel giornale che ha di mira il sostentamento di chi sta bene e il rifiuto di chi può disturbare con una presenza impropria, non avrebbe bisogno di molte sottolineature - ma può un cristiano non stare dalla parte dei poveri? è questo che dicono le parole di Cristo e i comandamenti di Dio? (domande ovvie, da vergognarsi nel doverle ricordare). Ma la prima proposizione è di una deficienza assoluta: la buona notizia del vangelo ingessata e ridotta a un corano-cristiano. Non più l’amorevolezza di un Dio che abbraccia l'uomo che si fa, che si scopre sempre nuovo, ma l’inflessibilità di una parola che produrrebbe fat?w? inconciliabili con lo Spirito Santo di Dio operante in ogni tempo (in ogni tempo!, caro socci-pensiero, o non è più Pentecoste?). Quel che dovrebbe preoccupare i vescovi è non badare al perché queste letture fatte idee circolino tra preti e diaconi (e tra qualche loro fratello vescovo); e ricadano così sul popolo di Dio, che è santo sì, ma anche tanto fragile. E di quella fragilità che ama tanto un duce politico quanto un papa sovrano, fatto ritornare alla tiara dei poteri totali, quelli che violano la responsabile coscienza di ciascuno. È triste non vedere i segni dei tempi, quelli a cui chiamava papa Giovanni nell’indizione di un Concilio: che mantenesse la Tradizione ma rivedendo quelle tradizioni incrostate, che non sanno più parlare all’uomo che oggi è. Il socci-pensiero parla: fossi lombrosiano, direi che il suo viso dovrebbe da solo pre-allarmare, con quegli occhietti troppo stretti e dunque incapaci di uno sguardo ampio, lo sguardo della misericordia appunto. Ma per grazia di Dio, attorno ci stanno molti occhi grandi: accorgiamoci di quelli, e abbandoniamo le opere del diavolo (ci è stato o no insegnato, caro socci-pensiero, che il meglio lavorio del demonio, in cui tu pur fortemente credi, è quello di nascondersi dentro le frattaglie delle teorie negando l’incarnazione del Verbo?).     


Nuvole

Nuvole, neppure gravide di pioggia – che già sarebbe liberatorio - appesantiscono questo tempo di Pasqua, il clima di una stagione che da noi coincide con la primavera: margheritine che spuntano nei prati, danzando con il giallo dei fiori di cicoria; e cieli azzurri solcati da quei nembi bianchi che fanno la gioia di chi guarda la profondità del cielo dal basso della terra. Invece ci tocca una stagione, civile ed ecclesiale, che ha il grigio di questo cielo pallido. Se tento di percorrerne i motivi, da un po’ di scritti in qua, non è che sia preso da smanie luterane, nella vigilia dei cinquecento anni dalla Riforma. E dunque non penso a chiese parallele a quella romana (cosa su cui amici lettori mi stanno interrogando), quando impallino certe vetustà che la annebbiano, quando per certo non la infangano. Così come chiaramente non mi allineo a “quelli che tutti gli altri paesi” sono sempre meglio del nostro, quando – e quanto impropriamente lo si può vedere anche senza il collirio dell'intransigenza – quando si vuol solo tirare la giacchetta alla storia e alla vita, e tirarla sulle proprie voglie in barba alla obiettività. Perché, come sempre, il vero grande conflitto è tra verità e menzogna, da Pilato in giù. Tra la verità che stirerebbe  le pieghe dentro cui ci si nasconde, e la menzogna che invece provoca disagi e sofferenze, se non disastri sia dentro la Chiesa sia nella società civile. I care, mi sta a cuore, e profondamente, che si esca da questa palude, che riflette il plumbeo di un cielo terreno. “Ecco l'unica cosa decente che ci resta da fare: stare in alto (cioè in grazia di Dio), mirare in alto (per noi e per gli altri) e sfottere crudelmente non chi è in basso, ma chi mira in basso. Rinfacciargli ogni giorno la sua vuotezza, la sua miseria, la sua inutilità, la sua incoerenza”. La mediocrità: ho sentito molto familiare alle mie idee don Milani, fin da subito, quando di nascosto ho avuto quel suo Esperienze pastorali, libro non all’Indice ma ritirato dal commercio per sospetto di lesa maestà dei canoni ecclesiastici del tempo; e avuto da un amico libraio che, sottobanco, soddisfaceva le mie curiosità di seminarista già in poco odore di santità. Della santità da canonizzazione: fedeli nei secoli come i carabinieri?! Ma di quale fedeltà si parla? Di quale fedeltà si deve parlare? Quella di chi è ministro per il bene comune, e poi, pur di tenersi stretto l’amato, quasi marito, combina pasticci?; o del cardinale che si difende, al modo d’asilo d’infanzia, e dunque “non solo io” ma altri trenta hanno appartamenti sovradimensionati? E poter dire che il Giubileo non sta funzionando proprio là dove, per una esemplarità, ci si aspetterebbe incidesse di più: dirlo è così irrispettoso? o è invece doveroso? È tempo di deporre le vesti che coprono il vuoto, vesti dell'inganno: lo dice Isaia a chiunque oggi afferma errori intorno al Signore rintanandosi nelle paure di chi non sa osare la liberazione evangelica; ma lo dice, se lo si vuol ascoltare, anche ai tanti politici che macchinano scelleratezze con parole menzognere, se non si vuole che i palazzi del potere, ecclesiastico e civile, siano abbandonati da Lui che solo ne è il fondamento. La scelta di strade le quali non siano tortuose ma vadano subito al cuore del problema; non girando attorno alla fede, ma mettendola al centro: così si salva l’uomo, così si educa un adolescente. Anni cinquanta, non c’era il Grest, ma il suo antenato - il biliardino - e c’era in tutte le parrocchie. Risultato? l’antivangelo che viviamo nelle nostre stesse comunità, in chi parteggia per chi tira su i muri. Non perdete tempo con quelle cose, voi dedicatevi a quanto vi è stato consegnato: mettetevi a capo, e al fianco, della via; e dentro, a vita che conduce. Lo diceva ormai settant’anni fa il prete di Barbiana. Stare qui a ripeterlo oggi ci tocca, anche se amareggia per tutto il tempo perduto. E che ancora si sta perdendo.


Liquidità

 E non solo a Natale si parli del bene che è “stare” in famiglia. Anche nei giorni di Pasqua. Direi soprattutto a Pasqua, quando invece l’invito è quello dell’andare con chi si vuole: magari il Venerdì Santo il giorno del dolore che non è solo cristiano? e soprattutto oggi in cui il Calvario è Idomene, e il cimitero è il Mediterraneo. Indiscutibile, chi non crede lo può. Ma se si vive gomito a gomito? Uscendo di casa? Gli uni verso la croce, gli altri verso le discoteche, periferie delle dissonanze? Uno “stare” in famiglia che non è tanto lo stare fisico, ma lo stare affettivo. Una compagnia che conduce. Quella a cui si chiede ai preti di non avere: pur dandogli come statuto di vivere nel mondo, e non in un convento e tanto meno in un monastero. È vero: si dice che per un prete la sua famiglia è la parrocchia in cui vive la sua obbedienza. È vero; ma di una famiglia liquida, si parla: inafferrabile come l’acqua, che ti bagna ma non si ferma su di te. A meno che non ci si tuffi, cosa che non è di tutti i preti, preferendo alcuni star fuori dal gran secchio, magari a rimirare se stessi. Chi si tuffa è avvolto: sente su di sé il fluttuare carezzevole o turbolento, modifica egli stesso l’onda con i suoi movimenti, se ne sente parte. Ma quell’acqua resta estranea, appunto è liquida, non è carne e sangue. Con l’aggravante che ti è data ad tempus. La mia vana battaglia in Sinodo diocesano perché non si scrivesse la regola dei nove anni di mandato per un parroco, mi si rivela col passare del tempo sempre più giusta. E perché è inumano comunque rinserrare in norme di tempo una familiarità, e perché è antiecclesiale non lasciare al nutum episcopi lo sguardo di servizio da richiedere. E poi: ogni uscita da quell’acqua è pur sempre dolorosa, persino quando (per usare un’espressione senz’altro dura, abolita nel nuovo codice di diritto canonico e non perché non possa esserci, ma per una presunzione ipocrita che non possa avvenire!) persino quando si è chiamati fuori per odium plebis, perché, ad esempio, il popolo di Dio non ne può più di una guida da padre-padrone, o per una cattiva amministrazione (ché, per “lapidarsi” in un monumento che duri nei secoli, un prete incarta una comunità in debiti che impediscono persino di cambiare un coppo per trent’anni). Ed è lacerante, seppure in maniera diversa per la diversa "immersione" attuata: ogni volta è chiesto ad un prete di andare verso una terra che non conosce, come Abramo (e forse non come Abramo, ma, canta Bob Dylan, “viene giù la tristezza come una grandine, lasciando una traccia viscida”); e magari senza accompagnarlo con un autorevole avvertimento di conoscere quella terra prima di mettersi a piantumare secondo sé. Proprio perché la liquidità di quella famiglia non lo affoghi, sottraendo a sé il bene di un incontro che “riscontri”. Ma, come si usa dire, il problema sta alla fonte. Preti che si ritrovano in una promessa di celibato che con l’andare degli anni non trovano vera per sé - pur sentendosi capaci di poter dire agli uomini un servizio di Cristo nel ministero ordinato - non pone oggi la determinazione ad affrontarlo il tema di una ristrutturazione delle modalità pastorali, non più legate a forme dissonanti da un’antropologia finalmente riconosciuta in significati nuovi? e una antropologia anche del "popolo di Dio", che tocca pure l’humus profondo dell’uomo che il prete è? Una compagnia propria, fatta di carne e sangue, non renderebbe anche quella familiarità liquida di una parrocchia qualcosa di meno fatigante? Senza nulla togliere alla esemplarità di una comunità costruita più determinatamente attorno al Cristo, ma anzi togliendo una sacralità dei mediatori, che essa sì distoglie dal Cristo venuto a liberare l’umanità da schiavitù sempre ricorrenti. Se si vuole, come si vuole, che nella Chiesa si cambi, occorre partire dalla fonte; lì stanno problemi irrisolti, che minano alla radice la leggerezza del Vangelo. Accanto agli altri, questo del ministero ordinato, che finalmente si liberi da quelle improprie idee di puro-impuro che minano l’appropriatezza della prima beatitudine. 


A Pasqua

Per fortuna a Pasqua siamo tenuti a non fingerci buoni come a Natale. Ma per sfortuna a Pasqua non ci siamo tenuti a quella rivoluzione che essa ha comportato. Che l’essere  buoni è costitutivo dell’essere discepoli per tutta la vita. E in un tempo nel quale si scambia la bontà per il buonismo, la tentazione è quella di sentirsi a posto, non essendo buoni: cioè capaci di altruismo, capaci di aderenza a quell’umano che ci fa immagine di Dio. C’è un termine che ho imparato da poco. Ed è un sostantivo tedesco che suona così: Schadenfreude, che si può tradurre come "piacere provocato dalla sfortuna" (altrui). Un sentimento molto diffuso tra i tifosi del calcio; godere quando perde la squadra avversaria: se perde la corsa alla coppa, se perde lo scudetto. Anche se la propria maglia non è in competizione. Soprattutto se la squadra avversaria è una che vince troppo. Insomma l’invidia arrocca sulla propria mediocrità. Ma non solo tra tifosi: anche tra i politici il sentimento della rivalità rende ciechi. E tra i credenti pure: non ha mai avuto sorte favorevole, dall’Antico testamento al Nuovo – da Giobbe a Gesù - chi ha una vita di profezia: e cioè di annuncio di un diverso modo di porsi di fronte al mondo. Calunniati, emarginati, e qualche volta, sì, fatti risorgere ma da morti. “I pensieri sono i peggiori nemici della panza”, direbbe a proposito il Montalbano di Camilleri. Pensare in maniera diversa le relazioni, e il prossimo; pensare in maniera buona il bello che la resurrezione di Cristo ha proposto, certo a partire dalla sua incarnazione, non rientra negli schemi ottusi di tanti cristiani. Comunione? Certo. Ma liberandoci da quali incrostazioni che rendono oggi insignificante il Vangelo? Insignificante per il vissuto di chi va in chiesa, e dunque insignificante per chi non ci va. L’orgoglio di essere cristiani qualcuno lo declina in un arroccamento su forme tradizionali, che nulla hanno a che vedere con la Tradizione degli apostoli e dei padri della Chiesa. E’ stato detto da persone più grandi di me, che “nei grandi passaggi della storia” - e questo che viviamo lo è – “gli uomini e le donne del Vangelo hanno aperto una strada nuova per i credenti. E, indirettamente, hanno contribuito alla nascita di un nuovo mondo. Sono stati, cioè, epoch-making, partecipando alla chiusura di un’epoca e all’apertura di un’altra”. Ci si è messo Benedetto e i suoi monaci, a delineare il bene della compagnia umana che sa amare la terra per offrirla a tutti; e Gregorio VII al passaggio del primo millennio, mettendosi alla testa delle forze che stavano modellando una nuova Europa cristiana, al servizio della fede e della giustizia; e Francesco d’Assisi, a ricordare la povertà di cui siamo intrisi in corpo e mente, per non inseguire la stoltezza di una chiesa che insegue la ricchezza del mondo, in oro e in potere. Anche oggi, questo mondo caotico per tecnologie che penetrano nazioni e continenti, rende visibile l’ingiustizia della terra; ingiustizia di fame e di guerra che richiama popoli in migrazioni tragiche: anche oggi questo mondo chiede che si esca dalla pancia delle paure per entrare nel pensiero dell’accoglienza. La storia sta andando decisamente in un’altra direzione: ce ne vogliamo accorgere? per essere fedeli al vangelo della misericordia? Vogliamo sconfiggere, certo con le armi della tenera fortezza, quelli che ci vogliono male, solo perché il vangelo che ci è stato consegnato dice un di più che disturba? Il boccone che Gesù diede a Giuda nella cena ultima lo dà anche in questa Pasqua ai cristiani che la celebrano: un boccone di grazia? o di nuova disgrazia?


Tre anni fa

due interventi che facciamo nostri, per non essere né papisti, né, tantopiù, antonsocciani_ «Fratelli e sorelle, buonasera!». Così si presentò al mondo Jorge Mario Bergoglio in quella sera di tre anni fa, il 13 marzo 2013, quando si affacciò vestito di bianco dalla loggia di San Pietro, dopo essere stato eletto papa dal Conclave successivo alla rinuncia di Benedetto XVI. In questo triennio il primo papa col nome Francesco, il primo gesuita e il primo latinoamericano, ha compiuto e realizzato 12 viaggi all’estero per un totale di 20 Paesi visitati, 11 visite in Italia, 168 Angelus e 124 udienze generali, 2 encicliche, 15 costituzioni, un’esortazione apostolica - «Evangelii gaudium» - che rappresenta la linea-guida del pontificato, un’altra in arrivo fra pochi giorni dedicata alla famiglia; e poi, 153 messaggi, 130 lettere, 180 omelie pubbliche, 628 discorsi, 382 meditazioni durante le messe a Santa Marta, una delle novità simbolo del papato di Bergoglio. Inoltre, un libro intervista, con Andrea Tornielli, coordinatore di Vatican Insider oltre che vaticanista del quotidiano La Stampa. I principali “cantieri aperti” sono tre: la riforma del sistema economico-finanziario vaticano, quella della Curia, e la riorganizzazione del sistema mediatico d’Oltretevere. Con una certezza: il sostegno della gente, dei fedeli e dei non credenti, che sentono questo Papa dal linguaggio semplice e profondo e dai gesti significativi, che chiede ponti e non muri, un papa vicino, soprattutto a chi soffre (di Domenico Agasso jr e Pablo Lombó).
Commenti, articoli commemorativi, tentativi di bilancio: il terzo anniversario dell’elezione di Papa Francesco è stato oggetto di riflessioni varie. Con una caratteristica: il consolidarsi di due categorie. Su fronti contrapposti ma con lo stesso giudizio di delusione. Da una parte, i critici dal fronte tradizional-conservatore. I quali riducono un po’ ossessivamente il magistero del Papa ad alcune mezze frasi contenute in qualche intervista vera o presunta. Questi commentatori censurano quanto Francesco dice e insegna quotidianamente, e ripetono invece in continuazione quelle due o tre mezze frasi «da intervista» cercando di affermare che il Papa cambia la «dottrina». Dall’altra parte ci sono i critici dal fronte progressista-riformista. I quali si aspettavano dal Papa argentino le riforme e i cambiamenti dottrinali ormai da lungo tempo ribaditi nella loro agenda. E ora si dicono delusi perché questi cambiamenti non sono avvenuti. Per i critici del primo tipo, Francesco è un rivoluzionario che rompe con la tradizione dei predecessori. Per i critici del secondo tipo, è un conservatore che si è presentato sotto le mentite spoglie del progressista. A queste due categorie sono da aggiungere coloro che riducono il pontificato di Francesco e il suo magistero a slogan. Come se per vivere la «conversione pastorale» e la «riforma dei cuori» proposta dal Papa bastasse soltanto cambiare alcune parole d’ordine. I critici da fronti opposti, come pure gli ermeneuti dello slogan, finiscono così per non fare veramente i conti con la testimonianza talvolta spiazzante di Francesco. Un Papa che attira quanti non si sentono a posto, gli irregolari, coloro che sono in ricerca, quelli che non sanno già tutto o che non hanno già chiuso tutto nei propri schemi e pregiudizi (di Andrea Tornielli).


.2 Anamnesi

Sparito. E poiché quando pubblico quello è, senza archivi ulteriori, mi sono trovato appunto tutto sparito. E irrecuperabile, secondo gli esperti. Di ogni cosa creata si diventa gelosi, che sia o no un figlio ben riuscito (ma le cronache di oggi dicono che un figlio è comunque ben riuscito - anche se occorre spostarsi in California, avere un conto che ti permetta centinaia di migliaia di dollari, trovare una donna che sia disposta a generare da non si sa bene quale seme per poi darlo a te un figlio che tanto desideri da passar sopra a idee di cui pure sei alfiere: il corpo della donna, l’uguaglianza economica, il dono dei figli che non è mai un diritto per una coppia, né etero né omo: alla faccia dei padri ispiratori del sole dell'avvenire). Ma torniamo a noi: anche se, per il raccontarci i sintomi delle malattie di cui soffriamo, quella parentesi ci sta bene. Dunque: si sa che quando un figlio è fatto, è fatta: i capelli rossi non glieli cambi più, e i denti alla castoro forse, ma molto forse, qualche odontoiatra di un po’ glieli stenderà. Ma, a differenza di un figlio, lo scritto che ti è uscito di botto, bello o imperfetto, generato dall’impellenza del momento che crea immagini, quello non lo puoi ridire più: irripetibile. Ti resta la sensazione che era giusto, per forma e per sostanza; te ne resta il sentore, ma, appunto, come effluvio che svanisce mentre lo vorresti afferrare. (Il mio professore di liceo, consegnandomi i temi, puntigliosamente mi dava in custodia ogni volta che non dovevo accontentarmi, perché il meglio è oltre sempre: buona massima che vi aiuta a prendere con un grano di ironia le righe precedenti – e anche quelle seguenti!?). Quindi, avevo scritto molte cose, e ne ricordo solo alcune che giravano attorno a questo filo: ci sono predicatori dell’apparenza, nella società civile e nella chiesa; e finché quei virus rimangono, la malattia non guarisce. Di una ovvietà lapalissiana. Eppure non è così ovvio per tutti: tanto da farmi sospettare che l’hacker distruttore avesse un mandante. Chi? Nella chiesa o altrove? Capisco che questa vi può risultare una presunzione senza merito. Ma poiché i rilievi del nostro sito dicono che abbiamo clientes che toccano Roma, e oltre, e sapendo che  a Roma ci sono i Palazzi... vanità delle vanità? Ma va’! occorre giocare un po’ quando si ha un ginocchio sbucciato: bambini restiamo sempre, tutti, e di più in certi momenti. Ma che cosa ci poteva essere di così eccitante? potrebbe chiedersi la vostra pur diffidente curiosità (diffidente se non state leggendo vedendoci quel po' di autoironia del pezzo). Una cosa la ricordo: chiedevo che fosse riparato presto quello sbaglio di generosità di papa Giovanni, che ha statuito che fossero fatti vescovi impiegati, per quanto di rango, degli uffici vaticani; chiedevo che si ponesse fine allo scandalo di un episcopato inteso come decorazione, e non come consacrazione per una chiesa. Senza la quale non c’è neppure un vescovo. E, ad modum exempli, dicevo che non avvenisse più che i papi nominassero vescovi i loro segretari ancora in funzione di camerieri. Successori degli Apostoli, dice la dottrina. Non manichini per vestiti demodés, a colorare (di potere?) le celebrazioni papali. Anche in prospettiva ecumenica: la chiesa che si dà al mondo come una grande organizzazione, rovesciando la piramide fondata sul servizio di Pietro, non è una chiesa che può prepararsi all’unità. C’è un’immagine cattolica che non dà scandalo solo nelle perversioni pedofile di alcuni suoi membri: lo dà soprattutto e innanzitutto offuscando la sobrietà del Crocifisso, che si diede nudo alla salvezza di ogni uomo. Non è ovvio. Come non è ovvio, e qui ricordo più brevemente: che in politica stiano riciclandosi personaggi che dovrebbero accontentarsi  delle laute prebende con cui sono stati allontanati: o dal voto o dai tribunali; e sul dire di nani e ballerine che è il nostro cattolicesimo italiano, la nostra vicinanza al vaticano, a tenerci retrogradi rispetto ad altri paesi. Paesi considerati civili solo se propongono quanto piace a sé, e non in quello per cui ci condannerebbero nelle nostre pretese senza razionale fondamento. Le loro ipocrisie - e cito per tutti ... anzi non cito per lasciare aperto a voi il  penoso gioco - e le loro incongruenze, di politici, di giornalisti e di preti che si piccano da assistenti mediatici, gridano vendetta all’intelligenza di Dio. Ma anche gridano a noi che non soccorriamo la loro ignoranza, accontentandoci di guardare e passar oltre. Non è più tempo di passar oltre: i muri, che tanti politici nostrani inneggiano, dicono non solo ignoranza ma la pervicacia del male assoluto: quello dell’io e loro. Quello di un populismo che scardina, e che si ripropone, seppur ipocritamente nascosto, come ritorno del razzismo. Potrebbe dunque esserci già la diagnosi: ignoranza del Cristo e dell’uomo.


.1 Anamnesi

Levar di furore soprattutto da sinistra (da destra no: perché?), al dire di un vescovo, e neppure in cattedra e fuor di microfoni ufficiali, di una preferenza al voto di coscienza sulla difficile proposta all’esame del Senato. Voto di coscienza che non può essere a comando di partito: e dunque si ”auspica” sia segreto. Ovvio, no? Ma: può, deve, o no?, un vescovo dire la sua? -È cittadino italiano. -Ma è, lui, in una posizione che lo qualifica come portavoce della Chiesa in Italia. Lo stracciarsi le vesti è l’atto di ipocrisia che più impudico non si può. Un gran levare di polverone, un andar via comunque per la propria strada, nascondendosi dietro l’intangibilità del Parlamento. Che intangibile è, ci mancherebbe, ma come istituzione: come persone? [ Il Senato romano ha pugnalato Cesare per mano del suo figlioccio; e a leggere certi volgari fricchettii di attuali senatori (qualcuno più di altri, con l’aggravante sospetta di essere romano di Roma: discendente dai lombi del Tu quoque?) a leggerli, c’è da scommettere che non ci si è ancora lavata la toga ]. Un episodio che rivela un malessere mai risolto: state notando l’uso di cattolico nei media? sulla bocca di opinionisti mestieranti, presi dalla cronaca grigio-rosa, o da una certa suburra di attorucoli senza più chiamate, o da giornalisti in cerca di rilancio? Cattolico per dire retrogrado: non un pensare altrui che interroga, ma un sasso da gettare in stagno. Una rinuncia a usare l’intelligenza, che si ritorce. Non un chiedere lumi, ma una pervicace idea di progresso: che non è andar comunque avanti, se davanti ci può essere un burrone. E, in campo avverso ma parificabile (ricordate gli opposti si attraggono degli anni settanta in pieno terrorismo?), quelli che vanno su un palco da cattolici (cattolici a proprio dire): a proclamare che non siamo stati creati per il piacere ma solo per la riproduzione (oh la bellezza creatrice di Dio come poteva non fremere nel cielo di Roma?!; e si avvertissero finalmente quelli che ancora non hanno voluto capire la pericolosità cristiana di certi movimenti catecumenali pur benedetti da papi, non sempre pure essi ben illuminati, seppur canonizzati); e, aggiungendo in peggioramento, a spiegare che una legge così non deve passare, sennò le casse statali dell’assegno di reversibilità ci manderebbe al fallimento: alla faccia dei principi cattolici su cui ci si è radunati (e lì atei devoti mischiati a tradizionalisti, transfughi di partito ma sempre più verso i fascio-cattolici).         È tempo ormai di esigere una guarigione: magari non definitiva, ma accettabile per una qualità della vita, sociale ed ecclesiastica. Ma occorre accettarne le tappe: anamnesi, diagnosi, prognosi, terapia. A partire dalla prima, l’anamnesi appunto: il raccontarci quel che è, i sintomi del malessere che è innegabile. Scandali e piccinerie, ipocrisie e arrivismi, presunzioni e  arroganze. Un mondo raccontato non secondo interessi di parte, come avviene. Ma com’è; avendo l'unica paura che rimandando la verità della descrizione il male peggiori: perché inevitabilmente peggiora. Quanto la Politica – i politici – deve smettere di rincorrere comunque la protesta per rincorrere la verità, anche se impopolare; tanto la Chiesa deve guardare finalmente nelle pieghe di comandamenti che non hanno avuto mai la definizione di dogmi: per assumerli e correggerli, per farli diventare cristiani, e dunque umani, secondo l’Incarnazione del Figlio. Siamo nel tempo giusto, con un papa che sta facendo rientrare l’essere cattolici nell’essere cristiani. Non più in opposizione a ortodossi e protestanti a stracciare la veste di Cristo: quella veste senza cuciture, tutta d’un pezzo, e tuttavia tessuta con fili diversi, intrecciati al punto di non poterli sconnettere. Cristiani che imparano da altri cristiani, che rispettano altri cristiani che in fatto di umanità hanno visioni diverse. E allora non ci sarà più né schiavo né libero, né uomo né donna, né... Un’unica Chiesa nell’unione delle diversità: esemplare per il riconoscimento sapiente dei veri diritti di tutti nella società umana. Descriviamoci, raccontiamoci, è il primo passo nella misericordia della verità che guarisce.


Civile?

Quando si sente qualcosa che non va, e ti si dice fatti vedere da un medico, per quasi tutti è panico: e se poi mi trova qualcosa? Come se l’andare dal medico faccia nascere la malattia invece che semplicemente riconoscerla. E dunque dare l’avvio a un rimedio. Che, il rimedio, si avvale di quattro parole greche: anamnesi, diagnosi, prognosi, terapia. Sono talmente entrate nel quotidiano, che possiamo sentirci quasi padroni di quella lingua, manco l’avessimo studiata. Ma sono parole che dicono una responsabilità: intanto il farsi raccontare i sintomi, quel che avviene oggi rispetto ad ieri, perché la raccolta dei dati delimiti il campo. Poi si fa diagnosi, si dà un nome a quel che si ha: grave o no, sapendo quel che ci capita, se si ha ancora un fil di senno, non ci si fida più del suggerimento  dell’amica sul quale si è ritardato il presentarsi dal medico: sai, usa questo, a me ha fatto bene! E sulle domande cruciali: ma ne esco? quando? la previsione è più facile in certi mali, molto meno per altri; senza contare che  la disarticolazione di un calciatore e quella di suo nonno non hanno lo stesso percorso dello sperato eventuale recupero (e non solo perché il calciatore ha a sua disposizione fior di esperti rispetto ai nonni di medio censo e di altra età...): ed è la prognosi. Avendo il quadro, avendo il nome, avendo una letteratura - quella studiata e quella sperimentata - il medico fissa una terapia: tot tagli, tot pillole, tot convalescenza (e/o tot rassegnazione). In campo sanitario così si fa nei paesi detti per antonomasia civili, e cioè quelli del primo mondo (molto meno, ma per le ovvie ragioni che in salute si dipende dai soldi, nei paesi ugualmente civili ma in sottosviluppo). Ed è a proposito di quell’aggettivo – civile – così mal usato e così abusato quando pare e piace, che io credo che una buona applicazione della prassi medica dovrebbe essere di rigore nei campi del vissuto politico ed ecclesiale. Quando mai ci si racconta la verità dei sintomi? E quando si dà un nome a quel che accade, o quando ci si mette lì a darsi dei tempi giusti, oltre che interventi utili? Si fanno un mucchio di convegni, si prendono teologi di qua opposti a quelli di là, si fabbricano santini su figure che han detto, han fatto: ma da cui soccorre buon senno staccarsi, per il solo fatto che non vivono più adesso (mi chiedo quanto rimanga utile proporre la figura del santo d'Ars - che confessava molto, che mangiava patate, che passava la notte - per digiuno? - a lottare con Satana - a presbiteri che vivono in altro mondo, con altri uomini, con vissuti altri). Parole, parole, parole. Nella Chiesa, soprattutto i preti sono sommersi dalle parole, tanto che poi ne perdono il segno: e quello biblico e quello esperienziale. Ma dico della società in cui siamo: ci si avvolge attorno a quell’aggettivo per infagottarsi dentro scelte ideologiche invece che antropologiche. Loro civili, e gli altri oscurantisti? Loro civili come gli svedesi, dicono, quando gli svedesi stessi non credono più alla fallimentare forma di civiltà nella quale sono stati e sono allevati. Si leggessero, certi politicanti e giornalisti al seguito, qualcosa della letteratura nordica, oltre alle veline dei loro consimili. Si disimparasse finalmente, e dunque, a usare il termine civile: lo si sta facendo diventare fatuo. Si usi il termine umano. E finalmente dagli uni e dagli altri si resterebbe aperti a quel mistero dell’uomo che in nessun tempo mai sarà dato di definire una volta per sempre. “Servito­re di tutti” dice Gesù, senza limiti di gruppo, di famiglia, di etnìa; senza il limite del chi sei tu o chi non sei. Senza la rigidità che impedisce il riconoscere l’altro in quanto altro. Civili? O semplicemente e il più possibile profondamente rispettosi? Così si serve, si ama, il prossimo. Post Scriptum: Fermo restando che il Curato d'ars è santo: ma la sua figura, tolta dal tempo, è diventata, e lo si riconosca, una figurina da segnabreviario: se ne avvertano quanti amano la fabbrica dei santini. Ecclesiastici soprattutto, ma non solo.


Nuovo?

Venti giorni per vedere se l’anno nuovo portava quel nuovo che tutti si sono augurati (tutti? quelli della nottata san Silvestro tra stelle filanti e ubriacature da spumante). Perché è vero che il tempo è tutto attaccato, ma uno spera che a volte si spacchi un po’, tanto da lasciar spazio a crepre da cui fiorisca il meglio desiderato. E sono qui a raccogliere alcune notizie. Varie tra loro, ma che compongono il puzzle di sempre. A mio parere. E dunque: il boom di Zalone e Volo. Supportati da una gratuita diffusa pubblicità, soprattutto da quei guru da weekend che ormai presiedono le menti italiane (le menti, e non solo le pance), hanno sfondato record di incassi ai botteghini dei cinema o alle casse delle librerie. In questo tunnel di tristezze civiche in cui abitiamo da anni, una voglia di leggerezza, voglia di ridere, si è scritto da scrivani pensatori. [Se non fosse, nel caso del film di Zalone, che si è anche un po’ manipolato - come i sondaggi elettorali che dicono tanti per accalappiarne di più (della serie, saltare sul carro dei vincenti). Eh sì: perché se il record si è basato sui soldi incassati, perché non si è scritto che un biglietto del film, nella catena di sale che ne avevano  monopolio (come mi assicura un amico che se lo è sentito spiegare dalla cassiera alla richiesta di euro undici) è stato maggiorato proprio per quel film del 30 per cento?]. Furbizie italiane? Quelle che ci descrivono come il popolo più fantasioso, costruito su poeti navigatori, e santi per l’inferno? E pure, su un altro fronte: la Sindaco di Quarto, che si dimette piangendo, dopo avere invano chiesto al partito dei duri e puri di aiutarla contro la camorra? E quel Pietro Maso, di cui si sperava come per altri una redenzione dall’omicidio dei genitori, che viene di nuovo imputato di estorsione a carico delle sorelle, per denaro, sempre il maledetto denaro – e dopo una recente intervista in cui si diceva assolto da una telefonata di papa Francesco? E papa Francesco, che nella versione crozzesca portava quel frigo da solo, con prelati e gente della moda e papa-boys a inneggiare, ma guardandosi bene dal condividerne il fardello; papa Francesco che sempre più è di tutti, perché piace per come dice e non per cosa dice, sennò finalmente la misericordia prenderebbe strade vere ma scomode? E quei fanatici che si dicono dell'Islam: radono al suolo il più antico monastero cristiano in Iraq, credendo una volta di più che distruggendo la bellezza si inaridisca la fede in un Dio così altro da loro, e si possa spegnere negli uomini quella speranza che ha alimentato la loro sete di bellezza? E la battaglia per la nuova legge sui diritti civili, che vede contrapposti valori cattolici a quelli laici, come se non vi fossero semplicemente valori umani su cui intendersi; e innescando così una guerra pari a quelle già vissute su aborto e divorzio? E, forse più banalmente ma non meno realisticamente in un mondo che di soldi vive, borse che van giù, al seguito del petrolio che precipita, mentre la benzina resta ai piani alti? E tanto altro, ugualmente dissonante, in questi venti giorni di inizio di un nuovo anno. Notizie vecchie, e non della vecchiezza che fa buono un vino. “Non si mette vino nuovo in otri vecchi ma vino nuovo in otri nuovi”(Mt 9,17). Già detto: finché non si rinnova l’uomo, le cose umane confermeranno il tempo degli uomini: tutto attaccato, finché il cuore non cambia. Ma, nell’alba secca di questo mattino di gennaio, risuona una volta di più l’unica certezza consegnata: Io faccio nuove tutte le cose. Una promessa d’Apocalisse, una promessa da ultime cose, ma che già possono esplodere oggi. Se Glielo permettiamo.