Per fortuna a Pasqua siamo tenuti a non fingerci buoni come a Natale. Ma per sfortuna a Pasqua non ci siamo tenuti a quella rivoluzione che essa ha comportato. Che l’essere buoni è costitutivo dell’essere discepoli per tutta la vita. E in un tempo nel quale si scambia la bontà per il buonismo, la tentazione è quella di sentirsi a posto, non essendo buoni: cioè capaci di altruismo, capaci di aderenza a quell’umano che ci fa immagine di Dio. C’è un termine che ho imparato da poco. Ed è un sostantivo tedesco che suona così: Schadenfreude, che si può tradurre come “piacere provocato dalla sfortuna” (altrui). Un sentimento molto diffuso tra i tifosi del calcio; godere quando perde la squadra avversaria: se perde la corsa alla coppa, se perde lo scudetto. Anche se la propria maglia non è in competizione. Soprattutto se la squadra avversaria è una che vince troppo. Insomma l’invidia arrocca sulla propria mediocrità. Ma non solo tra tifosi: anche tra i politici il sentimento della rivalità rende ciechi. E tra i credenti pure: non ha mai avuto sorte favorevole, dall’Antico testamento al Nuovo – da Giobbe a Gesù – chi ha una vita di profezia: e cioè di annuncio di un diverso modo di porsi di fronte al mondo. Calunniati, emarginati, e qualche volta, sì, fatti risorgere ma da morti. “I pensieri sono i peggiori nemici della panza”, direbbe a proposito il Montalbano di Camilleri. Pensare in maniera diversa le relazioni, e il prossimo; pensare in maniera buona il bello che la resurrezione di Cristo ha proposto, certo a partire dalla sua incarnazione, non rientra negli schemi ottusi di tanti cristiani. Comunione? Certo. Ma liberandoci da quali incrostazioni che rendono oggi insignificante il Vangelo? Insignificante per il vissuto di chi va in chiesa, e dunque insignificante per chi non ci va. L’orgoglio di essere cristiani qualcuno lo declina in un arroccamento su forme tradizionali, che nulla hanno a che vedere con la Tradizione degli apostoli e dei padri della Chiesa. E’ stato detto da persone più grandi di me, che “nei grandi passaggi della storia” – e questo che viviamo lo è – “gli uomini e le donne del Vangelo hanno aperto una strada nuova per i credenti. E, indirettamente, hanno contribuito alla nascita di un nuovo mondo. Sono stati, cioè, epoch-making, partecipando alla chiusura di un’epoca e all’apertura di un’altra”. Ci si è messo Benedetto e i suoi monaci, a delineare il bene della compagnia umana che sa amare la terra per offrirla a tutti; e Gregorio VII al passaggio del primo millennio, mettendosi alla testa delle forze che stavano modellando una nuova Europa cristiana, al servizio della fede e della giustizia; e Francesco d’Assisi, a ricordare la povertà di cui siamo intrisi in corpo e mente, per non inseguire la stoltezza di una chiesa che insegue la ricchezza del mondo, in oro e in potere. Anche oggi, questo mondo caotico per tecnologie che penetrano nazioni e continenti, rende visibile l’ingiustizia della terra; ingiustizia di fame e di guerra che richiama popoli in migrazioni tragiche: anche oggi questo mondo chiede che si esca dalla pancia delle paure per entrare nel pensiero dell’accoglienza. La storia sta andando decisamente in un’altra direzione: ce ne vogliamo accorgere? per essere fedeli al vangelo della misericordia? Vogliamo sconfiggere, certo con le armi della tenera fortezza, quelli che ci vogliono male, solo perché il vangelo che ci è stato consegnato dice un di più che disturba? Il boccone che Gesù diede a Giuda nella cena ultima lo dà anche in questa Pasqua ai cristiani che la celebrano: un boccone di grazia? o di nuova disgrazia?