Quando si sente qualcosa che non va, e ti si dice fatti vedere da un medico, per quasi tutti è panico: e se poi mi trova qualcosa? Come se l’andare dal medico faccia nascere la malattia invece che semplicemente riconoscerla. E dunque dare l’avvio a un rimedio. Che, il rimedio, si avvale di quattro parole greche: anamnesi, diagnosi, prognosi, terapia. Sono talmente entrate nel quotidiano, che possiamo sentirci quasi padroni di quella lingua, manco l’avessimo studiata. Ma sono parole che dicono una responsabilità: intanto il farsi raccontare i sintomi, quel che avviene oggi rispetto ad ieri, perché la raccolta dei dati delimiti il campo. Poi si fa diagnosi, si dà un nome a quel che si ha: grave o no, sapendo quel che ci capita, se si ha ancora un fil di senno, non ci si fida più del suggerimento  dell’amica sul quale si è ritardato il presentarsi dal medico: sai, usa questo, a me ha fatto bene! E sulle domande cruciali: ma ne esco? quando? la previsione è più facile in certi mali, molto meno per altri; senza contare che  la disarticolazione di un calciatore e quella di suo nonno non hanno lo stesso percorso dello sperato eventuale recupero (e non solo perché il calciatore ha a sua disposizione fior di esperti rispetto ai nonni di medio censo e di altra età…): ed è la prognosi. Avendo il quadro, avendo il nome, avendo una letteratura – quella studiata e quella sperimentata – il medico fissa una terapia: tot tagli, tot pillole, tot convalescenza (e/o tot rassegnazione). In campo sanitario così si fa nei paesi detti per antonomasia civili, e cioè quelli del primo mondo (molto meno, ma per le ovvie ragioni che in salute si dipende dai soldi, nei paesi ugualmente civili ma in sottosviluppo). Ed è a proposito di quell’aggettivo – civile – così mal usato e così abusato quando pare e piace, che io credo che una buona applicazione della prassi medica dovrebbe essere di rigore nei campi del vissuto politico ed ecclesiale. Quando mai ci si racconta la verità dei sintomi? E quando si dà un nome a quel che accade, o quando ci si mette lì a darsi dei tempi giusti, oltre che interventi utili? Si fanno un mucchio di convegni, si prendono teologi di qua opposti a quelli di là, si fabbricano santini su figure che han detto, han fatto: ma da cui soccorre buon senno staccarsi, per il solo fatto che non vivono più adesso (mi chiedo quanto rimanga utile proporre la figura del santo d’Ars – che confessava molto, che mangiava patate, che passava la notte – per digiuno? – a lottare con Satana – a presbiteri che vivono in altro mondo, con altri uomini, con vissuti altri). Parole, parole, parole. Nella Chiesa, soprattutto i preti sono sommersi dalle parole, tanto che poi ne perdono il segno: e quello biblico e quello esperienziale. Ma dico della società in cui siamo: ci si avvolge attorno a quell’aggettivo per infagottarsi dentro scelte ideologiche invece che antropologiche. Loro civili, e gli altri oscurantisti? Loro civili come gli svedesi, dicono, quando gli svedesi stessi non credono più alla fallimentare forma di civiltà nella quale sono stati e sono allevati. Si leggessero, certi politicanti e giornalisti al seguito, qualcosa della letteratura nordica, oltre alle veline dei loro consimili. Si disimparasse finalmente, e dunque, a usare il termine civile: lo si sta facendo diventare fatuo. Si usi il termine umano. E finalmente dagli uni e dagli altri si resterebbe aperti a quel mistero dell’uomo che in nessun tempo mai sarà dato di definire una volta per sempre. “Servito­re di tutti” dice Gesù, senza limiti di gruppo, di famiglia, di etnìa; senza il limite del chi sei tu o chi non sei. Senza la rigidità che impedisce il riconoscere l’altro in quanto altro. Civili? O semplicemente e il più possibile profondamente rispettosi? Così si serve, si ama, il prossimo. Post Scriptum: Fermo restando che il Curato d’ars è santo: ma la sua figura, tolta dal tempo, è diventata, e lo si riconosca, una figurina da segnabreviario: se ne avvertano quanti amano la fabbrica dei santini. Ecclesiastici soprattutto, ma non solo.