Nuvole, neppure gravide di pioggia – che già sarebbe liberatorio – appesantiscono questo tempo di Pasqua, il clima di una stagione che da noi coincide con la primavera: margheritine che spuntano nei prati, danzando con il giallo dei fiori di cicoria; e cieli azzurri solcati da quei nembi bianchi che fanno la gioia di chi guarda la profondità del cielo dal basso della terra. Invece ci tocca una stagione, civile ed ecclesiale, che ha il grigio di questo cielo pallido. Se tento di percorrerne i motivi, da un po’ di scritti in qua, non è che sia preso da smanie luterane, nella vigilia dei cinquecento anni dalla Riforma. E dunque non penso a chiese parallele a quella romana (cosa su cui amici lettori mi stanno interrogando), quando impallino certe vetustà che la annebbiano, quando per certo non la infangano. Così come chiaramente non mi allineo a “quelli che tutti gli altri paesi” sono sempre meglio del nostro, quando – e quanto impropriamente lo si può vedere anche senza il collirio dell’intransigenza – quando si vuol solo tirare la giacchetta alla storia e alla vita, e tirarla sulle proprie voglie in barba alla obiettività. Perché, come sempre, il vero grande conflitto è tra verità e menzogna, da Pilato in giù. Tra la verità che stirerebbe le pieghe dentro cui ci si nasconde, e la menzogna che invece provoca disagi e sofferenze, se non disastri sia dentro la Chiesa sia nella società civile. I care, mi sta a cuore, e profondamente, che si esca da questa palude, che riflette il plumbeo di un cielo terreno. “Ecco l’unica cosa decente che ci resta da fare: stare in alto (cioè in grazia di Dio), mirare in alto (per noi e per gli altri) e sfottere crudelmente non chi è in basso, ma chi mira in basso. Rinfacciargli ogni giorno la sua vuotezza, la sua miseria, la sua inutilità, la sua incoerenza”. La mediocrità: ho sentito molto familiare alle mie idee don Milani, fin da subito, quando di nascosto ho avuto quel suo Esperienze pastorali, libro non all’Indice ma ritirato dal commercio per sospetto di lesa maestà dei canoni ecclesiastici del tempo; e avuto da un amico libraio che, sottobanco, soddisfaceva le mie curiosità di seminarista già in poco odore di santità. Della santità da canonizzazione: fedeli nei secoli come i carabinieri?! Ma di quale fedeltà si parla? Di quale fedeltà si deve parlare? Quella di chi è ministro per il bene comune, e poi, pur di tenersi stretto l’amato, quasi marito, combina pasticci?; o del cardinale che si difende, al modo d’asilo d’infanzia, e dunque “non solo io” ma altri trenta hanno appartamenti sovradimensionati? E poter dire che il Giubileo non sta funzionando proprio là dove, per una esemplarità, ci si aspetterebbe incidesse di più: dirlo è così irrispettoso? o è invece doveroso? È tempo di deporre le vesti che coprono il vuoto, vesti dell’inganno: lo dice Isaia a chiunque oggi afferma errori intorno al Signore rintanandosi nelle paure di chi non sa osare la liberazione evangelica; ma lo dice, se lo si vuol ascoltare, anche ai tanti politici che macchinano scelleratezze con parole menzognere, se non si vuole che i palazzi del potere, ecclesiastico e civile, siano abbandonati da Lui che solo ne è il fondamento. La scelta di strade le quali non siano tortuose ma vadano subito al cuore del problema; non girando attorno alla fede, ma mettendola al centro: così si salva l’uomo, così si educa un adolescente. Anni cinquanta, non c’era il Grest, ma il suo antenato – il biliardino – e c’era in tutte le parrocchie. Risultato? l’antivangelo che viviamo nelle nostre stesse comunità, in chi parteggia per chi tira su i muri. Non perdete tempo con quelle cose, voi dedicatevi a quanto vi è stato consegnato: mettetevi a capo, e al fianco, della via; e dentro, a vita che conduce. Lo diceva ormai settant’anni fa il prete di Barbiana. Stare qui a ripeterlo oggi ci tocca, anche se amareggia per tutto il tempo perduto. E che ancora si sta perdendo.